«L’arte di costruire è la volontà dell’epoca [Zeitwille] tradotta in spazio»1. La nota affermazione di Ludwig Mies van der Rohe, da lui enunciata e ribadita in piú circostanze2, potrebbe a prima vista apparire la piú compiuta espressione del totale asservimento dell’architettura alle forze operanti nel tempo in cui questa nasce e si colloca. E in effetti, proprio il «servire» costituisce per Mies van der Rohe il compito essenziale dell’architettura: «L’opera degli architetti deve servire la vita [dem Leben dienen]. Soltanto la vita deve essere la loro guida»3. Parrebbe cosí giustificarsi concettualmente, per voce di uno dei piú lucidi e profondi architetti del secolo scorso, l’attitudine dell’architettura a «mettersi al servizio» della società e dei «soggetti» agenti al suo interno; ciò che finirebbe con il ridurre l’architettura – almeno in una certa misura – a un semplice «riflesso» di questi, delle loro dinamiche e «volontà», appunto.
Ma come va inteso esattamente il «servire la vita» di Mies van der Rohe? In un saggio di straordinaria intensità Massimo Cacciari ha interpretato in maniera forse definitiva la connessione tra dem Leben dienen e Zeitwille nel pensiero dell’architetto tedesco:
… si cadrebbe grossolanamente in errore ritenendo che tale servizio si riferisca soltanto alla «vita» in quanto somma di esigenze, domande, imperativi. Se cosí fosse, non saremmo agli antipodi, ma nel bel mezzo dell’idea funzionalistica del progetto (…) Ben altro timbro ha das Leben per Mies. Vita e Ergon, Vita e trascendenza dell’idea dell’opera formano un insieme indissolubile. Si serve la vita soltanto servendo l’opera – si è al servizio del proprio tempo (…) soltanto se si è capaci di «immaginare» l’opera4.
Il servizio alla vita, dunque, non è affatto un semplice assoggettarsi ai «doveri» quotidiani, mondani, cui l’architettura è comunque destinata, e neppure ai compiti piú eccezionali, «di facciata», dei quali a volte essa è investita, tanto quanto l’essere in accordo con la volontà dell’epoca non si lascia in alcun modo ridurre a un semplice rispecchiamento di ciò che l’epoca «si aspetta» dall’opera.
Vita è sempre intesa come en-érgheia, vita nel e dell’ergon: molto piú che un mero dato di fatto, la vita, di cui Mies parla, è quella vita in cui l’ergon si manifesta, in cui può aver luogo la verità dell’ergon. Vita compiuta, perciò,
ma compiuta nel suo essere in-atto, en-érgheia. E ancora:
Vita, per Mies, è sempre spirituale decisione nei confronti dell’opera – distacco (…) da ogni vita «immediata», da ogni vita naturalisticamente-immediatamente intesa5.
Ancorché sancire un legame deterministico, l’affermazione miesiana che mette in correlazione volontà dell’epoca e architettura sottende la precisa condizione che le lega l’una all’altra: tradurre la volontà dell’epoca in spazio, vale a dire «immaginare» l’opera, non è mai un’operazione meccanica, meramente servile; piuttosto implica una potenza, una en-érgheia, appunto, che è quella derivante dall’opera stessa, che l’epoca non può semplicemente prevedere o prescrivere. Anzi, nel caso di un’opera come quella di Mies che ritiene decisiva l’«essenza dell’arte di costruire»6, questa non può derivare da una semplice «invenzione» soggettiva, e a rigore neppure da una intenzionalità progettante, bensí deve «limitarsi» a presentare-manifestare la verità che la precede e la trascende.
Concepire il rapporto tra opera e epoca in termini non deterministici implica dunque da parte dell’architetto una comprensione effettiva della struttura dell’epoca in cui è immerso, comprensione da cui scaturisce quella «potenza immaginativa» che nulla ha a che vedere con la fantasia o con la creatività, e che piuttosto richiede un «ascolto» dell’opera.
Quale sia la struttura della sua epoca – e in quale misura essa si differenzi sostanzialmente da quella delle epoche precedenti – appare molto chiaro agli occhi di Mies:
Da tempo la macchina è diventata padrona della produzione. Questa era approssimativamente la situazione prebellica. Sebbene il ritmo di questo sviluppo sia stato ridotto dallo scoppio della guerra, la sua direzione è rimasta immutata. Anzi, la situazione si è persino acutizzata. Se prima per mille motivi l’economia era praticata in modo libero, attualmente altrettanti motivi costringono alle piú serrate riflessioni. Quanto già prima della guerra la vita fosse legata all’economia, ci è apparso del tutto evidente soltanto nel periodo post-bellico. Ora esiste «soltanto» l’economia. Essa domina ogni cosa, la politica e la vita7.
Esattamente negli stessi termini, oggi si potrebbe affermare che «esiste “soltanto” l’economia». Ciò che non impedisce, a chi sia dotato di capacità di comprensione e di ascolto, di servire la vita liberando la potenza immaginativa dell’opera, proprio come fa Mies van der Rohe.
In un’epoca come quella attuale, in cui sempre di piú predomina l’economia e declina la politica (non tanto in termini di governo, quanto di capacità di affermazione di idee o di presa di posizione su questioni di interesse generale), diventa indubbiamente difficile distaccarsi dalla vita in senso «immediato» e servire invece la vita in un senso superiore, come quello appena indicato. Ma ancora piú difficile, in una condizione del genere, risulta resistere – o addirittura opporsi apertamente – alla «volontà dell’epoca». E ciò tanto piú poi quando si cerchi di far coincidere le forme di «resistenza» o di «opposizione» con quelle architettoniche.
Per cercare almeno di nominare le condizioni che rendono possibile assumere tali posizioni può essere utile tornare a osservare in quest’ottica alcuni momenti o episodi, in certi casi anche largamente noti, di un piú o meno recente passato.
Quando Benjamin menziona il mutismo di coloro che ritornavano dai campi di battaglia della prima guerra mondiale come sintomo dell’inaridirsi della loro capacità di comunicare le esperienze vissute, quando sottolinea la «miseria del tutto nuova» che «ha colpito gli uomini (…) con questo immenso sviluppo della tecnica»8, appare del tutto chiaro come per lui una simile «povertà di esperienza» vada intesa non nel senso che manchi loro qualcosa, «come se gli uomini anelassero a una nuova esperienza»9, bensí piuttosto nel senso che «essi desiderano essere esonerati dalle esperienze». La «povertà di esperienza» è la reazione a un eccesso: quelle persone «hanno “divorato” tutto, la Kultur e l’“uomo”, e ne sono divenuti piú che sazi e stanchi»10. La conseguenza di ciò è lo svilupparsi di quel «nuovo positivo concetto di barbarie»11 già citato in precedenza, da cui chi ne risulta soggetto «è indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il poco; a costruire a partire dal poco». Si potrebbe considerarla una rinuncia; ma si tratta anche di un’opportunità. «Ricominciare da capo», cosí come «far pulizia, (…) creare spazio»12, sono azioni che hanno tra loro in comune la liberazione da qualcosa, si tratti di oggetti oppure di forme e schemi mentali ormai invecchiati. Distaccarsene, abbandonarli, dimenticarli comporta sempre una nuova apertura.
Non sarà forse casuale che, nello stesso contesto del primo dopoguerra tedesco, all’interno dell’appena nato Staatlisches Bauhaus di Weimar, il primo insegnamento cui vengono sottoposti gli studenti (il corso preparatorio, il cosiddetto Vorkurs), affidato da Gropius all’artista svizzero Johannes Itten, consista in una radicale rifondazione della loro grammatica percettiva e cognitiva mediante una serie di esercizi che hanno lo scopo fondamentale di cancellare quanto da essi precedentemente imparato o conosciuto, per predisporli a nuove esperienze di apprendimento. La didattica di Itten deve molto agli insegnamenti impartitigli dal pedagogo Ernst Schneider presso la Scuola di formazione per insegnanti di Berna-Hofwil. Il metodo di Schneider prevedeva tra l’altro l’impiego delle teorie psicoanalitiche junghiane e di pratiche pedagogiche progressiste che tendevano a non correggere il lavoro creativo degli studenti per non reprimerne le inclinazioni. A questi principî Itten affianca quelli appresi dalla frequentazione della scuola del pittore tedesco Adolf Hölzel a Stoccarda, negli anni precedenti la guerra, basati su accostamenti cromatici contrastanti e sulla loro applicazione a forme elementari, ma anche su attività fisiche di rilassamento da svolgere in stretta connessione con il lavoro creativo. Prendendo spunto da tutto ciò e combinando esercizi corporei e gestuali, respirazione ritmica, reinterpretazioni delle opere degli antichi maestri, indottrinamento filosofico-religioso ispirato alla religione neo-zoroastriana Mazdaznan, dieta vegetariana, rivoluzione nel vestiario e altro ancora13, il corso preliminare di Itten mirava a conferire una nuova «unità» allo studente, risvegliandolo al tempo stesso dal «sonno del mondo».
Fondamentale per il corso propedeutico al Bauhaus appariva l’obiettivo di liberare le energie creative e l’autonomia degli studenti, esaltandone capacità e soggettive predilezioni. «Si trattava – per Itten – di costruire l’uomo nella sua interezza come un essere creativo» capace di affrontare con successo la complessità di un «progetto figurativo» che pretendeva la sinergia di forze e capacità diverse, fisiche, morali, spirituali, intellettuali14.
D’altronde, pur con accenti e «stili» diversi da quelli di Itten («Itten vuol fare del Bauhaus un monastero, con tanto di santi e di monaci», scrive Oskar Schlemmer in una lettera del 1921)15, anche Walter Gropius, con il corso di studi del Bauhaus, intende restituire integralità all’architetto, attraverso l’apprendimento di teorie, tecniche e materiali che soltanto in un momento finale avrebbero dovuto sintetizzarsi nella pratica progettuale vera e propria. Un architetto – quello uscito dal Bauhaus – il cui «obiettivo programmatico» potrebbe essere fatto coincidere esattamente con il benjaminiano «ricominciare da capo», «iniziare dal nuovo», «farcela con il poco». L’emancipazione dalle incrostazioni di una cultura sino a quel momento tramandata e passivamente accettata conduce cosí a una trasformazione radicale, e dischiude la possibilità di costruire davvero per la propria epoca.
Tra i «costruttori» barbarici citati da Benjamin – insieme a René Descartes, Albert Einstein, Paul Klee, Paul Scheerbart, Adolf Loos e Le Corbusier – vi è anche il Bauhaus16. Loro comune segno distintivo è «una totale mancanza d’illusioni nei confronti dell’epoca e ciò nonostante un pronunciarsi senza riserve per essa»17. La stessa fusione di coinvolgimento e distacco che si lascia rilevare anche in Mies van der Rohe.
Ma in quale misura – è lecito chiedersi – ci si potrebbe giovare oggi di questo insegnamento? Nell’«età dell’inconsistenza»18 in cui ci troviamo, non meno che nel primo dopoguerra tedesco, gli uomini sono vittime di un eccesso, di qualche cosa di «troppo»; non meno di allora, sentono – sentiamo – di avere «divorato» t...