Anche se era stata rimossa, la «M» di Mussolini aveva lasciato un’ombra grigia, piuttosto visibile sulla cima della Torre di Maratona che faceva la guardia allo stadio inaugurato nel 1934 in occasione del Campionato del mondo e intitolato al Duce. Dopo la guerra, lo stadio si chiamava asetticamente Comunale.
Torino è stata la meno fascista delle città italiane, il Duce lo sapeva benissimo. L’ultima volta che ci era venuto, a Mirafiori, il suo discorso agli operai della Fiat era durato venti secondi, giusto il tempo di dire che il governo pensava a loro giorno e notte, e anzi, ogni minuto; poi aveva fatto il saluto romano e se ne era sparito. Dietro di lui, impettito, solenne, immobile nel suo tight, le braccia dietro la schiena, il senatore Agnelli guardava lontano, verso Asti, come se l’imbarazzante faccenda non lo riguardasse, e lui fosse là soltanto per i doveri imposti dal suo ufficio, anzi, dalla sua regalità : con quell’imbroglione non voleva averci a che fare ma si sa, la grande industria è costretta a essere governativa.
A Torino non c’è mai stato un microclima favorevole a pifferai, incantatori e saltimbanchi. Non essendo stati fascisti prima, i torinesi del dopoguerra non si sentivano tenuti a esibire patenti di antifascismo, meno che mai a praticare una retorica dell’antifascismo. Semmai erano monarchici, fedeli sudditi degli Agnelli. La Juventus era cosa loro dal 1923, l’anno dell’inaugurazione dello stabilimento del Lingotto.
Gianni come monarca era perfetto, non si poteva desiderare di meglio. Faceva parte dello spettacolo, delle sicurezze di un tifoso, essere fragile che vive di transfert sovreccitati, adolescente ansioso che ha bisogno di rassicurazioni, di forti figure in cui potersi identificare. Lo stadio era uno dei pochi luoghi in cui il sovrano si ostendesse alle folle, sia pure a suo modo e a debita distanza. Compariva a sorpresa nel cuore di gelidi inverni, protetto da certe sue giacche a vento che gli conferivano un ulteriore tocco tra ieratico e postmoderno, tra il Signore della guerra di Kagemusha e una divinità orientale sponsorizzata dalla Michelin. A metà partita, prima di abbandonare lo stadio perché aveva già capito tutto e l’irrequietezza lo trascinava altrove, elargiva agli intervistatori che lo inseguivano taccuini alla mano dichiarazioni stringate, aforismatiche, in equilibrio tra citazioni dotte (Pinturicchio, chi era costui?), ragion critica, bon ton diplomatico e un’ironia che poteva bruciare come una staffilata d’ortiche proprio perché dissimulata dall’asciuttezza dello stile, della sprezzatura di cui era maestro. Metaforico come un philosophe interessato all’arte pedatoria per ragioni esclusivamente ermeneutiche. Le sue battute diventavano parte integrante dello spettacolo, gli conferivano un inconfondibile gusto frizzantino: ma era un brut millesimato, mica un qualsiasi spumante un po’ dolciastro.
Gli Agnelli investivano nella Juventus i soldi che bastavano a tenerla nell’olimpo delle Grandi. Mandavano per il mondo dei bravi osservatori, come Renato Cesarini, quello dei gol all’ultimo minuto, pilastro della Juve del quinquennio. Di Cesarini, figlio di un calzolaio marchigiano emigrato in Argentina ai primi del Novecento, già acrobata in un circo e pugile dilettante, si diceva che era un gran giocatore di poker. Mio padre lo aveva visto andare in giro avvolto in cravatte variopinte, con in braccio una scimmia. Si diceva anche che arrivava agli allenamenti in pigiama, sotto il cappotto di cammello, o in smoking, senza nemmeno passare da casa; che aveva imparato l’italiano nelle case chiuse, ed era un gran frequentatore di tabarins.
Per me la parola esotica aveva un fascino inversamente proporzionale alla mia ignoranza di faccende erotiche. Il tabarin restava un luogo magico, peccaminoso, in cui si beveva molto champagne: un luogo di lusso ostentato e un po’ losco, di luci complici, da cui potevano affiorare i fantasmi colorati di donne bellissime, che immaginavo avvolte in pepli orientali da odalische. Però Cesarini i gol li faceva lo stesso, era questo che contava.
Apparve subito chiaro che l’Oriundo per antonomasia era ingestibile. Era l’esatto contrario dello stile Juventus e delle sue virtú repubblicane cui gli Agnelli non intendevano derogare.
Invano il barone Mazzonis, braccio destro di Edoardo Agnelli, cercava di contenere le bizzarrie provocatorie dell’Impunito a suon di multe e rimbrotti. Il Cè era incontrollabile. Aveva persino aperto una lussuosa sala da ballo sopra il bar Combi, in piazza Castello, dove si ballava il tango al suono di due orchestre, i cui musicisti erano vestiti da gauchos. Ma era anche uno dei pochi che si rifiutavano di fare il saluto fascista a inizio partita. Questo mio padre lo diceva con ammirazione, lui che la tessera del partito non l’aveva presa.
Forse, mi dicevo, Cesarini affinava il suo fiuto di talent scout proprio con le sue scorribande notturne, che gli garantivano un piú di conoscenza dell’umano. Guardavo le sue foto, scrutavo la sua faccia di viveur e di gaudente, quella beffarda e impudente sicurezza di sé, per scoprire il nesso segreto che collega l’eros al calcio. Fu lui nel 1952 a scoprire Sivori in una remota squadra argentina e a portarlo al River Plate. «Don Renato», lo chiamavano a Buenos Aires. «Maestro», lo chiamava rispettosamente Sivori, per il quale era la persona piú competente che ci fosse al mondo in fatto di calcio.
Con o senza Cesarini, gli Agnelli comperavano con una sorta di sprezzatura aristocratica. Nel 1957 avevano pagato al Leeds 65 000 sterline per John Charles. Era una cifra mai vista prima e fece scalpore. Si sarebbe rivelata un ottimo investimento.
La Juventus faceva parte dei caratteri identitari della mia famiglia. Mio padre aveva studiato al Liceo D’Azeglio, quello di Pavese, Bobbio, Mila, Einaudi, Sturani, Primo Levi, dello stesso Gianni Agnelli. La Juventus era nata a cinquanta metri dall’istituto, su una panchina di corso Re Umberto, di fronte alla pasticceria Platti, per iniziativa d’un gruppo di studenti minorenni che guardavano anche loro all’Inghilterra. Il piú vecchio di loro aveva diciassette anni. Il D’Azeglio aveva fornito i primi giocatori-fondatori alla neonata società (la maglia degli esordi era stata un ambiguo camiciotto rosa con farfallino nero, che voleva forse alludere al futuro incantato che li avrebbe sicuramente attesi; o forse era una citazione omerica, evocava l’aurora dalle dita rosate).
Il nome classicheggiante rimandava al sapere umanistico che si dispensava in quelle severe aule color ocra e che gli ex liceali avevano introiettato mirabilmente. In fondo avrebbe potuto essere un centrocampista, di quelli ruvidi che non fanno sconti, o la palla o la gamba, Augusto Monti, il loro leggendario professore, disceso dalla Val Bormida. Secco, asciutto, severo, aveva allevato intere generazioni di piccoli Bruti, spregiatori della tirannide. Un Furino che parlava il latino come una lingua madre.
Mio padre aveva giocato da portiere nelle squadre giovanili. Era partito come ala, poi un infortunio al ginocchio l’aveva bloccato, ma pur di non lasciare i campi s’era inventato quel ruolo di ripiego, dove si era dimostrato bravissimo. Aveva riflessi di una rapidità elettronica, lo scatto fulminante della lingua del geco che si scaglia sulla preda. Ancora in tarda età era capace di catturare con la stessa mano la mosca che si fosse incautamente posata su un suo dito.
Quando rievocava con la consueta sobrietà d’accenti quegli anni eroici preferiva soffermarsi sugli elementi comici. Un giorno durante la partita pioveva cosà forte che lui s’era portato dietro un ombrello, e quando l’azione stazionava lontano dalla sua porta provvedeva ad aprirlo. Un’altra volta erano andati a giocare su un campo di provincia, dove grossi manifesti annunciavano una partita amichevole con la Juventus, specificando in caratteri troppo piccoli che si trattava della squadra giovanile, quella che oggi si chiama ispanicamente la cantera. Ne erano nati tafferugli di spettatori delusi, che alla fine si erano ricreduti: la squadra giovanile giocava bene quasi come la compagine blasonata dei titolari. Sempre Juventus era.
Anche lo stadio ex Mussolini faceva parte degli orizzonti domestici. Stava a due chilometri da casa, che a sua volta faceva parte del quartiere detto della Crocetta, di fronte all’ospedale Mauriziano, in corso Re Umberto, a un isolato dalla villa di Luigi Einaudi in via Lamarmora. Nelle belle giornate vedevo passare qualche volta il presidente in passeggiata sotto le nostre finestre con basco e canna da passeggio, il profilo aguzzo, gli occhiali tondi, con al braccio Donna Ida (che elargiva sorrisi boreali dagli occhi azzurri) come sola scorta, senza security, senza nessuno al seguito. Era ben lui quello che, come narra il citatissimo aneddoto messo in circolazione da Montanelli, durante una cena al Quirinale aveva offerto ai commensali metà della pera che aveva appena sbucciato, affinché non andasse sprecata.
Il bambino curioso che si sporgeva oltre i ferri bombati della finestra, che permettevano un comodo affaccio sul corso, non poteva sapere che non molti anni dopo avrebbe avuto l’onore e la fortuna di lavorare per suo figlio Giulio, l’editore, e di visitare San Giacomo, la tenuta langarola che l’allora giovane professore d’economia, appena arrivato in cattedra, aveva comperato indebitandosi per trentotto volte il suo stipendio annuo, e poi conducendola per anni spalla a spalla con i suoi contadini.
I libri con il marchio dello struzzo facevano già bella mostra nella biblioteca di mio padre, che in tempo di guerra il poco lavoro spingeva spesso in una libreria del centro. Sceglieva con mano sicura, i primi «Saggi», i primi titoli della collana di storia, Salvatorelli, il Richelieu di Burckhardt. Non gli era sfuggito nemmeno il primo libr...