Una yurta sull'Appennino
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Una yurta sull'Appennino

Storia di un ritorno e di una resistenza Einaudi

  1. 120 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Una yurta sull'Appennino

Storia di un ritorno e di una resistenza Einaudi

Informazioni su questo libro

Marco Scolastici era un ragazzo come tanti, iscritto alla facoltà di Economia a Roma, pieno di incertezze sul futuro. Poi un giorno, in un bar, si è imbattuto in una foto su un calendario: ritraeva il vecchio acero di Macereto, il Monte Bove, i pascoli in cui suo bisnonno Venanzio era cresciuto: curandoli, desiderandoli e infine comprandoli. Meno di una settimana dopo Marco ha lasciato la capitale. Il suo è stato un viaggio di ritorno verso casa difficile, talvolta doloroso, e quando pareva concluso la terra ha cominciato a tremare: era il 2016. Il buon senso gli suggeriva di scappare, ma quello sconosciuto altopiano delle Marche per lui era la vita. Non poteva abbandonare le sue pecore, i suoi asini, i maremmani. Cosí ha montato una yurta mongola accanto alla propria casa inagibile e ci ha trascorso l'inverno. Il sisma non sarebbe stato la fine di tutto, ma l'occasione per un nuovo inizio.

«Il silenzio è diluito in tutto ciò che fa parte dell'altopiano. Anche per questo il terremoto è stato sconvolgente: per la prima volta ho sentito le montagne urlare e, dopo l'urlo, i rumori sono diventati gli stessi che si sentono ovunque. È stato cosí per settimane, mesi, poi lentamente la natura ha cominciato a ricucire le cose, come è avvenuto milioni di volte nella storia di questa terra. Tra poco il silenzio tornerà a essere intatto come lo era nelle prime settimane in cui esploravo Macereto alla ricerca del suo sussurro».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806238827
eBook ISBN
9788858429259
1.

NEVE

Dove tutto è immobile eppure inizia
Per i nomadi delle steppe mongole questa tenda è stata per millenni casa, patria, libertà e mappa dell’esistenza. Rotonda come la Terra e circolare come il suo moto, la copertura rappresenta la volta del cielo; il foro al centro, da cui ora sporge blasfemo il comignolo della mia stufa, il sole. All’interno erano presenti i cinque elementi che regolano il cosmo: il legno della struttura portante, il fuoco del focolare, il ferro delle pentole, l’acqua delle scorte e la terra su cui la yurta poggia leggera, pronta a essere smontata per seguire greggi e cavalli verso nuovi pascoli. Dentro, solo ciò che può stare su un carro: tappeti, credenza, tavolo, sgabelli, oltre ai due montanti centrali, simbolo del maschile e del femminile. Niente finestre che farebbero entrare il freddo e gli spiriti malevoli. Un’unica porta rigorosamente orientata verso sud in direzione della luce e della vita.
Dal letto dove da un paio d’ore cerco di prendere sonno, punto il fascio della pila verso l’ingresso che ho voluto invece rivolto verso la casa e le stalle, in barba a ogni tradizione. La luce oltrepassa il piccolo riquadro di vetro scontrandosi con una parete solida, bianca, magnetica. Il bozzolo scavato ieri con fatica per raggiungere la legna sembra ora il tentativo di un bambino che gioca a fare l’eschimese. Un tentativo nemmeno tanto ben riuscito.
Controllo l’ora al polso: le sei e dieci.
Istintivamente alzo gli occhi a cercare la prima luce che dovrebbe filtrare dal cappello trasparente fra i montanti, ma poi ricordo che da tre giorni la neve ha coperto il tetto chiudendo ogni via alla luce.
Che l’alba fuori stia nascendo è comunque una buona cosa perché vuol dire che tra poco, se le linee hanno tenuto, potrò ricominciare a rompere le scatole alla Protezione Civile, chiamare i comuni, ricevere aggiornamenti e rassicurare le persone che aspettano notizie. Circa una decina a cui dovrò spiegare che sí, sono ancora bloccato, ma sto bene, al caldo, con cibo e acqua sufficienti. Almeno io.
La notizia cattiva invece è che il frastuono della bufera fuori dalla tenda non è diminuito, il che vuol dire, ragionando a spanne, che i due metri di ieri sera potrebbero ora essere cinquanta, sessanta centimetri di piú. Mezzo metro di neve compatta sui tetti delle stalle, che già non erano agibili, e su quello della yurta, che non è certo uno chalet alpino. Mezzo metro in piú in cui sprofondare per raggiungere il container e i magazzini.
La sveglia impostata sul cellulare suona. Lo fa ogni due ore durante la notte di modo che possa alimentare la stufa. Non mi trova quasi mai addormentato. Da quando sono chiuso qui dentro il mio sonno è sottile come una crosta di formaggio. Le scosse piú piccole lo rompono come potrebbero fare delle parole sussurrate all’orecchio. Quelle piú grandi come urla in strada di un ubriaco o di qualcuno che litiga.
La gente pensa che ciò che ti rimane del terremoto, una volta passato, sia la sensazione che la terra continui a tremare. Non è cosí. Un terremoto è prima di ogni altra cosa un suono. È quello che ti rimane nella testa una volta che la terra ha smesso di scuoterti. È quel suono che cerchi tendendo l’orecchio e arrivi a sentire anche quando non c’è. Come quando ti pare di sentire chiamare il tuo nome, pur sapendo di essere solo.
Esco da sotto le coperte dove mi accorgo di essere bagnato di sudore.
Nella tenda ci sono almeno venti gradi, troppi, ma se lasciassi spegnere la stufa la temperatura scenderebbe di colpo e mi ritroverei a dover accendere quella a gas per recuperare gradi. Nelle settimane passate, quando l’eccezionale cattivo tempo era stato annunciato, Pietro, Giorgio e io abbiamo preparato fuori dalla yurta e dal container una buona scorta di legna. La bombola del gas invece è già a metà. Meglio tenerla per un’emergenza. Mentre lo penso ridacchio amaro: vivo in una tenda perché la casa è inagibile da mesi, lo sciame sismico non molla, sono isolato da giorni sotto tre metri di neve e ci sono molte probabilità che le stalle siano crollate: e sto qui a conservare risorse perché ci potrebbe essere un’emergenza?
Infilo i pantaloni che ieri sera ho messo bagnati vicino alla stufa. Sono asciutti, quasi croccanti. Mentre li abbottono mi blocco di colpo cercando di ritrovare nel fruscio di fondo della bufera qualcosa che per un momento mi è parso di sentire. Niente. Probabilmente dipende dalla direzione del vento, da quanto è forte. Ammesso che non si tratti solo della mia immaginazione. D’istinto ricontrollo l’ora: ammesso che siano vive, non mangiano né bevono da piú di settanta ore. Se lo sono di sicuro stanno chiamando. Sono abitudinarie, basta che tardi di mezz’ora e cominciano a lamentarsi, figuriamoci ora…
Mi verso un po’ di caffè dal pentolino che tengo sempre in caldo in un angolo della cucina economica. È solubile e piuttosto schifoso, ma paradossalmente mi aiuta a riprendere sonno quando le scosse mi svegliano. Mi piace la tazza metallica rossa dove lo bevo. Mi piace che abbia la scritta di un centro commerciale pieno di luci, rumore, cose inutili e persone. Un posto che mi faceva schifo e che adesso potrebbe stare nella top ten dei miei desideri.
Mentre sorseggio l’arabica scadente, il cellulare squilla. Lo raccolgo dal letto dove è collegato all’alimentazione. È Fabio. Prima di rispondere controllo la carica: settanta per cento. Ieri il black-out è durato sei ore e anche nella notte la luce per qualche ora deve essere andata via. Settanta per cento comunque è abbastanza.
– Ciao, Fabio, – rispondo, – dammi solo belle novità.
– Come va lí?
– Sole, mare calmo, mi sono anche un po’ scottato. Dimmi dài, che ho già capito che butta male.
– Vuoi la versione corta o quella diplomatica?
– Corta.
– Stanotte, malgrado la gelata, ci abbiamo riprovato, ma niente da fare. Dove la statale comincia a ballare sull’altopiano e il vento ammucchia ce ne sono almeno quattro metri. In piú è neve pesante. Tu non riesci ad arrivare al trattore?
– Secondo te? Ieri ho scavato sei ore e sono riuscito a malapena a mettere il naso fuori.
– I lavoranti non possono darti una mano?
– Giorgio e Pietro erano vicino al container, ma la bufera era troppo forte, ci siamo gridati di tornare dentro e aspettare. E comunque, ammesso che il gasolio non sia gelato, la lama del trattore sopra i settanta non pulisce.
– Ok.
– Mica tanto, una turbina non la mandano?
– Per ora no. Ha nevicato fino alla costa, i mezzi sono dirottati sulle strade piú trafficate. Hai parlato con gli altri comuni?
– Ieri mattina, prima che le linee cadessero. A Ussita dicono che i terreni dell’azienda sono per la maggior parte su Visso, quindi se ne devono occupare loro. A Visso che l’azienda è iscritta sotto il comune di Pieve Torina. E a Pieve Torina che i terreni sono su Ussita e Visso, spetta a loro.
– Non mi dici niente di nuovo. Stanotte le scosse hanno fatto venire giú 200 metri di bosco che hanno bloccato la strada verso il pilone. Sono due ore che litigano per decidere chi manda chi a fare cosa. La tua tenda però regge, no?
– Sí, ma devo uscire a liberarla dal peso.
– Ok, lavorare è meglio che stare ad aspettare e preoccuparsi. Luce? Legna?
– Legna bene, luce va e viene, come il telefono.
– D’accordo, ci teniamo in contatto.
– Come due fidanzati.
Stacco, bevo un sorso del caffè che intanto si è freddato e comincio a camminare lungo il perimetro della tenda, sapendo perfettamente che tra cinquantadue passi mi ritroverò al punto di partenza. Cinquantatre, se facessi il perimetro in senso antiorario.
Ho ripetuto l’esperimento molte volte con lo stesso risultato. La conclusione tratta in un momento di grande pessimismo è stata che ho una gamba piú corta dell’altra. Quella piú fantasiosa, in un momento di grande stanchezza, è che la rotazione terrestre incida sul mio moto.
Mentre sgranchisco le gambe, rispondo ai messaggi. Due sono dei miei: la mamma la mette sul preoccupato, quindi rispondo per metà ironico e per metà affettuoso. Il babbo sul virile, quindi mi attengo al pragmatico gergo degli allevatori. A Raimondo che manda aggiornamenti meteo rispondo grazie, che sono collegato anch’io. A quel coglione di Matteo che chiede se quando mi tireranno fuori vado con lui in settimana bianca a Cervinia, solo un emoticon con il dito medio. A Lucia che scrive una cosa bella e solo nostra, rispondo piú con il corpo che con la testa. Poi mi blocco al momento dell’invio, sicuro che questa volta li ho proprio sentiti.
Poso tazza e cellulare, e corro ad allacciare gli scarponi. Giacca a vento, guanti, la pala mi aspetta appoggiata accanto alla porta. Appena aperti i battenti il freddo e il bianco totale del fuori mi riportano alla realtà: tutta questa fretta non serve a nulla. Comincio con calma a lavorare, appiattendo sotto i piedi quel che strappo alla parete e procedendo secondo un piano inclinato, di modo che lo strato sopra la mia testa non crolli.
Un’ora dopo vedo la prima luce filtrare. Lo strato sottile che rimane si sgretola da sé, arrivandomi in faccia, ma prendo finalmente una boccata d’aria vera, anche se ghiacciata.
Infilo la maschera da sci, chiudo la giacca fino al mento e scivolo fuori dal buco come un carrista dal proprio mezzo in fiamme nel cuore della battaglia. Intorno un fuoco di miliardi di fiocchi resi taglienti dal vento e dal freddo. Visibilità? Cinque metri forse, oltre i quali il mondo è solo ovatta.
Resto in ascolto e questa volta sono certo di averli sentiti. Almeno due degli asini stanno ragliando. È una cosa che fanno spesso e per motivi differenti, ma il verso della sete è diverso da quelli della paura, del calore o del parto. Quello della sete è un grido interrogativo, pieno di stupore e disappunto, come di uno che si lancia con il paracadute e scopre tirando la corda che lo zaino contiene soltanto una tovaglia da picnic.
Provo a fare qualche passo nella direzione in cui penso si trovi la casa. Una volta trovati i muri potrò seguirli fino a svoltare l’angolo e raggiungere la stalla, ma basta poco per ritrovarmi sprofondato fino alle ascelle.
«Cretino!» mi dico.
Riprovo, stesso risultato e in piú, quando alzo la testa per guardarmi attorno, non sono piú cosí sicuro di dove mi trovo. Cerco un riferimento in direzione della yurta, ma la bufera copre tutto di un identico cotone. Sono nel cortile di casa eppure in mezzo al niente.
– Marco! – sento gridare.
– Oh!
– Marco!
Adesso riconosco la voce di Giorgio. Chiamo anch’io, qualche minuto e lo vedo comparire come una sagoma scura che mi afferra sotto le ascelle e mi aiuta a sollevarmi. Mentre mi alzo noto che, legate sotto le scarpe, ha delle racchette rudimentali: due assicelle di legno fissate alla scarpa con dei cordini. Lui e Pietro vengono dalle campagne rumene, di nevicate ne hanno viste parecchie, è evidente che sanno meglio di me come arrangiarsi.
– Tutto bene? – mi chiede.
Annuisco, anche se non sono sicuro possa notarlo, poi ci diamo la mano. È stupido, a ben pensarci: due che si dànno la mano in mezzo alla bufera, dopo che per due giorni non si sono visti perché erano sepolti uno in una yurta l’altro in un container. Abbracciarsi, avrebbe avuto un senso. Non fare niente, lo avrebbe avuto, ma darsi la mano…
– Pietro? – gli domando.
– A posto, l’ho lasciato dentro. Che vuoi fare tu?
– Vado alle stalle.
– Lascia perdere.
– Posso farmi delle racchette come le tue.
Scuote la testa.
– Perché no?
– Ci perdiamo.
– Sono trecento metri!
– Facciamo dieci passi, poi non sappiamo piú dove siamo. Andiamo da parte sbagliata. E finisce lí.
È molto calmo mentre lo dice, come a farmi capire che la scelta in fondo è mia.
– Non bevono da tre giorni! – grido.
Lui annuisce che lo sa.
– E qualcuno degli asini secondo me è uscito, – aggiungo.
– Ho se...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una yurta sull’Appennino
  4. 1. NEVE. Dove tutto è immobile eppure inizia
  5. 2. PARIOLI. Dove un albero in un bar può dire parecchio
  6. 3. PADRI. Dove chi doveva essere sorpreso, sorprende
  7. 4. DIARIO. Dove Oliver Twist pascola tre agnelle…
  8. 5. MACERETO. Dove un mucchietto di pietre sussurra
  9. 6. TERREMOTO. Dove si gioca con le contraddizioni…
  10. 7. RESPIRO. Dove un geotritone vale piú di tante parole
  11. 8. YURTA. Dove un canale di Amsterdam arriva dritto…
  12. 9. TRAPPOLA. Dove si scava e sembra niente…
  13. 10. NEVE. Dove la neve però è tutta un’altra cosa
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Copyright