Il dottore osserva Paolina da dietro le lenti bifocali: guarda il foglio che ha in mano e poi guarda Paolina, ha un’espressione seria, due rughe sottili ai lati della bocca chiusa, due rughe profonde tra le sopracciglia, e gli occhi dondolano lentamente tra il foglio e la ragazza.
– Quanti anni hai? – domanda con la voce bassa.
– Quindici, – risponde Paolina, ma è cosà emozionata che non sa nemmeno se ha risposto bene.
Il dottore piega il foglio con cura, un sorriso gli smuove la faccia, un breve lampo che s’apre e si chiude in quella faccia annuvolata. La stanza è bianca come un frigorifero, alle pareti immagini di ruderi romani e diplomi incorniciati di lauree e specializzazioni, una bilancia vicino alla finestra e contro il muro un lettino di ferro smaltato per le visite. Paolina ha la pelle d’oca sulle braccia, chissà perché si dice cosÃ, pensa, le oche hanno penne e piume, la pelle non si vede.
– Sei stata promossa quest’anno?
– Ad aprile ho lasciato la scuola.
– E perché?
– Non lo so.
– Non ti piace studiare?
– Forse non sono fatta per i libri. Leggo e non capisco niente.
– E per cosa sei fatta?
– La mattina mi piace camminare. A scuola mi sento prigioniera, mi manca il fiato.
– Non stai bene con le ragazze e i ragazzi della tua età ?
– Non tanto.
– E perché?
– Ridono di cose che io non capisco.
Ora è come se il dottore, finite le domande, cercasse altre parole per dire quello che deve dire, muove lentamente la testa grossa e calva, stringe le labbra, guarda il soffitto e poi Paolina negli occhi. – Sei incinta di tre mesi, forse quattro.
Paolina resta con la bocca aperta e dagli occhi chiari in quel buio colano due lacrime silenziose. Si alza in piedi, si tocca i capelli, s’allontana di qualche passo, fino al lettino di ferro, batte un piede, poi torna a sedersi.
– Non è possibile, – dice, e la voce è un filo grigio.
– Però è proprio cosÃ, – ribadisce il dottore.
– L’altra settimana ho comprato il test in farmacia e le striscette rosse non sono apparse.
– Sei incinta, non c’è dubbio. Auguri, mi dispiace, che vuoi che ti dica?
– E ora che devo fare?
– Questo lo puoi sapere solo tu. Magari ora ti fai un giro, cammini, ci pensi su, e poi torni e mi dici cosa hai deciso. Non hai tempo da perdere.
Abbassa gli occhi, Paolina, si vergogna di stare davanti a quell’uomo con il camice bianco e la faccia seria, davanti a quel foglio ora aperto sul tavolo di formica, sente nelle gambe la stanchezza. Se potesse, poggerebbe la testa sul tavolo e dormirebbe, come sul banco di scuola delle elementari. – Ora vado, – dice, ma non va.
– Ho altri pazienti da visitare, i vecchi arrivano presto la mattina, – dice il medico.
– SÃ, vado e torno.
I vestiti dell’estate riempiono di colori la vetrina del negozio appena aperto, canottiere rosse gialle verdi, pantaloni corti alle caviglie bianche dei manichini, gonne con mille pieghe pronte a svolazzare, camicie larghe per gonfiarsi con il vento dei motorini. Paolina finge di osservare tutta quella merce allegra distesa oltre il vetro, nella luce ancora fresca delle nove e mezza di mattina, ma in realtà guarda la sua immagine riflessa. Si gira di fianco, forse la pancia ha una curva leggera, nuova. Cerca di stare dritta con la schiena, per controllare meglio se davanti qualcosa già sporge, se i seni si sono un poco ingrossati: forse sÃ, forse no. Fa una smorfia da attrice, sorride come le ragazze piú grandi e sicure a ricreazione, saluta alzando la mano e muovendo le punte delle dita, e poi gli occhi scivolano verso tutti quei vestiti in saldo, controllano i prezzi, le offerte. C’è una gonna azzurra e bianca che di sicuro le starebbe bene, le fa pensare a una vela nel mare. Esita per un minuto davanti la porta del negozio, entra come per caso, per distrazione, bisogna fare sempre cosà con tutti e in ogni luogo, gliel’ha spiegato un’amica che ha due anni di piú. Fingere che niente sia davvero importante, che si può sputare su ogni cosa. La commessa, una ragazza che non avrà neanche vent’anni, sta ripiegando alcune magliette: sono gesti rapidi, precisi, incantevoli, Paolina passerebbe ore a guardare quell’operazione, quelle mani che chiudono in un baleno la maglietta come una lettera d’amore in una busta, e poi un’altra e un’altra ancora, senza nemmeno piú badare ai gesti, mani veloci che sollevano una torre perfetta, dritta e colorata. Piacerebbe anche a me fare la commessa, pensa Paolina, sorridere alle persone, consigliarle, recitare e vendere ogni giorno cose belle. Chissà i padroni quanto le danno al mese, seicento euro, settecento? E a dicembre forse qualcosa in piú, per i suoi regaletti di Natale, e magari le fanno scegliere un vestito, se lo porta a casa gratis. La commessa è un bel lavoro, non serve studiare e non serve neanche pensare, basta essere simpatica, avere la grazia nelle mani e in viso.
– Cerchi qualcosa, posso aiutarti?
– Vorrei provare quella gonna bianca e blu che sta in vetrina.
L’ha già provata il mese scorso, ma non aveva i soldi per comprarla, e i soldi non ce li ha nemmeno adesso, ma non importa, le va di entrare nel camerino, spogliarsi, indossare la gonna, fare le mosse davanti lo specchio. Tante amiche di Paolina sono brave a rubare, gironzolano nei grandi magazzini come gatte e in un attimo fanno sparire una maglietta o un trucco nello zaino. Lei le invidia per come sono sfacciate, per come sono capaci a cogliere il momento giusto: a loro il cuore non batte a cento all’ora, non hanno paura di niente. Anche Paolina, per dimostrare di non essere vigliacca, una volta s’era messa in tasca un rossetto di marca, era sicura che nessuno l’avesse vista, ma sentiva il cuore che bruciava: e prima di uscire dal negozio aveva posato il furto su un tavolo di vetro e per strada era scappata via di corsa mentre le amiche ladre ridevano correndo accanto a lei. In certe profumerie i padroni tolgono i soldi della merce rubata alle commesse, cosà le avevano raccontato, e Paolina non voleva avere le labbra rosse e lucide mentre un’altra ragazza piangeva.
– Che taglia porti? – domanda la commessa col sorriso stampato in faccia.
– Una quarantadue.
– Ecco, tieni, – dice porgendo a Paolina la sua gonna bianca e blu.
Paolina si chiude nel camerino, si sfila i vecchi jeans, si infila la gonna. Le mani e la fronte le sudano mentre cerca di allacciare il bottone in vita, lo scorso mese c’è riuscita senza alcuno sforzo, stavolta invece il bottone e l’asola restano lontani. Insiste, tira, e finalmente incastra il bottone in quella fessura stretta: si rilassa per un momento e il bottone strappa i fili e schizza via sul pavimento, è un occhio blu scuro che la guarda severamente. Stai diventando grossa, rimprovera l’occhio bottone, ti sformi ogni giorno di piú. Paolina acceca il bottone con il piede nudo, lo sente sotto la pianta e spinge forte, come fosse un insetto.
– Tutto bene? – domanda la commessa con la voce zuccherata.
– SÃ, tutto bene, – risponde Paolina.
– Come ti sta la gonna?
D’improvviso Paolina sente la testa che le gira, una nausea improvvisa che la invade come acqua sporca, le gambe sono due stracci e non riesce neanche a muoversi. Un conato di vomito la squassa, si mette la mano davanti la bocca per trattenere quell’onda schifosa, ma non può fermarla, in un attimo rovescia sulla gonna bianca e blu una melma verdastra, si inginocchia nello stanzino e vomita ancora, due, tre volte, fili di bava s’allungano fino a terra.
– Che succede?
– Niente.
– Ma che hai, ti senti male? Apri la porta!
Paolina si pulisce la bocca con il dorso della mano e schiude piano la porta: vorrebbe che di là ci fosse la strada per andare via senza dover spiegare nulla, e invece c’è la commessa con gli occhi preoccupati, e non per lei, per come si sente, ma per la gonna bianca e blu ridotta a un cencio lurido che ora Paolina le consegna.
– Hai rovinato la gonna, idiota!
– Non l’ho fatto a posta, scusami, – dice Paolina unendo le mani e abbassando gli occhi come in una preghiera.
– Ora mi paghi la gonna.
– Non ho i soldi.
– E allora che te la sei provata a fare? Vattene via ragazzina di merda e non tornare piú.
Alza gli occhi, Paolina. – Sono incinta, – dice.
– Non me ne importa niente, peggio per te, puttana, e adesso sparisci.
Sparire, forse sarebbe bello. A volte le sembra davvero di essere invisibile, quasi sul punto di dissolversi in un vapore caldo, le sembra che nessuno la veda mentre cammina per le strade di Roma. Cerca di incrociare uno sguardo che la mantenga nel mondo, che le dica sei carina, hai un bel modo di portare avanti i passi in mezzo al caos, sei una cosa che merita di esistere. Ma nessuno la nota e la tiene negli occhi, forse perché sono bassa, piccola, inutile, pensa Paolina. Però le capita anche di sentirsi bene, quando è trasparente, soprattutto la mattina. Non mi vedete, d’accordo, va bene cosÃ, sono come il vento, ci sono ma non mi vedete, soffio per le vostre strade, le vostre piazze. Non peso niente, non chiedo, non voglio niente. Però io vi guardo di continuo, e a forza di guardare imparo cosa siete, scimmiette aggrappate ai rami della vita per non cadere giú. I vostri occhiali da sole, le vostre scarpe, i tatuaggi, i capelli tagliati e aggiustati ogni mese io li conosco bene, sono tutta la vostra paura di precipitare nel nulla come sassi. Sento il tonfo nascosto dietro i sorrisi, dietro i vestiti alla moda e le parole, è un suono tremendo che riempie la città , una frana mascherata da prato fiorito. Io cammino sul bordo del vostro precipizio. Il prete del catechismo mi spiegava che ognuno di noi contiene il peccato originale, ma io già lo sapevo, lo sapevo che c’è un buco che inghiotte ogni pretesa di felicità , ogni superbia. Mia madre piangeva sempre e io le domandavo: perché piangi?, e lei scuoteva la testa, diceva io non lo so cos’è, pulisco casa, preparo il pranzo e la cena, stiro i vestiti e tutto si rovina lo stesso, la casa si sgretola nella mia testa. Questa vita mi sembra senza capo né coda, diceva la madre di Paolina, è come costruire nella distruzione. E anche lei andava dal parrucchiere e si tingeva i capelli di biondo, di rosso, di nero. Anche in chiesa andava, la penombra e gli accordi lunghi dell’organo la consolavano, e Paolina ricorda ancora la sera in cui era entrata in chiesa per cercare la madre e l’ha vista inginocchiata in un confessionale, parlava, piangeva, rideva, parlava, ma non c’era nessun prete nel buio ad ascoltarla. E poi la madre s’è avvicinata all’acquasantiera, ha immerso il suo pettinino d’avorio nell’acqua benedetta e si è pettinata con cura, come un’attrice.
Spesso neanche mia madre mi vede, pensa Paolina, passo davanti alla guardiola e non mi vede, oppure sÃ, ma è come se fossi un ricordo sfocato e non una persona che cambia ogni giorno – come se fossi una fotografia di tanti anni fa, in bianco e nero. Le pasticche ammorbidiscono il mondo, adesso parla cosà la madre, sembra di stare avvolti nella coperta, parla cosà e sorride. Paolina voleva dirglielo, ho un ritardo mamma, ho paura, forse solo per starle accanto con il suo problema, per sedersi con lei sulla stessa barca sfondata, come due sorelle. Ma poi ha sentito che era inutile, che era solo caricare altre pietre. Ognuno deve risolversi i suoi problemi senza infastidire gli altri, pensa Paolina, tanto nessuno può fare niente per me. A quindici anni, a sedici, bisogna essere in grado di cavarsela nel mondo, l’importante è non prendere decisioni, questo lo so, perché le mie decisioni sono sempre sbagliate, mi prende l’ansia e pigio un tasto a caso – cosÃ, tanto per fermare la ruota.
Si siede su una panchina del parco sopra la metro di piazza Annibaliano – ma non è proprio un parco, è cemento, pezzi di prato secco e mozziconi di alberi che aspettano di crescere: quel posto le è sempre piaciuto, da là si vede il mausoleo tondo di Santa Costanza dove una volta l’hanno portata con la scuola e anche il McDonald’s, ci sono ragazzi con lo skate e gente che non sa cosa fare e intanto riprende fiato. Di nuovo sente la nausea nella testa e in gola, è come stare sul ponte di una nave che viaggia tra le onde, che sale e scende e vomita. Paolina si punta il pugno chiuso sulla bocca, ricaccia indietro un conato che sa d’amaro. Ora che faccio, dove vado, chi mi pu...