È un luminoso pomeriggio d’autunno, e mi trovo in una scuola superiore alla periferia di San Diego. Quando entro nell’aula di Psicologia, l’insegnante sta rammentando agli studenti che il prossimo lunedí avranno un esame, e il loro compito odierno è organizzare gli appunti e cominciare a studiare. Spostiamo due banchi nel corridoio all’esterno della classe e il professore comincia a scorrere i foglietti con le firme dei genitori. «Azar!» chiama ad alta voce, e una ragazza dai lunghi capelli neri alza il pugno chiuso in segno di vittoria e dice: «Sí!»
Azar trasuda un entusiasmo tanto sfrenato quanto poco selettivo; parla a raffica, con la cantilena tipica di molti adolescenti della California meridionale. «Hai visto Spy? Troooppo forte!» esclama. Quando le chiedo se ha una canzone preferita, mi risponde: «Certo! Wildest Dreams di Taylor Swift, Blank Space di Taylor Swift e Bad Blood di Taylor Swift». «Ti piace Taylor Swift, o sbaglio?» ironizzo. «Be’, non è che proprio mi piaccia: mi ricordo le sue canzoni, tutto qui». Le domando che genere di libri legga, e lei: «Harry Potter tutta la vita. Adoro Harry Potter!» La patente non ce l’ha ancora: la mamma la porta a scuola in auto ogni mattina.
Una ragazzina con la fissa per Taylor Swift, che adora Harry Potter e va a scuola accompagnata dalla mamma, quanti anni potrà avere? «Quattordici», penseranno alcuni di voi, ma si sbagliano: la risposta esatta è diciassette.
Azar cresce con lentezza: ci mette piú tempo ad accettare le responsabilità e i piaceri dell’età adulta. Molti sarebbero tentati di considerarlo un caso eccezionale, soprattutto pensando a fenomeni recenti come la diffusione della pornografia su Internet, i sexy-costumi di Halloween per le bambine, i ragazzini di prima media che chiedono alle loro compagne di fotografarsi nude. In effetti è opinione diffusa che i bambini e gli adolescenti di oggi diventino adulti troppo presto, o comunque crescano piú rapidamente che in passato. «L’infanzia non esiste piú. I ragazzi hanno facile accesso a questo mondo da adulti e sentono di dovervi partecipare», lamentava qualche tempo fa il preside di una scuola media di Brooklyn. Mai come oggi, gli adolescenti non vedono l’ora di diventare grandi: cosí almeno pensa la gente. Ma è proprio vero?
(Non) uscire e (non) fare baldoria.
Venerdí sera: busso alla porta di una linda casetta di periferia e viene ad aprirmi Priya, quattordici anni. È una graziosa ragazza indo-americana con i capelli lunghi e l’apparecchio ai denti, che frequenta il primo anno delle superiori in un istituto alla periferia nord di San Diego. Sua madre mi offre un bicchiere d’acqua fresca e mi fa accomodare al tavolo della cucina, accanto ai libri di scuola e alla calcolatrice rosa di Priya: una brava studentessa che ha già sulle spalle un discreto numero di corsi avanzati. Le domando come trascorre il tempo libero con gli amici. «A volte ci organizziamo per andare a vedere un film o cose del genere… Oppure ceniamo fuori», mi dice. Ma non sono uscite «genitori-free». «Di solito c’è anche una mamma o un papà; a volte due, dipende da quanti siamo, – dice. – È divertente!» Trovano un film che possa piacere a tutti ed entrano in sala insieme, esattamente come si faceva quando Priya e i suoi coetanei andavano alle elementari.
Parlo con Jack, quindici anni, al termine di una giornata impegnativa: prima la scuola (frequenta la seconda superiore in un istituto appena fuori Minneapolis), poi l’allenamento di atletica. Ci siamo già incontrati un paio di volte, durante le mie precedenti visite in Minnesota: è un ragazzino dall’aria seria con la pelle chiara, i capelli scuri e un sorriso timido; è molto legato alla famiglia, con la quale condivide la passione per lo sport. Rispondendo a una mia domanda, cita due film che ha visto di recente insieme ai genitori e alla sorella. Incuriosita, gli chiedo: «E quando esci con gli amici dove vai? Cosa fate di solito?» «Andiamo a correre, cose cosí, – risponde Jack. – A casa mia c’è la piscina, perciò a volte vengono qui e ci facciamo una nuotata, a volte vado io a casa loro». Gli domando se è andato a qualche festa di recente e lui mi descrive un party dell’estate scorsa, da un amico: hanno giocato a pallavolo, e i genitori dell’amico sono stati presenti tutto il tempo. Il weekend-tipo di Jack prevede una gara di corsa e qualche altra attività con la famiglia. «Non esci mai senza mamma e papà?» gli domando. E lui: «Be’, sí, vado a vedere le partite di football… Ma in realtà no, esco sempre con loro».
Casi come quelli di Priya e Jack sono sempre meno rari: i teenager iGen si concedono di rado un’uscita tra coetanei. Questa tendenza, che si era già manifestata fra i Millennial, ha subito una rapida accelerazione dopo l’avvento della iGeneration (si veda la Figura 1.1). Le cifre sono sconcertanti: nel 2015 i diciassette-diciottenni all’ultimo anno delle superiori uscivano da soli meno frequentemente di quanto non facessero i tredici-quattordicenni soltanto sei anni prima, nel 2009.
Questa tendenza non ha nulla a che vedere con la mutata composizione etnica della popolazione, giacché la si riscontra tale e quale tra i teenager bianchi. Non ci sono differenze neppure tra i ragazzi che vengono da famiglie operaie e quelli di estrazione borghese. E nemmeno si può dare la colpa alla crisi economica, perché il numero delle uscite tra soli ragazzi non accompagnati dai genitori ha continuato a scendere anche dopo la ripresa che si è innescata a partire dal 2012. Il principale indiziato è lo smartphone, che la maggioranza dei teenager ha cominciato a utilizzare proprio tra il 2011 e il 2012.
Figura 1.1. Numero di uscite settimanali senza i genitori per fasce di età: tredici-quattordici anni, quindici-sedici anni, diciassette-diciott’anni. Monitoring the Future, 1976-2015.
Quale che sia la causa, il risultato è lo stesso: gli iGen hanno meno occasioni di sperimentare il senso di libertà che nasce dal trovarsi fuori casa senza i genitori, i primi, stuzzicanti assaggi di indipendenza, le prime decisioni autonome, buone o cattive che siano.
Proviamo a confrontare questa situazione con quella degli anni Settanta, quando i Baby boomer adolescenti erano già cresciutelli. Un fotografo di nome Bill Yates ha pubblicato un libro che raccoglie immagini di teenager scattate negli anni Settanta in una pista di pattinaggio al coperto vicino a Tampa, in Florida. In una si vede un ragazzino a torso nudo con una grossa bottiglia di Schnapps alla menta infilata nella cintura dei jeans. In un’altra, quello che ha l’aria di essere un dodicenne posa con una sigaretta accesa tra la labbra. Ci sono svariati scatti di coppie che si baciano. Yates racconta che la pista di pattinaggio era un luogo in cui i ragazzi potevano sfuggire alla sorveglianza dei genitori e vivere in un mondo di loro creazione in cui era lecito bere, fumare e amoreggiare sui sedili posteriori delle auto. Gli adolescenti in foto sfoggiano il consueto armamentario di pantaloni scozzesi, cinture alte e capelli lunghi, ma la cosa che piú salta agli occhi è che tutti, anche i piú giovani, sembrano adulti: non fisicamente, certo, ma in quella loro sfrontata, noncurante autosufficienza. Guardano l’obiettivo della macchina fotografica con la sicurezza che nasce dall’aver fatto le proprie scelte, anche se mamma e papà non le riterrebbero giuste, e anche se in effetti non lo sono. Ecco i tipici Baby boomer, cresciuti in un’epoca in cui i genitori erano contenti che i figli uscissero di casa e per raggiungere il successo economico non serviva una laurea magistrale.
Al giorno d’oggi i baci sulla pista di pattinaggio sono una rarità: gli iGen sono meno propensi alle relazioni sentimentali (si veda la Figura 1.2). Quelli all’ultimo anno delle superiori che hanno un ragazzo o una ragazza sono circa la metà rispetto ai loro coetanei Baby boomer e Generazione X. Nei primi anni Novanta quasi tre quindici-sedicenni su quattro «uscivano» con qualcuno; negli anni Duemiladieci la proporzione si è ridotta della metà.
Figura 1.2. Percentuali di tredici-quattordicenni, quindici-sedicenni e diciassette-diciottenni che hanno una relazione sentimentale. Monitoring the Future, 1976-2015.
Gli studenti che ho intervistato mi assicurano che si chiama ancora «uscire», quindi è improbabile che il declino del fenomeno sia dovuto a un mutamento lessicale. Lo stadio iniziale di un legame sentimentale, che la Generazione X rappresentava con il verbo «piacere» («Síííí, gli/le piaci!»), si chiama ora «parlarsi»: scelta paradossale, per una generazione che preferisce i messaggini alle conversazioni a voce. Dopo che i membri di una coppia si sono «parlati» per un po’, potrebbero decidere di «uscire insieme»: Emily, quattordici anni, del Minnesota, racconta che alcune sue amiche sono uscite con dei ragazzi. Le chiedo cosa fanno di solito. «Mah, a volte vanno a casa dell’uno o dell’altra, – spiega. – Oppure a fare shopping. Cioè, la ragazza fa shopping e il ragazzo, tipo, le va a rimorchio». Rido, e le confesso che anche da grandi si fa cosí.
Chloe, diciott’anni, dell’Ohio, ha avuto due storie. In entrambi i casi circa un terzo delle conversazioni che dovevano servire a «conoscersi meglio» si sono svolte via sms o social media (questo sarebbe il cosiddetto «parlarsi»), e i restanti due terzi di persona. Stando cosí le cose, può darsi che i giovani formino ancora delle coppie e però si incontrino meno frequentemente di una volta: che abbiano cioè una quantità di interazioni in carne e ossa non sufficiente a fare di quel rapporto una relazione sentimentale. In altri casi potrebbe entrare in gioco l’atteggiamento dei genitori, piú protettivi che in passato. «Mio padre ripeteva sempre che le storie tra liceali sono insulse, e che sarebbe meglio non “fidanzarsi” con nessuno, – mi scrive Lauren, diciannove anni. – Strano che fosse proprio lui a dirmelo, dato che i miei si sono messi insieme in seconda superiore e non si sono mai piú lasciati. Quando glielo facevo notare mi rispondevano: “Infatti, siamo stati stupidi”». Altri adolescenti, soprattutto maschi, ammettono che è una semplice mancanza di coraggio. Mike, diciotto anni, mi scrive: «No, non ero proprio capace. Ai tempi del liceo non avevo abbastanza fiducia in me stesso, e questo ha causato una grave carestia di ragazze».
Dalla diminuzione delle relazioni sentimentali deriva una caratteristica sorprendente dei teenager iGen: rispetto ai loro coetanei delle generazioni precedenti, hanno meno esperienza del sesso (si veda la Figura 1.3).
Il calo è piú drastico tra i quattordici-quindicenni al primo anno delle superiori: in questa fascia di età il numero degli adolescenti sessualmente attivi si è quasi dimezzato rispetto all’ultimo decennio del XX secolo. Oggi l’adolescente medio ha il primo rapporto sessuale nella primavera del terzo anno delle superiori, mentre negli anni Novanta i ragazzi e le ragazze della Generazione X perdevano la verginità un anno prima, nella primavera del secondo anno. E nel 2015 i ragazzi all’ultimo anno delle superiori che avevano già fatto sesso erano il 15 per cento in meno rispetto al 1991.
Figura 1.3. Percentuali di studenti delle superiori che hanno avuto almeno un rapporto sessuale, suddivisi per fasce d’età. Youth Risk Behavior Surveillance System, 1991-2015.
La riduzione dell’attività sessuale negli anni dell’adolescenza è una delle ragioni di quello che, a detta di molti, è uno dei fenomeni piú positivi che abbiano interessato i giovani in tempi recenti: la diminuzione del tasso di natalità tra i teenager, piú che dimezzato nel 2015 rispetto al picco dei primi anni Novanta (vedi Figura 1.4). Nel 2015 solo il 2,4 per cento delle ragazze tra i quindici e i diciannove anni aveva un bambino contro il 6 per cento del 1992. Meno adolescenti che fanno sesso significa meno ragazze che restano incinte e diventano madri in giovane età. È piú raro, dunque, che gli adolescenti di oggi si trovino ad affrontare una delle svolte piú irrevocabili dell’età adulta: il momento in cui si diventa genitori.
Figura 1.4. Tassi di natalità ogni mille adolescenti statunitensi, in due diverse fasce di età. Centers for Disease Control, National Center for Health Statistics, 1980-2015.
Il basso indice di natalità da genitori adolescenti crea un contrasto interessante con le tendenze in atto nel secondo dopoguerra: nel 1960, per esempio, il 9 per cento delle teenager aveva un figlio. Va detto che all’epoca la maggior parte di loro era sposata: l’età mediana al primo matrimonio era infatti, sempre nel 1960, pari a vent’anni. Questo significa che sul totale delle donne che si sposarono per la prima volta in quell’anno, la metà erano teenager: un fatto impensabile oggi, ma del tutto normale allora. Ai giorni nostri il matrimonio e i figli sono traguardi di vita ancora lontanissimi per l’adolescente medio; torneremo piú diffusamente su questo tema nel capitolo 7, nel quale cercheremo anche di stabilire se la tendenza a una minore attività sessuale si estenda all’età adulta. Nel complesso, il calo dei rapporti sessuali e delle gravidanze è un altro indizio del rallentato sviluppo degli adolescenti iGen: che si tratti di uscire senza genitori e farsi coinvolgere in una relazione sentimentale oppure della prima esperienza sessuale e del concepimento del primo figlio, i teenager di oggi preferiscono aspettare.
Intermezzo: perché i teenager si comportano meno da adulti, e perché non è né un male né un bene.
Alcuni di voi si staranno forse chiedendo perché gli adolescenti facciano meno «cose da grandi» come uscire senza i genitori e fare sesso, e se questa loro tendenza a crescere con lentezza sia positiva o negativa. Proviamo a mettere a fuoco il problema con l’aiuto della «teoria delle storie di vita»: in base a questo modello, la velocità della crescita dipende dal luogo e dall’epoca in cui i teenager si trovano a vivere. Per dirla in gergo accademico, la velocità dello sviluppo è un adattamento al contesto culturale.
Gli adolescenti di oggi seguono quella che si potrebbe definire una strategia di vita lenta, tipica dei luoghi e delle epoche in cui le famiglie hanno meno figli e si dedicano alla loro crescita piú a lungo e piú intensamente. Queste caratteristiche corrispondono bene all’attuale realtà culturale degli Stati Uniti: famiglie che hanno in media due figli, bambini che cominciano a praticare sport organizzati a tre anni, percorsi di preparazione al college che sembrano iniziare dalle elementari. La strategia opposta, quella veloce, prevale quando le famiglie sono numerose e i genitori privilegiano la sussistenza a scapito della qualità: in pratica, comporta meno preparazione per il futuro e piú vita alla giornata. Questo tipo di approccio era maggiormente diffuso ai tempi del boom demografico, quando le tecnologie che fanno risparmiare lavoro non erano ancora cosí onnipresenti e le donne avevano in media quattro figli a testa: data la situazione, era inevitabile che una parte di quella popolazione infantile finisse a giocare in strada. Un giorno mio zio mi raccontò di quando, a otto anni, andava a fare il bagno nudo nel fiume: mi venne istintivo chiedermi come mai i suoi genitori gli permettessero di farlo e perché non fossero con lui. Poi rammentai...