Dissolvenza in apertura. Lo schermo è nero, poi appare la scritta: «19 novembre 1945». Dissolvenza in chiusura. Lentamente il nero svanisce e si distinguono i contorni di una giovane donna.
Interno. Cucina. Giorno.
Annie si infila il vestito di lana che le ha cucito la madre utilizzando vecchi scampoli, beve in fretta e furia una tazza di caffè d’orzo, si dirige verso la porta – niente pane e burro, Annie? No, mamma, oggi vado di corsa. E se poi ti viene fame? No, mamma, ho lo stomaco chiuso. E se poi hai un malore? Mamma, ti prego, non è proprio giornata.
È cosà che vedo la scena, come l’inizio di un film. I personaggi hanno pian piano cominciato a definirsi. Non ho ancora un’idea precisa del problema dominante, né delle eventuali complicazioni della storia. Ma il punto di partenza c’è: Annie ha compiuto diciott’anni ed è stata appena assunta come segretaria stenodattilografa in una società petrolifera parigina, è l’assistente del direttore. Ormai posso cominciare a seguirla. Forse è proprio restandole accanto che riuscirò a trovare il bandolo della matassa.
Esterno. Stazione ferroviaria di Suresnes. Giorno.
Campo medio su Annie.
Siamo in autunno, fa già molto freddo e Annie, aspettando il treno – ce n’è uno che arriva direttamente a Gare Saint-Lazare e da lÃ, per raggiungere la sede della Resco, basta prendere la linea 13 del metrò fino a Champs-Élysées - Clemenceau, poi la 1 fino a George V, quindi a piedi per un centinaio di metri –, si difende dal vento avvolgendosi nella sciarpa che le ha fatto la madre. Sono i piedi a essere gelati, però. Con le scarpe alte e il tacco in sughero, il freddo entra tutto. Ma non potevo fare altrimenti, pensa Annie, non potevo mica mettere i soliti scarponcini come voleva mamma.
Segretaria stenodattilografa: era quello che Annie voleva fare, quello che aveva sempre sognato, almeno da quando aveva visto per la prima volta una macchina da scrivere sulla copertina di «Louisette», il giornale per signorine esposto in tante edicole e che la madre non le aveva mai voluto comprare. C’era una giovane donna sorridente e distinta seduta dietro una scrivania. Sulla scrivania, una macchina da scrivere con la tastiera in acciaio e vetro – bellissima, aveva pensato Annie, altro che la vecchia macchina da cucire di mamma. La madre avrebbe voluto che Annie diventasse maestra, è un mestiere che nobilita, diceva Marie-Thérèse, o almeno lo pensava, perché poi «nobilitare» non era un termine che apparteneva al suo vocabolario, ma l’idea, in fondo, era questa, una maestra è rispettata, una maestra guadagna bene e non ha bisogno di rammendare tutta la giornata. Ma il sogno di Annie era diverso: fare carriera, lavorare con gente interessante, prendere di petto l’avvenire e lasciarsi alle spalle la vita monotona di Suresnes – fare la segretaria è un mestiere moderno, mamma!
Alla fine, anche solo per non sentire piú i brontolii della madre, Annie lo aveva preso, il diploma da maestra. Ma la sera, a casa, dopo aver finito i compiti e sparecchiato, restava alzata fino a tardi per seguire i corsi per corrispondenza di stenodattilografia della scuola Pigier, erano i migliori, si era informata, con tutto ciò che c’era da sapere per diventare una perfetta segretaria.
«Schiena dritta, spalle rilassate, polsi leggermente sollevati», c’era scritto sul manuale. Annie si era esercitata su un vecchio modello di macchina da scrivere Remington. «Le dita della mano sinistra devono essere appoggiate sulle lettere a, s, d e f; le dita della mano destra a partire dalla lettera j, – continuava il libro. – I pollici di entrambe le mani devono invece essere liberi di raggiungere, in qualunque momento, la barra spaziatrice».
Annie non ci riusciva, le dita scivolavano, in particolare quando si trattava di digitare la c o la e col medio sinistro, spostandolo dalla d. Anche perché si doveva pigiare forte sui tasti, ma essere pronti a riportare a posto il carrello e risistemare le dita sulla tastiera. Come poteva la battuta essere al tempo stesso «fluida» e «consistente», si chiedeva rileggendo il manuale Pigier, che insisteva su quel «fluido» della battuta necessaria a procedere spediti da un punto all’altro di ogni «frase chiusa»? Doveva concentrarsi. Fare uno sforzo per poi non doverne fare piú – ops, ho saltato una frase, ora mi tocca ricominciare daccapo.
La pellicola del film inizia a girare di nuovo. Vedo Annie mentre arriva in rue Washington, legge sulla targa affissa accanto alla porta d’entrata: «Resco»; sposta il cappello leggermente sulla destra; quindi, dopo un’ultima esitazione, si decide a suonare il campanello – è eccitata e impaurita, felice di poter mostrare alla madre che ce l’ha fatta, ma anche inquieta, e se poi dicono che non sono all’altezza? Se non riesco a capire cosa vogliono da me e mi perdo in un bicchier d’acqua? Se sbaglio mentre scrivo?
Stacco su:
Interno. Ufficio. Giorno.
– La signorina Morel?
È anziana la signora che ha aperto ad Annie e adesso la squadra dall’alto in basso, almeno è quello che pensa lei sentendosi a disagio – forse dovevo vestirmi diversamente; forse i capelli raccolti non vanno bene, dovevo lasciarli sciolti, ma con tutti questi ricci, come facevo? Sciolti sono disordinati. Forse è la scollatura del vestito che non va bene, ma piú accollato di cosà non si può. Forse sono troppo giovane, forse cercavano una persona con maggiore esperienza, ma io l’esperienza me la faccio velocemente, mamma dice che sono sveglia, che lo sono fin troppo per una ragazza, alle donne non serve essere troppo sveglie.
– SÃ, sono io.
– Monique Troquet, molto piacere! Benvenuta alla Resco –. La signora porge la mano ad Annie, che si affretta a sfilarsi il guanto e a stringergliela. – Il direttore la riceve tra qualche minuto, si accomodi pure, si metta a suo agio. Si troverà bene da noi, vedrà .
Questa sera ho deciso di provare a fare l’arrosto come lo faceva mamma. È il giorno del mio compleanno e Pierre ha insistito – festeggiamolo, dà i, mi ha detto qualche giorno fa venendo a prendermi all’uscita dell’università , mentre io lo guardavo stupita, non veniva quasi mai, dovevano essere passati almeno due anni dall’ultima volta. Dopo qualche tentennamento, ho invitato a cena Cécile con il marito, l’ho detto anche a Jeanne, l’amica d’infanzia di Pierre, e alla sua compagna, anche se Jeanne è una che parla troppo e ascolta poco, ha un’opinione su tutto e non accetta critiche, quando usciamo insieme torno a casa col mal di testa.
Sono le 19.30 e quasi niente è pronto. Ho calcolato male i tempi e sono in ritardo, la lavastoviglie non è finita, devo ancora mettere in forno l’arrosto e le patate.
Squilla il telefono, spero non sia Cécile che deve annullare, è vero che il figlio ha avuto la febbre, ma stava meglio, no?
– Pronto?
– Auguri, Alessandra.
La voce di zia Filomena mi arriva come uno schiaffo.
– Che vuoi? Ti avevo chiesto di non chiamarmi piú…
– Nemmeno per gli auguri di compleanno?
– Nemmeno per gli auguri. E ora, scusa, ma vado di corsa. Ciao.
– Alessandra, aspetta, c’è qui tuo padre…
Riaggancio. Stacco il cavo, tanto lo so che zia Filomena sta già provando a richiamare, la conosco, non demorde, lei non molla mai, è sempre stata questa, la sua forza: insistere, insistere, insistere tanto che alla fine l’altro cede; è una tortura cinese, la goccia d’acqua che continua a cadere sulla fronte, ritmicamente, mentre l’organismo si raffredda, iniziano i brividi, viene meno il respiro, e pian piano si impazzisce.
Abbandono l’arrosto e le patate sul tavolo della cucina e vado a chiudermi in camera. Ha vinto lei, penso immobile sul letto. E quando Pierre viene a vedere cosa stia succedendo, gli dico che era mia zia e che ormai non ho piú voglia di festeggiare: ora chiamo Cécile e Jeanne e annullo tutto.
– E adesso la torta che ho comprato chi se la mangia? Mica penserai che ce la possiamo far fuori noi due da soli… – Pierre mi fissa serio, come se la storia della torta fosse davvero una questione di vita o di morte, subito prima di cominciare a ridere e a farmi il solletico. – Dà i, Ale, capisco che questa telefonata ti abbia fatto innervosire, ma perché non rimandiamo a domani la tragedia e stasera ci godiamo la torta? È quella alla nocciola con la crema di burro, quella da tremila calorie a porzione! – Anch’io mi metto a ridere. – Che ne dici se quest’estate andiamo insieme in Puglia e con la zia ci parlo io? Organizziamo il trasloco e portiamo giú i mobili di mamma. Cosà risolviamo pure questo problema. A meno che non ti sia convertita alla procrastinazione, scoprendone finalmente i molti benefici. È cos�
Quando Pierre fa il clown, rido sempre. Ma non mi era mai accaduto sentendo nominare zia Filomena e la Puglia.
– Stupido…
Mi tiro su e torno con lui in cucina, in fondo è il giorno del mio compleanno, non è giusto farmelo avvelenare da mia zia. Prendo il tegame con l’arrosto e le patate e lo metto in forno. Pierre tira fuori i piatti e i bicchieri dalla lavastoviglie e apparecchia la tavola. Ogni tanto mi si avvicina. Sei l’amore della mia vita, mi sussurra.
Piú tardi, di fronte alla torta, con Pierre che dice: – Soffia sulle candeline, – Jeanne che dice: – Guarda l’obiettivo e sorridi, – Cécile che dice: – Esprimi un desiderio, – riesco persino a spegnerle tutte insieme: quarantuno candeline su cui soffio chiudendo gli occhi, e cacciando con la mano l’unico desiderio che mi viene in mente, non sono ancora pronta, vedremo, ma non ho già tutto quello che volevo?
L’ultima volta che avevo spento le candeline, mamma era ancora viva: era venuta a Firenze, stavo preparando l’esame piú tosto del primo anno, e lei aveva deciso di non lasciarmi da sola, passava i pomeriggi con me nella mia camera, seduta sul divano-letto blu, lavorando a maglia e all’uncinetto, proprio come quando ero bambina e si sedeva sulla poltrona marrone mentre facevo i compiti. L’ultima volta che avevo spento le candeline, pensavo che sarei tornata in Salento dopo la laurea per occuparmi delle vigne di mio padre, ero sicura che le cose si sarebbero sistemate, anche papà sarebbe stato orgoglioso di me, si sarebbe rasserenato.
La notte faccio di nuovo un incubo. Niente casa che crolla, niente Annie, niente Pierre. Ma c’è mio padre. E mamma. E zia Filomena. Sono in campagna che gioco a nascondino tra i filari d’uva, sento papà avvicinarsi e trattengo il respiro – come hai fatto a trovarmi, papà ? Vinco sempre io, Ale, è inutile che cerchi di nasconderti! Papà mi prende in braccio e mi stringe forte, sono felice, è il mio gigante buono; improvvisamente allarga le braccia e io cado – cado, cado, cado, non la smetto piú di precipitare nel pozzo, dentro è buio, fa freddo, in fondo si illuminano due occhi, è un lupo, penso, mi accorgo che è zia Filomena, sta dicendo a mio padre che mamma è una vipera, quindi atterro sul mio letto e sento la voce di mamma, sta urlando con mio padre, dice no, dice smettila, dice prendo la bambina e torno da mia madre.
Mi sveglio di colpo agitatissima. Accanto c’è Pierre che dorme sereno. Gli tocco il braccio. Lui arriccia il naso. Poi si rende conto che sto piangendo e senza chiedere nulla mi stringe a sé: vieni qui, Ale, calmati, era solo un brutto sogno.
Ma è un brutto sogno che dura da troppi anni, che non riesco a soffocare, e nella disperazione della notte, circondata dal buio, penso che non ne uscirò mai, e il cuore mi batte forte. Ho seppellito mia madre, sono scappata da tutti, ho chiuso con mio padre, eppure sono ancora lÃ: non mi sono mai mossa, sono sempre quella bambina spaventata, incapace di comprendere perché il mondo intorno a lei stia andando a rotoli. Ho sepolto mia madre, ma non ho mai sepolto la mia infanzia.
– Signorina, ho bisogno di parlare col responsabile del deposito di Saint-Denis, si metta per favore in comunicazione con lui e me lo passi. Se mi porta anche un caffè, mi fa felice.
Il direttore della Resco aveva aperto la porta dello studio di Annie, non era entrato, era rimasto in piedi accanto allo stipite e, dopo averle chiesto di fare quella telefonata, era subito andato via – oggi è frenetico, pensò Annie, è già il terzo caffè che prende da quando è arrivato.
– Immediatamente, signor direttore!
Annie cercò nella rubrica telefonica il numero degli uffici di Saint-Denis, lo compose, aspettò che Sylvie rispondesse e, senza nemmeno chiederle come stesse, si fece passare il dottor Blanchet e trasmise la telefonata al direttore.
Seduta dietro la scrivania, contemplando la macchina da scrivere che le avevano recapitato qualche giorno prima – è una Japy nuova di zecca, aveva detto alla madre quella mattina mentre facevano colazione insieme, con una tastiera Azerty, mamma, non puoi nemmeno capire quant’è comoda rispetto alla Qwerty della vecchia Remington su cui ho imparato a scrivere! – Annie era radiosa. La signora Troquet non le aveva mentito quando l’anno precedente, accogliendola, le aveva detto che si sarebbe trovata bene, era proprio cosà che da ragazzina immaginava questo lavoro, era cosà che voleva vivere: indipendente, libera. Poi, sentendo il telefono squillare, si ricordò che il direttore le aveva chiesto un caffè e corse a prepararglielo.
P...