La vecchia berlina senza contrassegni, a bordo della quale Steve Carella stava arrivando sul posto, era dotata di condizionatore, ma l’apparecchio, riparato l’anno precedente, con una vena di malignità aveva deciso di non funzionare piú proprio nel momento in cui ce ne sarebbe stato maggiormente bisogno. Tutti i finestrini erano abbassati; eppure l’aria che entrava nella macchina era calda e appiccicosa perché lÃ, in quella metropoli, l’umidità stava attaccata alla temperatura da forno come una prima ballerina grassa al suo compagno. Accanto a Carella, anche Bert Kling soffocava in silenzio.
La sala comunicazioni di High Street aveva ricevuto la prima chiamata alle 8.30. La telefonata al servizio emergenza era stata girata immediatamente a un centralinista che, via radio, aveva spedito sul posto l’autopattuglia Otto Sette Frank. Gli agenti della pattuglia 87 non erano rimasti affatto sorpresi di trovare un cadavere: la donna che aveva chiamato il 911 aveva detto di essere appena rientrata a casa e di aver trovato il marito morto. Alla fine del suo messaggio, il centralinista aveva detto: «Sentite un po’ la signora». E infatti la signora stava aspettando la polizia nell’atrio del palazzo. Gli agenti di pattuglia avevano richiamato il commissariato soltanto dopo essere entrati nell’appartamento del quinto piano ed essersi accertati di persona che sul pavimento del salotto c’era effettivamente un cadavere.
Il palazzo si trovava in una zona piú elegante di tante altre e faceva parte di un complesso di abitazioni che, disposto a semicerchio attorno a Silvermine Oval, si affacciava su Silvermine Park, la River Highway e il fiume al di là della strada. I muri delle case non si erano salvati dall’oltraggio dei graffiti, aggressione visiva violenta quanto un colpo di sfollagente, però gli edifici avevano ancora portieri in livrea, e il servizio di vigilanza era certamente ottimo. Quando Carella accostò la berlina al marciapiede, davanti al palazzo c’erano tre autopattuglie e un furgone mandato dal 911. In quel momento, dopo essere stato in silenzio per tutta la strada, Kling disse: – Steve, sospetto che mia moglie se la faccia con qualcuno.
Uno degli uomini di pattuglia che avevano risposto alla chiamata via radio era là sul marciapiede in attesa dei detective. Riconobbe subito la berlina marrone sbiadito, e poi riconobbe Carella e anche Kling, e si mosse verso la macchina mentre le due portiere venivano aperte. Da sopra il tetto della berlina, Carella guardò il compagno. A testa bassa, Kling andò verso l’agente di pattuglia. Biondo, occhi azzurri, faccia da ragazzo, espressione ingenua da cui era impossibile indovinare la sua professione, Kling era stato fino a poco tempo prima il piú giovane della squadra. Un po’ piú alto di Carella, appena piú largo di spalle, quel giorno indossava una giacca leggera, pantaloni scuri, camicia bianca e, in rispetto a una precedente raccomandazione del tenente Byrnes, la cravatta. Ancora sbalordito, Carella girò attorno alla macchina e salà sul marciapiede. Si muoveva con l’andatura sciolta di un atleta, aveva i capelli scuri come gli occhi che, leggermente a mandorla, conferivano al suo viso un che di orientale. Il completo di tela, indossato alle sette meno un quarto, era già stazzonato e sembrava uno strofinaccio maltrattato.
– Dov’è? – chiese Carella all’agente di pattuglia.
– Di sopra. Appartamento 6 B. Davanti alla porta c’è il mio compagno. La signora è nell’atrio, insieme con il portiere. È tornata a casa e ha trovato il marito morto.
La signora era una bruna alta, con i capelli acconciati secondo il taglio reso famoso da una stella del pattinaggio, scarpe a tacco alto e l’aria fresca e ordinata nel vestito di cotone stampato. La faccia affilata, un po’ canina, era dominata da incredibili occhi verdi e dalla bocca grande. Aveva pianto. Dagli occhi ancora lucidi di lacrime il trucco le era colato sulle guance. Carella esitò un attimo prima di avvicinarsi alla donna. Odiava quel lato del suo lavoro, era la parte che aveva sempre considerato la piú difficile. Respirò a fondo.
– Sono il detective Carella dell’87º Distretto, – disse. – Le chiedo scusa, signora, ma dovrò farle qualche domanda.
– SÃ, certo, – disse lei. Aveva la voce bassa, di gola. Con aria intontita, respinse le lacrime e fece segno di sà con la testa.
– Vuole dirmi, per favore, il nome di suo marito?
– Jeremiah Newman.
– E lei come si chiama?
– Anne. Anne Newman.
– Mi hanno detto che è arrivata a casa e…
– SÃ.
– A che ora, signora Newman?
– Pochi minuti prima che chiamassi la polizia. Verso le otto e mezzo.
– Era tornata in quel momento?
– SÃ.
– Fa un lavoro notturno?
– No, no. Ero stata via. Sono arrivata dall’aeroporto.
– Dove è stata?
– A Los Angeles. Ieri sera ho preso il volo delle dieci e mezzo che sarebbe dovuto arrivare questa mattina alle sei e mezzo. Ma c’è stato un ritardo e siamo atterrati soltanto alle sette e mezzo.
– Ha lasciato l’aeroporto a quell’ora?
– SÃ, subito dopo aver ritirato i bagagli.
– Ed è venuta direttamente qui?
– SÃ.
– Di sopra, la porta era aperta o chiusa?
– Chiusa.
– Non ha toccato niente, nell’appartamento?
– No.
– Nemmeno il telefono?
– Ho telefonato da qui, dall’atrio. Non avrei resistito là dentro un minuto di piú.
L’appartamento era un forno maleodorante.
Nell’attimo in cui aprirono la porta, i due detective vennero aggrediti da un’ondata di caldo e di tanfo che li costrinse a indietreggiare. Si coprirono il naso con il fazzoletto e avanzarono. Pareva di essere nella tana di un drago sputafuoco. Andarono direttamente in soggiorno. Il morto giaceva supino sul tappeto, il corpo si era gonfiato per effetto dei gas, mentre la faccia, le mani e la gola, lasciate scoperte dall’accappatoio, erano diventate marrone scuro. La lingua spuntava tra le labbra gonfie. Gli occhi sporgevano dalle orbite. Il sangue che gli era colato dal naso si era raggrumato sotto le narici e sul labbro superiore.
– Apriamo almeno le finestre! – disse Kling.
– No, finché non arrivano quelli del laboratorio.
– Non possiamo accendere il condizionatore?
– Il medico legale avrà bisogno che la temperatura sia la stessa.
– E allora cosa facciamo?
– Niente.
In realtà non potevano davvero fare niente finché non arrivava il resto della compagnia. Passò quasi un’ora prima che i tecnici del laboratorio mobile avessero spruzzato la loro polvere in tutto l’appartamento in cerca di impronte, ma neanche allora Carella aprà le finestre, perché mancava il medico legale. Bloccato dal traffico, il medico arrivò alle 10.20. Entrò, fece una smorfia, andò a guardare il termometro appeso a una parete e disse a Carella: – Se questo coso funziona, qui dentro ci sono trentotto gradi.
– Già , ma sembra che siano quarantacinque, – disse Carella. – Possiamo accendere il condizionatore?
– No, finché non avrò finito, – disse il medico legale e, inginocchiatosi accanto al cadavere, si mise al lavoro.
Anne Newman aspettava nel corridoio al piano. Due costose valigie erano accanto al muro, dove la donna le aveva appoggiate prima di aprire la porta quando era arrivata. Adesso aveva gli occhi asciutti e si era pulita la faccia dalle macchie di trucco. Aveva ancora l’aria sorprendentemente fresca nel vestito di cotone stampato.
– Se sente di sopportarlo, dovrei farle ancora qualche domanda, – le disse Carella.
– SÃ, dica pure.
– Signora Newman, vuole dirmi quando è partita per la California?
– Il primo del mese.
– Una settimana fa?
– SÃ.
– In tempo per evitare l’ondata di caldo.
– Quando sono partita faceva già caldo.
– A che ora è partita?
– Ho preso il volo delle dieci.
– E a che ora è uscita di casa?
– Alle nove meno un quarto.
– Suo marito era qui?
– SÃ.
– Signora Newman, devo chiederglielo. Era vivo, quando è uscita?
– SÃ. Abbiamo fatto colazione insieme.
– A che ora?
– Piú o meno alle otto.
– È stata quella l’ultima volta in cui l’ha visto vivo?
– SÃ. Quando sono andata via. Alle nove meno un quarto.
– Che cosa indossava?
– Non me lo ricordo.
– Era in accappatoio come adesso?
– No, non mi pare.
– Arrivata in California, ha avuto occasione di parlargli?
– SÃ, gli ho telefonato venerdà dopo essere arrivata in albergo. Poi gli ho parlato ancora martedÃ.
– Cioè il giorno… cinque. Tre giorni fa.
– SÃ.
– Di che cosa avete parlato?
– Quando?
– L’ultima volta che vi siete sentiti.
– Gli avevo telefonato per dirgli che avrei preso un aereo in partenza giovedà sera tardi e che sarei arrivata questa mattina.
– Come le è sembrato?
– Ecco… era sempre difficile stabilire l’umore di Jerry.
– Come mai, signora Newman?
– Jerry era alcolizzato. Aveva alti e bassi.
– Martedà sera ha avuto l’impressione che avesse bevuto?
– Mi è sembrato depresso.
– A che ora gli ha telefonato?
– Dopo cena. Saranno state le nove. A Los Angeles, voglio dire.
– Perciò qui era mezzanotte?
– SÃ.
– Suo...