Finché non cominciai l’università non sapevo cosa fosse la posta elettronica. Ne avevo sentito parlare, e sapevo che in un qualche senso ce l’avrei «avuta». – Sarai sofisticatissima, – disse la sorella di mia madre, che aveva sposato un informatico, – sempre a mandare e… mail –. Calcando la e e facendo una pausa prima di mail.
Quell’estate sentivo nominare la posta elettronica con sempre maggiore frequenza. – Le cose stanno cambiando a una velocità incredibile, – disse mio padre. – Oggi al lavoro ho navigato sul World Wide Web. Ero al Metropolitan Museum, e un attimo dopo ero all’Anıtkabir –. L’Anıtkabir, il mausoleo di Atatürk, si trova ad Ankara. Non capivo di cosa stesse parlando mio padre, ma sapevo che quel giorno non era stato «ad» Ankara in nessun senso ragionevole del termine, quindi non gli diedi davvero retta.
Il primo giorno di università mi misi in fila davanti a un tavolinetto pieghevole e alla fine mi vidi assegnare un indirizzo e-mail e una password provvisoria. L’«indirizzo» comprendeva il mio nome – Karadagğ, ma tutto in minuscolo, e senza la ğ turca, che è muta. Fin da piccola avevo capito che le g mute facevano ridere. «La g è muta», dicevo con voce stanca, ed era sempre una battuta esilarante. Non capivo però in che senso l’indirizzo e-mail era un indirizzo, o di che cosa rappresentava l’abbreviazione. – E questo a che serve, a impiccarci? – chiesi, tenendo in mano il cavo Ethernet.
– Lo si attacca alla presa a muro, – disse la ragazza dietro il tavolinetto.
Per quel poco di idea che me n’ero fatta, credevo che la posta elettronica fosse simile al fax, e che richiedesse una stampante. Ma di stampanti non ce n’erano. Era tutto un altro mondo. Si poteva accedere solo da alcuni computer, che erano sparsi in mezzo al paesaggio di tutti i giorni e a vederli non erano diversi dai computer normali. Sempre lí, immutata, in una configurazione che nessun altro poteva vedere, stava una lista luccicante di messaggi inviati da tutte le persone che conoscevi, e da gente che non conoscevi, tutti scritti con gli stessi caratteri, come fosse la calligrafia universale del pensiero o del mondo. Alcuni messaggi avevano la tradizionale forma epistolare, con «Cara» e «Cordialmente»; altri erano telegrafici, scritti tutti a lettere minuscole e senza punteggiatura, come se venissero emessi direttamente dal cervello del mittente. E ogni messaggio conteneva quello prima, quindi ti tornavano indietro le tue stesse parole: tutte le parole che avevi sputato fuori, tornavano indietro. Era come se la storia dei tuoi rapporti con gli altri, la storia dell’intersecarsi della tua vita con le altre, venisse costantemente registrata e aggiornata, e tu potessi controllarla in ogni momento.
Bisognava fare un sacco di file e ritirare un sacco di materiali stampati, perlopiú istruzioni: come reagire alle molestie sessuali, dichiarare un disturbo dell’alimentazione, fare domanda per i prestiti studenteschi. Ti facevano vedere il video di uno studente laureato da poco che si rompeva una gamba e non riusciva a ripagare le rate del prestito, dimostrando che il budget che aveva stabilito era sbagliato: un buon budget deve mettere in conto anche eventuali traumi debilitanti. La banca era una miniera inesauribile, in fatto di file e materiali stampati. Ti davano pure un dizionario in omaggio. Sul dizionario non c’era né «ratatouille» né «diavolo della Tasmania».
Sulle scale, avvicinandomi alla mia stanza, sentii una voce stonata che cantava e il rumore di un paio di ciabatte di plastica. La mia nuova compagna di stanza, Hannah, era in piedi su una sedia ad attaccare sopra la sua scrivania un cartello che diceva SCRIVANIA DI HANNAH PARK, e accompagnava con una lagna monotona i Blues Traveler che aveva nel lettore cd portatile. Quando entrai si voltò con una pantomima di sorpresa, beccheggiando di qua e di là, poi saltò rumorosamente a terra e si tolse le cuffie.
– Hai mai pensato di fare il mimo per mestiere? – chiesi.
– Il mimo? No, cara, purtroppo i miei mi hanno mandata a Harvard per farmi fare il chirurgo, non il mimo –. Si soffiò sonoramente il naso. – Ehi, la mia banca mica me l’ha regalato un dizionario!
– Ma non c’è neanche «diavolo della Tasmania», – dissi io.
Lei mi tolse il dizionario di mano, sfogliandolo rapidamente. – Ci sono comunque un sacco di parole.
Le dissi che poteva tenerselo. Lei lo mise su uno scaffale accanto al dizionario che le avevano regalato alle superiori come premio per essere stata la migliore del suo anno. – Stanno bene vicini, – disse. Le chiesi se sull’altro dizionario c’era «diavolo della Tasmania». Non c’era. – Ma il diavolo della Tasmania non è un personaggio dei cartoni animati? – mi chiese con aria sospettosa. Io le feci vedere la pagina del mio altro dizionario dove compariva non solo «diavolo della Tasmania» ma anche «lupo della Tasmania», con un’immagine del lupo che si guardava, con un pizzico di tristezza, dietro la spalla sinistra.
Hannah si mise molto vicino a me e fissò la pagina. Poi guardò a destra e a sinistra e mi sussurrò con veemenza all’orecchio: – È tutto il giorno che va avanti questa musica.
– Che musica?
– Shhh, stai ferma immobile.
Rimanemmo ferme immobili. Da sotto la porta dell’altra coinquilina, Angela, arrivò flebilmente un romantico suono di archi.
– È la colonna sonora di Vento di passioni, – sussurrò Hannah. – È tutta la mattina che la sente, da quando mi sono alzata. Se ne sta chiusa lí dentro a mettere e rimettere quella cassetta in continuazione. Ho bussato e le ho chiesto di abbassare il volume ma si sente lo stesso. Solo ascoltandomi i cd in cuffia sono riuscita a coprirla.
– Non è tanto forte, – dissi.
– Ma è comunque strano che se ne stia lí dentro cosí.
Angela era arrivata nel nostro appartamento di due stanze per tre persone la mattina prima alle sette e si era presa la singola, lasciando me e Hannah a dividerci la doppia coi letti a castello. Quando arrivai, la sera, trovai Hannah che girava per la stanza infuriata, spostando i mobili, starnutendo e imprecando contro Angela. – Non l’ho neanche vista! – strillò da sotto la propria scrivania. Riuscí finalmente a separare le due cose che stava tirando in direzioni opposte, e batté la testa. – AHIAAA! – gridò. Strisciò fuori da lí sotto e indicò furibonda la scrivania di Angela. – Li vedi quei libri? Sono finti! – Afferrò quella che sembrava una pila di quattro volumi rilegati in pelle, uno con LA SACRA BIBBIA stampato sul dorso, me la scosse sotto il naso e la sbatté sul ripiano. Era una scatola di legno. – Che poi cosa ci terrà qua dentro? – Bussò sulla Bibbia. – Il suo, di testamento?
– Hannah, per favore, tratta bene le cose degli altri, – disse una voce delicata, e notai due piccoli coreani, palesemente i genitori di Hannah, seduti sulla panchetta sotto la finestra.
Entrò Angela. Aveva un’espressione dolce ed era nera, e portava un giubbotto di Harvard e uno zaino di Harvard. Hannah la affrontò subito sulla questione della singola.
– Hmm, sí, ho capito, – disse Angela. – È solo che sono arrivata prestissimo e avevo un sacco di valigie.
– Le ho notate le valigie, – disse Hannah. Spalancò la porta della stanza di Angela. Sopra l’unica, minuscola finestra erano stati appesi un telo ingiallito e una ghirlanda di rose di stoffa, e nella penombra si vedevano quattro o cinque valigioni grossi quanto un essere umano.
Dissi che magari nella singola potevamo dormirci a turno per un terzo dell’anno, cominciando con Angela. Entrò la madre di Angela, trascinandosi dietro un’altra valigia. Si fermò sulla soglia della stanza di Angela. – Non è certo una reggia, ma pazienza, – disse.
Il padre di Hannah si alzò e tirò fuori una macchina fotografica. – Le prime compagne di stanza! È un rapporto importante! – disse. Scattò diverse foto a me e a Hannah ma nessuna a Angela.
Hannah comprò un frigorifero per il salottino comune. Disse che potevo usarlo se anch’io compravo qualcosa per il salotto, tipo un poster. Le chiesi che tipo di poster aveva in mente.
– Uno psichedelico, – disse.
Io non sapevo cosa fosse un poster psichedelico, perciò mi fece vedere il suo quaderno psichedelico. Sulla copertina c’era una spirale fluorescente in stile hippy, con delle lucertole viola che ci camminavano sopra e scomparivano verso il centro.
– E se cosí non ce l’hanno? – chiesi.
– Allora una foto di Albert Einstein, – disse con decisione, come se la seconda scelta fosse scontata.
– Di Albert Einstein?
– Sí, una di quelle foto in bianco e nero. Hai presente, no? Einstein.
La libreria del campus, in effetti, aveva una vasta scelta di poster di Albert Einstein. C’era Einstein davanti a una lavagna, Einstein in macchina, Einstein che faceva la linguaccia, Einstein che fumava la pipa. Non capivo bene perché dovevamo avere un ritratto di Einstein appeso al muro. Ma era sempre meglio che comprarmi un frigo mio.
Ai miei occhi il poster prescelto non era né meglio né peggio degli altri poster di Einstein che c’erano nel negozio, ma Hannah sembrò non apprezzare. – Hmm, – disse. – Direi che sta bene lí –. Indicò lo spazio sopra la mia libreria.
– Ma cosí tu non lo vedi.
– Non fa niente. Sta meglio lí.
Da quel giorno, chiunque passasse per la nostra stanza – vicini che volevano farsi prestare qualcosa, tecnici dei computer, candidati al consiglio studentesco, tutta gente che per i miei piccoli entusiasmi avrebbe dovuto nutrire scarso interesse, o totale disinteresse – si faceva in quattro per sfatare la mia grande ammirazione nei confronti di Albert Einstein. Einstein aveva inventato la bomba atomica, maltrattava i cani, trascurava i figli. – Ci sono tanti geni piú grandi di Einstein, – disse un ragazzo bulgaro del primo anno che si era fermato per prendere in prestito la mia copia del Sosia di Dostoevskij. – Alfred Nobel odiava la matematica e non ha dato il Nobel a nessun matematico. Ma ce n’erano tanti che l’avrebbero meritato piú di lui.
– Ah –. Gli porsi il libro. – Be’, ciao, ci vediamo in giro.
– Grazie, – disse lui, guardando torvo il poster. – Comunque quello è un uomo che picchia la moglie, la costringe a risolvere i suoi problemi matematici, a fare il lavoro sporco, e si rifiuta di riconoscere i suoi meriti. E tu ti attacchi la sua foto al muro.
– Senti, io non c’entro niente, – dissi. – Non è veramente mio, il poster. È una questione complicata.
Non mi stava ascoltando. – In questo paese Einstein è sinonimo di genio, mentre tanti geni piú grandi di lui non li conosce nessuno. Perché? Te lo chiedo.
Sospirai. – Forse perché è davvero il migliore, e anche gli invidiosi che provano a infangarlo non riescono a nascondere la sua levatura, – risposi. – Nietzsche direbbe che un genio di quella portata ha il diritto di picchiare la moglie.
Questo lo zittí. Dopo che se ne andò, pensai di staccare il poster dal muro. Volevo essere una persona coraggiosa, che non si faceva intimidire dalle opinioni sceme degli altri. Ma qual era l’opinione scema: pensare che Einstein fosse un grande, o pensare che non valesse niente? Alla fine il poster lo lasciai dov’era.
Hannah russava. Tutto ciò che nella stanza non era di legno massiccio – i vetri delle finestre, le doghe del letto, le molle del materasso, la mia cassa toracica – vibrava di riflesso. Non serviva svegliarla o girarla. Un minuto dopo ricominciava. Se lei dormiva, io ero automaticamente sveglia, e viceversa.
Convinsi Hannah che soffriva di apnea ostruttiva notturna, disturbo che le privava di ossigeno le ce...