Trilogia siberiana
eBook - ePub

Trilogia siberiana

Educazione siberiana. Caduta libera. Il respiro del buio

  1. 960 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Trilogia siberiana

Educazione siberiana. Caduta libera. Il respiro del buio

Informazioni su questo libro

È stato educato da un'intera comunità criminale a diventare una contraddizione vivente, cioè un «criminale onesto». Ha imparato l'arte del coltello e quella del tatuaggio. È finito in carcere, ha combattuto per la sopravvivenza nelle carceri della sua città e poi in Cecenia, cecchino in un reparto d'assalto. Ha visto da vicino il sistema sconcertante di poteri ombra che governano la Russia, assoldato alla difesa di un oligarca nostalgico. Ha conosciuto l'amore intenso e il dolore atroce, la violenza, la sete di vendetta e il pentimento. «Piede scalzo» è cresciuto. Incisa nei tatuaggi e nelle cicatrici del corpo e dell'anima si porta addosso la sua storia. La stessa che Nicolai Lilin ha messo nei suoi libri e che oggi si può leggere tutto d'un fiato: con una scrittura ruvida e diretta, illuminata da sorprendenti squarci d'ironia. Tra storia e leggenda, autobiografia e immaginazione, Trilogia siberiana ci regala la cronaca di un percorso emotivo di drammatica intensità.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806218805
eBook ISBN
9788858430088

Educazione siberiana

Lo so che non andrebbe fatto, ma ho la tentazione d’iniziare dalla fine.
Ad esempio, da quel giorno in cui correvamo tra le stanze di un edificio distrutto sparando al nemico da distanza cosí ravvicinata che potevamo quasi toccarlo con la mano.
Eravamo sfiniti. I paracadutisti si davano i turni, noi sabotatori invece non dormivamo da tre giorni. Andavamo avanti come le onde dell’acqua, per non dare al nemico la possibilità di riposare, di eseguire le manovre, di organizzarsi contro di noi. Combattevamo sempre, sempre.
Quel giorno sono finito all’ultimo piano dell’edificio con Scarpa, per cercare di eliminare l’ultimo mitra pesante. Abbiamo lanciato due bombe a mano.
Nella polvere che scendeva dal tetto non si vedeva niente, e ci siamo trovati davanti quattro nemici che come noi giravano come gattini ciechi nella nuvola grigia, sporca, che puzzava di macerie e di esplosivo bruciato.
Da cosí vicino, lí in Cecenia, non avevo mai sparato a nessuno.
Intanto al primo piano il nostro Capitano aveva preso un prigioniero e steso otto nemici, tutto da solo.
Quando sono uscito fuori con Scarpa, ero completamente stordito. Il Capitano Nosov stava chiedendo a Mosca di tenere d’occhio il prigioniero arabo, mentre lui, Mestolo e Zenit andavano a controllare la cantina.
Mi sono seduto sulle scale, vicino a Mosca, davanti al prigioniero impaurito, che continuava a tentare di comunicare qualcosa. Mosca non lo ascoltava, aveva sonno ed era stanco, come tutti noi. Appena il Capitano gli ha girato la schiena, Mosca ha tirato fuori dal giubbotto la pistola, una Glock austriaca, uno dei suoi trofei, e facendo una faccia strafottente ha sparato al prigioniero in testa e sul petto.
Il Capitano si è voltato e senza dire niente lo ha guardato con pietà.
Mosca si è messo seduto vicino al morto e ha chiuso gli occhi in una crisi di stanchezza.
Guardando tutti noi come se ci stesse conoscendo davvero per la prima volta, il Capitano ha detto:
– Questo è troppo, ragazzi. Tutti in macchina, a riposo, dietro la linea.
Uno dopo l’altro, come zombie, siamo partiti verso le nostre macchine. Avevo la testa talmente pesante che ero sicuro che se mi fossi fermato sarebbe esplosa.
Siamo tornati dietro la linea, nella zona controllata e difesa dai nostri fanti. Ci siamo addormentati subito, io non ho fatto nemmeno in tempo a togliermi di dosso il giubbotto e le borse laterali che sono caduto nel buio, come un morto.
Poco dopo, Mosca mi ha svegliato battendo il calcio del Kalašnikov sul mio giubbotto, all’altezza del petto.
Lentamente e senza voglia ho aperto gli occhi e mi sono guardato intorno, facevo fatica a ricordare dove mi trovavo. Non riuscivo a mettere a fuoco le cose.
Mosca aveva la faccia stanca, stava masticando un pezzo di pane. Fuori era buio, impossibile capire che ora fosse. Ho guardato il mio orologio, ma non vedevo neanche i numeri, tutto era come annebbiato.
– Che succede, quanto abbiamo dormito? – ho chiesto a Mosca con la voce sfinita.
– Abbiamo dormito un cazzo, fratello… E mi sa che dovremo stare svegli ancora per un bel po’ di tempo.
Ho chiuso la faccia tra le mani, tentando di raccogliere le forze per alzarmi e cominciare a ragionare. Avevo bisogno di dormire, sentivo addosso una stanchezza tremenda. La mia tuta era sporca e umida, il giubbotto puzzava di sudore e di terra fresca, ero ridotto a uno straccio.
Mosca è andato a svegliare anche gli altri:
– Dài, ragazzi, si parte subito… C’è bisogno di noi.
Erano tutti disperati, non volevano alzarsi. Ma lamentandosi, imprecando, si sono messi in piedi.
Il Capitano Nosov stava girando con la cornetta all’orecchio e un fante lo seguiva come un animale domestico, con la radio da campo nello zaino. Il Capitano si arrabbiava, continuava a ripetere a chissà chi, via radio, che avevamo fatto il primo riposo in tre giorni, che eravamo stremati. Tutto inutile, perché a un certo punto Nosov ha detto con un tono che ricordava il suono del tip tap:
– Sí, compagno Colonnello! Confermo, ordine ricevuto!
Dunque, ci mandavano di nuovo in prima linea.
Non volevo neanche pensarci.
Sono andato verso un bidone di ferro pieno d’acqua. Ho messo le mani dentro: l’acqua era bella fresca, mi ha dato un leggero brivido. Allora ho infilato tutta la testa dentro il bidone, sott’acqua, e l’ho tenuta un po’ lí, trattenendo il respiro.
Ho aperto gli occhi dentro il bidone e ho visto buio completo. Mi sono spaventato e ho tirato fuori immediatamente la testa, facendo un respiro profondo.
Il buio che avevo visto nel bidone mi aveva fatto un brutto effetto, mi era sembrato che la morte poteva essere proprio cosí – buia e senz’aria.
Stavo sopra il bidone, guardavo ballare sull’acqua il riflesso della mia faccia e della mia vita fino a quel momento.

Il cappello a otto triangoli e il coltello a scatto

In Transnistria febbraio è il mese piú freddo dell’anno. Tira un vento forte e l’aria diventa pungente, pizzica sulla faccia; tutti quelli che escono per strada si coprono come mummie, i bambini sembrano bambolotti, impacchettati in mille vestiti, con le sciarpe fin sugli occhi.
Di solito nevica tanto, le giornate sono corte e il buio comincia a scendere sulla terra molto presto.
È in quel mese che sono nato io. Ero cosí malmesso che nell’antica Sparta senza dubbio mi avrebbero eliminato per via del mio stato fisico. Invece mi hanno messo in un’incubatrice.
Sono nato di otto mesi, uscendo con i piedi, e avevo un sacco di altre irregolarità. Un’infermiera gentile ha detto a mia mamma che doveva abituarsi all’idea che mi restava poco da vivere. Mia mamma piangeva, scaricando in una macchinetta il suo latte per me, da portarmi nell’incubatrice. Per lei non dev’essere stato un momento allegro.
Beh, a partire dalla mia nascita, io forse per abitudine ho continuato a procurare vari dispiaceri e togliere parecchie possibilità di vita allegra ai miei genitori (anzi, a mia mamma, perché mio padre in realtà se ne fregava di tutto, faceva la sua vita da criminale, rapinava banche e stava tanto tempo in galera). Non mi ricordo nemmeno quante ne ho combinate, da piccolo. Ma è naturale, sono cresciuto in un quartiere malfamato, proprio nel posto dove negli anni Trenta si sono sistemati i criminali espulsi dalla Siberia. La mia vita era lí, a Bender, con i criminali, e il nostro criminalissimo quartiere era come una grande famiglia.
Da bambino non m’interessavano i giocattoli. A quattro-cinque anni per divertirmi giravo per casa cercando di beccare il momento in cui mio nonno o mio zio si mettevano a smontare e pulire le armi. Le pulivano spesso, con cura e amore, perché ne avevano veramente tante. Mio zio diceva che le armi sono come le donne, se non le accarezzi abbastanza diventano troppo rigide e ti tradiscono.
Le armi a casa nostra, come in tutte le case siberiane, erano tenute in posti ben precisi. Le pistole chiamate «proprie», cioè quelle che i criminali siberiani portano sempre con sé, quelle che usano ogni giorno, vengono posate nell’«angolo rosso», dove sono appese le icone di famiglia, le foto dei parenti morti e di tutti coloro che stanno scontando una condanna in prigione. Sotto le icone e le foto c’è una specie di mensola, coperta con un pezzo di stoffa rosso, sulla quale di solito ci sono una decina di crocefissi siberiani. Quando un criminale entra in casa va subito nell’angolo rosso, si toglie la pistola e la posa sulla mensola, dopo si fa il segno della croce e mette un crocefisso sopra la pistola. Questa è un’antica tradizione che assicura che nelle case siberiane le armi non vengano utilizzate: se questo avvenisse, in quella casa non si potrebbe piú vivere. Il crocefisso è una specie di sigillo, che si rimuove solo quando il criminale esce di casa.
Le pistole proprie, chiamate «amante», «zia», «tronco», «corda», di solito non hanno un significato profondo e importante, vengono trattate come un’arma semplice e basta. Non sono oggetti di culto, come invece può esserlo la «picca», il coltello tradizionale. La pistola insomma è un ferro del mestiere.
Oltre alle pistole proprie, in casa vengono tenute altre armi. Le armi dei criminali siberiani sono divise in due grandi categorie: quelle «oneste» e quelle «di peccato». «Oneste» sono le armi utilizzate solamente per la caccia nel bosco. Secondo la morale siberiana, la caccia è un processo depurativo che aiuta una persona a tornare al livello in cui si trovava l’uomo quando Dio lo ha creato. I siberiani non cacciano mai per piacere, solamente per sfamarsi, e soltanto quando vanno nel bosco profondo, nella loro patria, in Taiga. Mai in posti dove ci si può procurare il cibo senza ammazzare gli animali selvatici. Di solito in una settimana di permanenza nel bosco i siberiani uccidono solo un cinghiale, il resto del tempo camminano. Nella caccia non c’è posto per nessun interesse, solo per la sopravvivenza. Questa dottrina influenza l’intera legge criminale siberiana, formando una base morale che prevede umiltà e semplicità nelle azioni di ogni singolo criminale, e rispetto per la libertà di qualunque essere vivente.
Le armi oneste usate per la caccia vengono tenute in una zona speciale della casa, chiamata «altare», dove ci sono le cinture istoriate dei padroni di casa e dei loro antenati. Alle cinture sono sempre appesi coltelli da caccia e borse con vari talismani, oggetti della magia pagana siberiana.
Le armi di peccato invece sono quelle utilizzate per scopi criminali. Queste armi di solito si tengono in cantina e in vari nascondigli sparsi per il cortile. Ogni arma di peccato ha incisa da qualche parte l’immagine di una croce o di un santo protettore, ed è stata «battezzata» in una chiesa siberiana.
I fucili d’assalto Kalašnikov sono i piú amati dai siberiani. Nel gergo criminale ogni modello ha un nome, nessuno usa abbreviazioni o sigle per indicare modello, calibro o tipologia delle munizioni. Ad esempio, il vecchio AK-47 calibro 7,62 si chiama «sega», e le sue munizioni «testine». Il piú moderno AKS calibro 5,45 con calcio pieghevole si chiama «telescopio», e le sue cariche «schegge». I proiettili possono essere diversi: quelli con la testa nera, che hanno il centro squilibrato, in gergo si chiamano «le cicce»; quelli con la testa bianca, che bucano la blindatura, «chiodi»; quelli con la testa bianca e rossa, esplosivi, «scintille».
Lo stesso per il resto delle armi: i fucili di precisione vengono chiamati «canna da pesca», o «falce». Se hanno un silenziatore integrato sulla canna, «frusta». I silenziatori vengono chiamati «scarpone», «terminale» o «gallo del bosco».
Secondo la tradizione, un’arma onesta e una di peccato non possono stare nella stessa stanza, altrimenti l’arma onesta sarà per sempre contaminata, e non si potrà piú utilizzare, perché porterà sfortuna a tutta la famiglia, e sarà necessario distruggerla attraverso un rituale particolare. Verrà sepolta sottoterra avvolta nel lenzuolo su cui è avvenuto un parto. Secondo le credenze siberiane, tutto quello che è legato al parto ha in sé un’energia positiva, perché ogni bambino che nasce è puro, non conosce il peccato. Quindi i poteri della purezza sono una specie di sigillo contro le disgrazie. Dove è stata sepolta un’arma contaminata di solito si pianta un albero, cosí se la «maledizione» si attiva distruggerà l’albero e non si allargherà su nient’altro.
In casa dei miei le armi erano dappertutto, mio nonno aveva una stanza piena di armi oneste: fucili di vari calibri e marche, tanti coltelli e diverse munizioni. Potevo entrare in quella stanza solo accompagnato da un adulto, e quando capitava cercavo di restarci il piú a lungo possibile. Tenevo le armi tra le mani, ne studiavo i particolari, facevo mille domande, finché non mi fermavano dicendo:
«E basta con ’ste domande! Aspetta un pochino, diventerai grande e allora potrai provarle tutte da solo…»
Ovviamente io non vedevo l’ora di diventare grande.
Guardavo incantato mio nonno e mio zio maneggiare le armi, e quando le toccavo mi sembravano creature vive.
Nonno spesso mi chiamava e mi faceva sedere di fronte a lui, poi metteva sul tavolo una vecchia Tokarev, pistola bella e potente, che mi sembrava piú affascinante di tutte le armi esistenti.
«Allora, la vedi questa? – mi diceva. – Non è una pistola normale, è magica. Se c’è uno sbirro vicino lei gli spara da sola, senza che tu prema il grilletto…»
Io credevo veramente nei poteri di quella pistola e una volta, quando sono arrivati i poliziotti a casa nostra per fare un blitz, ho combinato un casino.
Quel giorno mio padre era tornato da una lunga permanenza in Russia centrale, dove aveva svaligiato una serie di furgoni portavalori. Dopo una cena che aveva riunito tutta la famiglia e qualche amico stretto, gli uomini stavano seduti al tavolo, a parlare e discutere di vari affari e questioni criminali, mentre le donne erano in cucina a lavare i piatti, cantare canzoni siberiane e ridere insieme, ricordando qualche storia passata. Io ero vicino a mio nonno, sulla panca, con una tazza di tè caldo in mano, e ascoltavo quello che dicevano gli adulti. A differenza delle altre comunità, i siberiani rispettano i bambini e discutono davanti a loro di qualunque cosa, senza creare un’aria di mistero o di proibizione.
A un certo punto ho sentito le urla delle donne, e subito dopo tante voci nervose: in pochi secondi la casa si è riempita di uomini armati, con i volti coperti e i Kalašnikov puntati su di noi. Uno di loro si è avvicinato a mio nonno, gli ha premuto il fucile in faccia e ha gridato come un pazzo, con la voce evidentemente squilibrata:
– Dove stai guardando, vecchio bastardo? Ti ho detto di guardare il pavimento!
Io non ero per niente spaventato, non mi faceva paura nessuno di quegli uomini, il fatto di essere con la mia famiglia al completo mi faceva sentire piú forte di qualsiasi altro essere vivente. Però i modi che quell’uomo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Educazione siberiana
  4. Caduta libera
  5. Il respiro del buio
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright