«Cultural gap».
Secondo Marx, tutto quello di cui abbiamo parlato finora non rappresenta altro che la preistoria dell’umanità:
A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale [...] Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana1.
La storia, dunque, comincerebbe con il sistema successivo a quello industriale capitalista, cioè il sistema comunista, ma la realtà che è sotto i nostri occhi non lascia dubbi: siamo già in un nuovo sistema che non è piú industriale ma è piú che mai capitalista.
A partire dalla metà del Settecento, si diffusero le fabbriche, si codificarono le trasformazioni economiche e sociali che ne derivavano, se ne calcolarono i vantaggi e i pericoli, ma non si parlò esplicitamente di «società industriale», né la stragrande maggioranza della popolazione si rese conto che la plurimillenaria civiltà rurale volgeva al suo termine.
La stessa espressione «società industriale» fu assente dalle opere e dal linguaggio dei grandi pensatori dell’epoca. Secondo alcuni, il primo a usarla nel senso piú vicino a quello da noi oggi adoperato correntemente fu Carlyle intorno al 18302, cioè un’ottantina d’anni dopo che la realtà corrispondente a questa definizione aveva cominciato a diffondersi. Secondo Dahrendorf, invece, l’espressione fu introdotta dopo il 1830 da Lorenz von Stein (1815-90)3.
È già dunque capitato all’umanità di entrare in un’epoca nuova senza rendersene subito conto e senza cogliere tempestivamente l’elemento essenziale in base al quale tale epoca poteva essere identificata ed etichettata. Qualcosa di analogo sta accadendo oggi con l’avvento della società postindustriale: ci siamo già dentro, ma la grande maggioranza delle persone la considera ancora a venire comportandosi, di conseguenza, come se essa non fosse un fatto sufficientemente compiuto. Questo cultural gap è dovuto in parte alla naturale resistenza ai cambiamenti che molti nutrono per loro inclinazione, in parte al fatto che il passaggio dalla società industriale a quella postindustriale è stato graduale e le sue avvisaglie, i semi della nuova società, non erano facili da cogliere e interpretare nella loro giusta portata. Le varie tappe di questa transizione a volte hanno visto il lavoro come protagonista, altre volte lo hanno visto come fattore passivo, sottoposto a variabili indipendenti da esso, di tipo tecnologico o culturale.
Come ho detto in apertura di questo libro, sono nato e ho trascorso l’infanzia in un paese rurale senza acqua corrente e con un’illuminazione molto approssimativa; poco piú che ventenne ho lavorato in una grande fabbrica siderurgica, rovente di altoforni e laminatoi; qualche anno dopo sono passato a studiare e insegnare in una prestigiosa business school e poi in una prestigiosa università: la quintessenza del settore terziario. In qualche modo l’arco della mia vita ha ricapitolato la storia del lavoro da Esiodo all’intelligenza artificiale e oggi apprezzo le meraviglie di uno smartphone perché ho vissuto in epoche arcaiche in cui neppure gli scrittori di fantascienza riuscivano a immaginare una protesi cosí eterodossa.
Nel 1983, stimolato dai saggi di Alain Touraine, Daniel Bell e Zsuzsa Hegedűs, curai il libro collettivo L’avvento post-industriale4, scritto insieme ai miei collaboratori per divulgare anche in Italia idee sul lavoro e sulla società che altrove circolavano da anni e da noi erano considerate eretiche perché antioperaie. Constatare direttamente e dimostrare scientificamente che di giorno in giorno gli operai diminuivano rapidamente nelle fabbriche, e gli impiegati diminuivano sia pure piú lentamente negli uffici perché entrambi sostituiti dai computer, era considerato da parte degli intellettuali operaisti come un atto offensivo nei confronti del proletariato mentre i proletari, vittime consapevoli del progresso tecnologico di cui pativano gli effetti sulla propria pelle, facevano grandi sacrifici per far studiare i figli e dirottarli nella classe media. Nel 1999 pubblicai Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società postindustriale5 in cui tentavo una rapida storia del lavoro nella società rurale e industriale per meglio scrutare le trasformazioni postindustriali prodotte nelle aziende dal progresso. Sono trascorsi piú di quarant’anni dall’Avvento e quasi venti anni dal Futuro: anni di rivoluzione tecnologica intensissima e di globalizzazione galoppante. Perciò in questa quarta parte del libro riprenderò le cose scritte allora e ne salverò, completandole in base agli eventi posteriori, le sole parti che restano ancora valide e che meglio consentono di capire quale destino attende il lavoro umano.
I semi della nuova società.
Proprio negli stessi anni in cui Taylor e Ford spingevano all’apice la produzione industriale americana e i suoi principî organizzativi, in Europa fecondavano alcuni germi di quella società profondamente nuova, che per comodità chiamo «postindustriale». Nell’intuire e anticipare l’avvento postindustriale il Vecchio Mondo è stato piú veloce del Nuovo Mondo anche se, sul momento, nessuno vi fece caso perché il travolgente successo dell’industria manifatturiera americana legittimava la convinzione che la società industriale fosse solo all’inizio della sua marcia trionfale e che niente avrebbe potuto scalzarla dalla posizione egemonica assunta nel sistema sociale.
E invece una serie di innovazioni paradigmatiche, prevalentemente teoriche, quasi concomitanti nell’arte e nelle scienze, rimise in discussione quell’universo tutto razionale della precisione e della produzione in serie su cui si fondava la filosofia industriale e spostò l’attenzione di molte menti geniali sul ruolo tutt’altro che marginale esercitato dal «pressappoco», inteso qui non come approssimazione prescientifica ma come componente emotiva irrinunziabile di quella creatività individuale e collettiva senza la quale non ci può essere vero progresso.
Come ho già ricordato altrove6, tra il 1870 e il 1890 Lobačevskij dimostrò l’imperfezione del postulato della retta, scardinando le basi di tutta la geometria euclidea. Nel 1872 Nietzsche pubblicò La nascita della tragedia dallo spirito della musica per contrapporre il dionisiaco all’apollineo e mettere mano alla distruzione dei valori dell’Occidente. Nel 1899 Freud pubblicò L’interpretazione dei sogni, datandolo 1900 per imprimergli il carisma di una svolta secolare. In realtà, con questo saggio, Freud affrancava la psicologia dalla filosofia e la rinnovava dalle fondamenta. Proprio nel 1900, con il saggio Über die Elementarquanta der Materie und der Elektrizität, sui quanta elementari della materia e dell’elettricità, Max Planck rese nota la sua teoria della meccanica quantistica che, insieme alla teoria della relatività di Einstein, avrebbe rappresentato uno dei due pilastri della fisica moderna. Nel 1902 Marie Curie scoprí il radio e la radioattività, contribuendo al progresso della fisica, della chimica e della medicina. Nello stesso 1905 in cui Klimt dipingeva Le tre età, Ernst Mach districò la filosofia dal positivismo con Conoscenza ed errore, mentre Albert Einstein sbaragliò la fisica classica con la teoria della relatività ristretta, presentata nell’articolo Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento. Poco dopo, nel 1907, Picasso inaugurò a Parigi l’era nuova della pittura con le Les demoiselles d’Avignon che frantumavano l’equilibrio della composizione pittorica e, con esso, l’unità percettiva della simmetria. Intanto, in architettura, il ferro, l’acciaio e il cemento davano rappresentazione plastica allo strutturalismo nato nel 1916, insieme alla linguistica e alla semiotica moderne, con la pubblicazione postuma del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure. In letteratura l’erotismo provocatorio e anticonvenzionale di Wedekind incoraggiava il risveglio della primavera che l’Art Nouveau, lo Jugendstil e il Liberty avrebbero colorato di curve armoniose e indolenti. Nel 1918 Le Corbusier concepí il «progetto Dom-Ino» con cui avrebbe superato di colpo i criteri costruttivi dell’architettura tradizionale. Nel 1922 Joyce dette alle stampe l’Ulisse con cui l’opera aperta avrebbe insidiato l’egemonia del romanzo concluso. Nel 1923 Schönberg pubblicò l’articolo Komposition mit 12 Tönen, composizione con 12 note, che, teorizzando la dodecafonia, avrebbe scompaginato la tonalità tradizionale con le dissonanze della musica pantonale. Nel 1934 Enrico Fermi provocò la fissione dell’atomo dell’uranio, inaugurando l’era nucleare. Nel 1953 Crick e Watson scoprirono la struttura del Dna e aprirono la strada alla biologia molecolare. Il 6 agosto 1945, Little Boy, la prima bomba all’uranio, progettata da un team di scienziati europei scappati in America, distrusse Hiroshima e, con essa, mise fine all’era industriale.
Dunque, l’organizzazione delle fabbriche credeva di essere approdata scientificamente a principî semplici, certi, universali e assoluti proprio mentre altre scienze erano orgogliose di conquistare la complessità e la relatività, recuperando la valenza creativa del «pressappoco» dopo avere praticato per tre secoli il culto della precisione.
E non basta: mentre negli Stati Uniti la fabbrica manifatturiera perfezionava e parcellizzava l’organizzazione del lavoro esecutivo, in Europa molti gruppi geniali sperimentarono vie piú ardite per organizzare il lavoro creativo. L’Istituto Pasteur a Parigi, la Wienerwerkstätte a Vienna, il Bauhaus a Berlino, la Stazione Zoologica a Napoli, il Circolo Matematico a Palermo, il Circolo di Bloomsbury a Londra, l’Istituto Cavendish a Cambridge, il team di Enrico Fermi a Roma non sono che le punte di un iceberg molto vario ed esteso, che genialmente anticipò nella scienza e nell’arte soluzioni organizzative cui solo oggi l’industria comincia ad approdare7.
Convergenze.
Torneremo a parlarne piú avanti. Intanto ricordiamo che, in concomitanza con il picco della società industriale, e a preludio del suo ormai prossimo superamento, emersero altri fenomeni nuovi. Ne ho già parlato nel volume L’avvento postindustriale ma occorre riprendere il discorso in questa sede, con le dovute variazioni sul tema.
Il primo fenomeno consistette, dopo anni di guerra fredda, in una progressiva convergenza tra i Paesi industriali – soprattutto Usa e Urss – a prescindere dal loro regime politico. Lo aveva previsto Veblen e piú nettamente lo aveva ribadito Sombart nel suo Capitalismo moderno (1916):
Dobbiamo gradualmente abituarci al pensiero che la differenza tra un capitalismo stabilizzato e regolato e un socialismo tecnicizzato e razionalizzato non è molto grande, e perciò, per il destino degli uomini e della loro cultura, è piuttosto indifferente se l’economia del futuro sarà capitalista o socialista. Ciò che importa è che in entrambi i casi il tipo di lavoro è lo stesso; in entrambi i casi l’economia nel suo complesso si fonda sul processo di spersonalizzazione8.
Mezzo secolo dopo, Raymond Aron tornò sull’argomento, dimostrando nelle sue famose Diciotto lezioni sulla società industriale (1962) che socialismo e capitalismo sono due specie dello stesso genere: la società industriale9.
Il secondo fenomeno consistette nella crescita delle classi medie a livello sociale e della tecnostruttura a livello aziendale. Le classi medie, sulla cui importanza già Smith e Tocqueville avevano insistito, infoltite dalla progressiva mobilità ascendente delle frange proletarie, finirono per modificare, mitigandola, quella conflittualità di classe tra borghesia e proletariato che invece Marx aveva profetizzato come crescente. La tecnostruttura, a sua volta, modificò il tradizionale assetto dell’azienda industriale in cui due sole parti sociali – i capitalisti e gli operai – si erano contrapposte frontalmente. Come scrisse John Kenneth Galbraith nel Nuovo stato industriale, un testo che fece scalpore alla fine degli anni Sessanta,
Nel passato la direzione dell’organizzazione dell’impresa si identificava con l’imprenditore, cioè con colui che univa alla proprietà o al controllo del capitale la capacità di organizzare gli altri fattori produttivi e, in molti casi, l’ulteriore capacità d’introdurre innovazioni. A seguito dell’ascesa della moderna società per azioni, della comparsa dell’organizzazione richiesta dalla tecnologia e dai metodi pianificati, nonché della perdita del controllo dell’impresa da parte del proprietario del capitale, l’imprenditore non esiste piú come persona singola nell’impresa industriale matura [...] Alla direzione dell’impresa l’imprenditore è stato sostituito da un consiglio d’amministrazione. Questo [...] comprende, comunque, solo una piccola parte di quanti partecipano alle decisioni di gruppo recando il loro contributo di informazioni. Questo gruppo è molto vasto: va dai piú alti funzionari della società fino a toccare, al limite, i dipendenti dal colletto bianco o blu la cui funzione consiste nell’uniformarsi, piú o meno meccanicamente, alle disposizioni o alla routine. Ne fanno parte tutti coloro che contribuiscono con cognizioni specialistiche, talento o esperienza alle decisioni di gruppo. Questo, non il consiglio di amministrazione, è l’intelligenza direttiva – il cervello – dell’impresa. Manca un nome per tutti i partecipanti alle decisioni di gruppo o per l’organizzazione cui danno luogo. Propongo di chiamare questa organizzazione tecnostruttura10.
Il terzo fenomeno, esplicitamente indicato da alcuni autori come fase estrema del capitalismo maturo, è costituito dalla diffusione dei consumi di massa e dall’affermazione della società di massa11. A questo, che rappresenta uno dei passaggi piú significativi nella transizione dalla società industriale alla società postindustriale, penso sia opportuno dedicare un paragrafo a parte.
Il migliore dei mondi possibili?
L’argomento fu molto corteggiato negli anni Sessanta, in concomitanza con la fortunata diffusione di alcuni saggi nordamericani12. Tra gli intellettuali, alcuni divennero strenui difensori della cosiddetta società di massa, altri la criticarono da un punto di vista elitario che, per comodità, direi «di destra», altri ancora la criticarono da un punto di vista partecipativo che, sempre per comodità, direi «di sinistra»13.
I difensori.
In che cosa consiste, dunque, questa società e quali ne sono i pregi? Secondo alcuni sociologi americani (Edward Shils, ad esempio), essa va identificata nel tipo di società che, dopo la Prima guerra mondiale, è andata affermandosi soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Inghilterra, in Francia, nell’Italia settentrionale, nell’Europa nordoccidentale, nel Giappone e via via in alcuni Paesi dell’Europa centrale, orientale e del Terzo Mondo.
Questa società industrializzata è «di massa» nel senso che ha consentito alla maggioranza dei cittadini di incorporarsi nella cosa pubblica e nella gestione del po...