Io Khaled vendo uomini e sono innocente
eBook - ePub

Io Khaled vendo uomini e sono innocente

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Io Khaled vendo uomini e sono innocente

Informazioni su questo libro

La tragedia dei migranti raccontata dalla voce contraddittoria di un carnefice, vittima del ricatto di un Paese nel caos. Khaled è libico, ha poco piú di trent'anni, ha partecipato alla rivoluzione per deporre Gheddafi, ma la rivoluzione lo ha tradito. Cosí lui, che voleva fare l'ingegnere e costruire uno Stato nuovo, è diventato invece un anello della catena che gestisce il traffico di persone. Organizza le traversate del Mediterraneo, smista donne, uomini e bambini dai confini del Sud fino ai centri di detenzione: le carceri legali e quelle illegali, in cui i trafficanti rinchiudono i migranti in attesa delle partenze, e li torturano, stuprano, ricattano le loro famiglie. Khaled assiste, a volte partecipa. Lo fa per soldi, eppure non si sente un criminale. Perché abita in un Paese dove sembra non esserci alternativa al malaffare.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806261023
eBook ISBN
9788858430330

Il camaleonte

1.

Vivo in un videogame, vivo in un videgame come un ninja, proprio cosí… Mi piace questo fottuto sudafricano. Canta quello che canterei io. Fatto dal niente, nato dal niente, ricco e famoso, senza regole. Ma se lo ricorda da dove viene, questo sudafricano bianco che canta come un negro. Anche la mia vita sembra un videogioco e anche io me lo ricordo da dove arrivo. Tanto se lo dimenticassi me lo ricorderebbe questa strada, sempre. Misurata, città mia. Casa mia. Mio dolore.
Cos’è che ha detto Fahmi l’altro giorno? «Voi di Misurata siete le maschere della Libia, – ha detto, – maschere a due facce, ingannevoli e affascinanti». Ha detto.
«Se ci fosse un’ora di mitologia a scuola sarebbe tutta su di voi. L’ora di mitologia dei misuratini, gli animali che cambiano faccia –. E rideva. – Tanto le scuole sono chiuse, – e rideva, ma piú nostalgico. – Eravate pronti a marciare su Tripoli solo due mesi fa e oggi metà delle vostre milizie sono cagnolini fedeli a Sarraj e metà si fanno comprare sotto banco da Haftar a prezzo d’occasione». Ha detto.
So perché ho rovesciato il tavolo, nel café, mentre parlava. Perché ha ragione, Fahmi, ma non glielo dirò. Non glielo dico mai. Forse dopo tutto sono come dice mia madre, troppo testardo. «Preferisci romperti che piegarti», mi dice.
Ma le definizioni di mia madre non mi feriscono, le parole di Fahmi sono diverse, lui è come se mi tagliasse la pelle a pezzetti, e non lo lascio fare a nessun altro, voglio dire, nessuno scava dentro la mia pelle, nemmeno mia madre, lui sí, lo so e glielo lascio fare, tutte le volte.
La frequenza con cui Fahmi dice cose fastidiose ma ragionevoli mi ricorda i rimproveri di mio nonno. Non alzava mai la voce e le sue parole sembravano fluttuare nell’aria e perdersi, come l’odore di ciclamino nel lavatoio quando eravamo bambini. Che pensavamo si perdessero, le sue parole, proprio come l’odore del ciclamino, invece erano già piantate con energia di radice. Come la condensa del respiro sui vetri, che è lí e poi scompare e poi respiri di nuovo ed è ancora lí.
Mio nonno era talmente saggio da non aver meritato un posto di responsabilità, mai, nonostante le ricchezze. O forse proprio per via di quelle. «I saggi in questo Paese sono destinati alla solitudine, a vivere agli angoli della società». E diceva che bisognava vivere secondo le parole del profeta Mohammed, controlla la tua lingua, e sii contento della tua casa, e piangi sopra i tuoi peccati.
Amava la vita appartata e le sue piante di datteri e la vista dalla sua camera sulle palme e la sabbia che a osservarla quando si muove e cambia forma sembra una donna morbida nel buio dell’alcova, diceva. Ma lo sapevo anche da bambino che non era cosí, che non era solo perché amava la vita ritirata, lo sapevo già che la verità aveva mille facce e quella che mio nonno chiamava riservatezza era un altro modo di dire rifiuto. Di allontanare tutti. La gente di città non gli piaceva, gli piacevano gli uomini del deserto, quelli sí. Meno corrotti.
«Nonno, che vuol dire corrotto?»
«Dimentica questa parola, Khaled. Io sono solo un derviscio, un vecchio, non ripetere le parole dei vecchi, lascia le parole senza senso dei vecchi dentro casa e porta la gioia fuori casa –. Cosí diceva. – Anzi, Khaled, dimenticala anche dentro casa, ché le case hanno le orecchie, in Libia».
«Nonno, che vuol dire che le case hanno le orecchie?»
«Che non devi fidarti di nessuno. E ricorda le parole del Profeta: devi saper occultare per raggiungere i tuoi obiettivi».
Sospetto che facesse il mercante piú per viaggiare nel deserto e dormire coi berberi che per soldi, l’ho sempre pensato, o meglio l’ho capito quando ho cominciato a leggergli negli occhi un lampo di malinconia tutte le volte che parlava del deserto, una scintilla che non aveva mai se non quando parlava delle notti nelle tende, tra le stelle e la sabbia. «E il silenzio, – mi diceva. – Quel silenzio del deserto che parla una lingua magnetica e selvaggia, parla a lungo e se l’ascolti ti indicherà la strada. Perché la lingua del deserto è una profezia. Ma parla solo a chi la vuole ascoltare. Il deserto lo sa chi lo vuole ascoltare». Questo mi insegnava.
Il lampo di malinconia poi è diventato tristezza. La stessa che aveva davanti alla televisione mentre parlava il rais, il qaeed, il leader, parlava lui, il Fratello guida, l’aquila solitaria, il cavaliere della tenda, il Conquistatore, Muammar Gheddafi. «Lui, con tutti i suoi nomi e nessuna identità», diceva il nonno.
Nonno, che la televisione la chiamava inganno e borbottava: «È piú pericolosa del fucile». E io e Amina, mia sorella, Gheddafi lo chiamavamo Santana, perché sembrava Carlos Santana al nostro sguardo di bambini. Era un codice, lo stratagemma per fare battute tra noi, nel cortile quando eravamo soli, o in casa in presenza degli adulti, perché l’avevamo capito bene che le case hanno le orecchie e non dovevamo fidarci di nessuno, nemmeno dei grandi.
Quando qualcuno diceva Gheddafi questo o quello, mia madre aveva una reazione automatica: «Shhh. Zitti», il dito indice davanti al naso, a mo’ di ordine. O di consiglio, come se ci fosse sempre qualcuno ad ascoltare. Chissà. E nessuno si fidava di nessuno, «perché anche i muri hanno le orecchie in Libia», diceva il nonno.
Santana. L’abbiamo chiamato cosí per anni io e Amina e ridevamo di lui, la nostra lingua segreta era una lingua di allegria.
Come quella volta che mio padre era appena tornato dal ministero della Salute, era responsabile delle telecomunicazioni, e continuava a ricevere telefonate ed era sempre piú serio, una telefonata dopo l’altra le parole si indurivano e si facevano severe. «Chi l’ha detto? Ha usato esattamente queste parole? Era il dottor Makhlouf, siete sicuri, avete ascoltato la registrazione un’altra volta? Cambiate i telefoni, con il criterio standard. E procedete al resto».
«Papà che cos’è il criterio standard, che significa criterio? Cosa ha detto il dottor Makhlouf? Lo invitiamo a cena? L’ultima volta sua moglie ha portato i datteri farciti con ricotta e mandorle, invitiamoli a cena».
«Invitiamo anche Santana», ha detto mia sorella. Ridevamo, parlando la nostra lingua in codice, la lingua dell’allegria di Khaled e Amina. Mio padre disse solo: «Vi ho detto di fare poche domande. Le domande sono odiose». Dopo ci fu solo silenzio.
Non vedemmo piú a cena il dottor Makhlouf, né i suoi figli giocare nel quartiere. Non l’abbiamo piú visto in casa, a giocare a carte con nostro padre, era l’unico dei suoi amici che chiacchierava con noi e ci portava dei regali, gli altri bussavano alla porta, entravano e il loro sguardo ci trapassava: «Vostro padre è in casa?» Sistemavano le scarpe in fila all’ingresso, raggiungevano papà e giocavano a carte. Odiavo le notti in cui papà riceveva i suoi amici, le vivevo come un lavoro forzato, dovevo portare il tè e vuotare i posaceneri e odiavo l’odore di fumo che si strozzava in gola, e non potevo allontanarmi.
Ero a distanza utile di chiamata, il cameriere piú giovane di sempre, «Prendi il tè verde», «Porta i cuscini cosí stiamo piú comodi, e corri a prendere l’acqua fresca che abbiamo sete, e ancora zucchero per il tè, che non l’ho mai capito perché mettiamo cosí tanto zucchero dappertutto». Io mandavo a memoria gli ordini degli uomini delle carte e andavo in cucina da mia madre, che non usciva mai. Mio padre era uno pratico, piú che figli eravamo investimenti, a volte ci trattava come soldati, a volte ci picchiava con la cintura militare. Era uno concreto, lo è sempre stato, diceva che non aveva tempo da perdere, e non aveva nemmeno tempo per parlare, lo considerava superfluo. Non sprecava tempo e non sprecava le parole: si rivolgeva a noi per rimproverarci o darci ordini, a volte raccontava della nostra tribú e della sua storia, si voltava e ci zittiva con un cenno del capo. Anche allora, dopo le telefonate. Quando, dopo aver abbassato la cornetta, ha cancellato la nostra allegria con la severità di un battito di ciglia.
La mia allegria, quella di Amina, e del fantasma di Santana.
A mio nonno non piaceva Gheddafi e non lo rispettava, ma non aveva nemmeno paura di lui. Neanche mio padre lo amava, credo. Ma mio padre aveva paura. Mio padre non ha mai amato nessuno se non sé stesso, quindi parlava poco. Non ha mai pensato a nessuno se non a sé stesso, nemmeno a noi, il suo motto era: chi resta nella stanza paga il conto.
Mia madre no, lei sogna.
Mia madre, la sognatrice di al-Ghiran. La regina della casa, del giardino che era il nostro mondo, avevamo un fico e una vite, e tutto quello che ci rendeva felici: il luccichio della sabbia e il colore dei fiori del melograno a pennellare di rosso le giornate. Io e mio fratello Murad volevamo leggere solo fumetti. Quando mio padre ci portava a Tripoli lo pregavamo di andare nell’unica libreria di Hayd al-Andalus per comprare i volumi di fumetti, e quando finiva la scuola, durante l’estate, guardavamo la televisione italiana se il segnale era buono e se c’erano i cartoni animati, dicevamo alla mamma – la nostra regina di al-Ghiran – che la televisione italiana era bellissima e la televisione libica invece era noiosa. Lei ci rimproverava e diceva che no, che Muammar Gheddafi, il Fratello guida aveva dato ai libici anche una televisione per fare felici i bambini. La regina di al-Ghiran.
Ero a scuola, il ciclo secondario credo, dovevamo andare a Tripoli in gita e la mamma aveva tirato fuori il mio vestito buono, i vestiti della festa. Gli insegnanti ci hanno riunito sul ponte di Gargaresh per aspettare il passaggio delle macchine e abbiamo aspettato ore e poi sono arrivate e tutti urlavano, tutti urlavano istericamente: «Lunga vita al rais, lunga vita al rais», urlavano tutti nell’unico modo che conoscevano, qualcuno prendeva il comando della folla e la folla urlava: «Il Conquistatore», e quello al comando della folla rispondeva una parola nuova: «Unità», e poi ancora: «Il Conquistatore» e quello urlava: «La rivoluzione del popolo. Al-Fateh, Giorno dopo giorno. Al-Fateh, sempre e per sempre».
Guardavo i nostri insegnanti, e quelli delle scuole di Tripoli, c’erano la Saqr Quraish, la scuola al-Tassady e pure la Martiri del Golfo, e per la prima volta ho osservato con attenzione i loro occhi e le loro bocche spalancate, saltavano come i Sufi quando recitano le Hadra, solo che era diverso, non erano poesie religiose, erano gli slogan rivoluzionari e guardavo le loro bocche e i loro occhi spalancati e ho capito in quel momento che quella era la loro religione e il libretto verde il loro Corano.
Santana sorrideva, con il naso all’insú e salutava le persone e c’era un uomo accanto a lui e la folla cantava, istericamente. Io non sapevo chi fosse la persona accanto a lui, mia madre mi aveva solo detto: «Il Fratello guida oggi ha un ospite importante». L’uomo sembrava felice e forse pensava che noi eravamo lí, accorsi in strada solo per vederlo. Ed era vero, ma io non sapevo chi fosse.
E quando sono tornato a casa ho chiesto a mia madre il nome dell’uomo nero vicino a Santana. Lei mi ha detto: «È Nelson Mandela, un eroe, un combattente per la libertà». E io non le credevo, dicevo: «Come fa un nero a essere un eroe». O forse non mi piaceva già allora la parola eroe. Mio padre invece ha sorriso, orgoglioso, me lo ricordo bene, nello stesso modo in cui sorrideva quando menzionava le sue gesta eroiche e aveva lo stesso sorriso fiero di quella volta che mi ha mostrato la foto di Che Guevara e ha detto: «Lui è un eroe». E mia madre annuiva ma era molto meno eccitata di lui. Non mi piacevano gli eroi, e non mi piaceva la scuola, ma nemmeno questo si poteva dire. Non mi piacevano le scritte sui muri, le decorazioni copiate dal Libro verde, non tanto perché dovevamo impararle a memoria, quanto perché non le capivo e se provavo a chiedere, cosa significa? Cosa significa veramente? Nessuno mi dava una spiegazione. E ogni volta che provavo a fare una domanda poi mi pentivo e ricordavo la voce di mio padre, a casa, che mi rimproverava: «Khaled, le domande sono odiose». «Khaled, stai zitto».
Poi ho imparato a trattarlo come il Corano, il Libro verde, e a rispettarlo, ma senza capire.
La scritta, quella sul muro della scuola, me la ricordo ancora, come l’avessi davanti: «Chiunque formi un partito politico è un traditore».
Il Libro verde era dentro di noi, la voce di Santana ovunque a indicarci la rettitudine del perfetto libico rivoluzionario: a dirci che non c’è democrazia senza congressi popolari, nessun rivelatore al di fuori delle commissioni rivoluzionarie, e le commissioni sono ovunque.
Che al-Fatah per sempre e le commissioni sono ovunque.
Che voi siete la Generazione della rabbia, la rabbia contro gli imperialisti, i nemici dell’Islam e degli arabi, e non c’è alcun rivoluzionario fuori dai comitati rivoluzionari e il tuo lavoro è proteggere il Leader, la rivoluzione, difenderlo e promuoverlo.
E che tutti quelli che tradiranno sono cani randagi. Quelli che tradiscono sono ratti.
Diceva ancora Santana, anche sull’orlo della sconfitta, in una notte d’agosto, alla radio. Questi ratti, stanotte, saranno attaccati dalle masse, che li stermineranno. Ti è andata male, Fratello guida, o forse no.
Non mi piaceva andare a scuola e non mi piacevano le parate, non mi piaceva sentire la gente urlare, soprattutto le donne, vecchie galline: «Lunga vita al rais lunga vita al rais».
C’era questa scritta sull’autostrada a Tripoli, la principale, quella di Gurji: «L’età delle masse continua».
Lo slogan della Giamahiria.
Ma l’arabo è ironico come la storia certe volte e la parola che significa «età», significa pure «schiacciare».
Dietro la scritta c’era un murale, con l’immagine di Santana nella sua posa prediletta: mani vicine e incrociate in segno di vittoria e soddisfazione. La mano sinistra racchiudeva la destra, come se schiacciassero una noce, come se il palmo della mano sinistra premesse sulla destra per schiacciare quello che conteneva. Al posto della noce avrebbero potuto esserci i libici. Lui, sorridente e compiaciuto, con i capelli ricci, crespi e sempre scurissimi in segno di eterna giovinezza, indossava la sua uniforme bianca, e sotto di lui campeggiava la scritta «L’età delle masse continua». Ma anche: «Schiacciare le masse continua».
Ridevamo sempre io e Amina, quando ci pensavamo da ragazzi. Santana schiaccia le masse. E ridevamo.
Mio nonno guardava le immagini della parata alla televisione e scuoteva la testa. La camicia colore della terra che indossava Santana e i pavoni e le fantasie luccicanti sulla camicia dell’eroe, di Mandela, uno con gli occhiali e l’altro no, che si tenevano per mano circondati dai soldatini coi berretti rossi, davanti alla casa distrutta dalle bombe americane dieci anni prima.
«Perché scuoti la testa, nonno?»
«I libretti verdi, i libretti blu, i libretti neri, le bandiere verdi, le camicie cachi, le camicie a fiori. Apparenze, Khaled, sembianze ingannevoli. Gli eroi non esistono, esiste solo la memoria. La memoria, Khaled, devi custodirla come la nonna custodisce il bracciale d’oro dei nostri anni a Bengasi, quello con il corallo che disegna i fiori sul polso, le migliori intenzioni non fanno futuro se non c’è memoria. Se non c’è memoria non c’è libertà».
«Nonno, alla televisione hanno letto un capitolo del libretto verde, il capitolo sulla libertà, dice che “Manca la libertà dell’uomo se qualcun altro controlla ciò di cui ha bisogno, poiché il bisogno può portare alla schiavitú dell’uomo”. Nonno, che vuol dire? Che cos’è la schiavitú?»
«Ricordi Khaled quando ti ho parlato dell’animale senza colore, il camaleonte? Il camaleonte non è co...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Io Khaled vendo uomini e sono innocente
  4. Prologo
  5. Il camaleonte
  6. Il fuoco attira i viandanti
  7. La luce è piú importante della lanterna
  8. Come va giú una cosa che muore
  9. Ma l’immagine è dentro di loro
  10. Scuoti la borsa dei roditori
  11. Il guadagno che viene dall’acqua torna all’acqua
  12. La vita senza odore
  13. Ringraziamenti
  14. Nota bibliografica
  15. Il libro
  16. L’autrice
  17. Copyright