I carabinieri sono comparsi ben prima della messa, e hanno iniziato una lunga contrattazione per riscattare i prigionieri.
Ma andiamo per ordine.
Alle diciassette finalmente l’intera comitiva è giunta in cima alla collina di Serravalle che domina con il Castello Malaspina la cittadina di Bosa. All’interno delle mura, nella grande piazza d’armi, si trova la chiesetta palatina di Nostra Signora de Sos Regnos Altos.
Un luogo d’incanto che tocca il cielo e domina la Terra, il fiume e il mare sui cui si erge.
Se uno volesse dipingere un luogo idilliaco, sospeso nel tempo, una cittadina di sassi antichi, un fiume navigabile che attraversa le vecchie concerie e da qui sfocia su un piccolo golfo di spiagge e calette, ecco, dovrebbe andare a Bosa. Poi piazzare il cavalletto nel castello dove noi eravamo appena giunti, piú moribondi che vivi.
Abbiamo tagliato il traguardo in stato pietoso, sfiancati dalla salita, dal caldo.
Non so nel resto del mondo, ma in Sardegna alle diciassette, una domenica di fine estate, l’ultima cosa che dovete pensare di fare è mettervi in cammino, in pendenza, magari trasportando a spalla, come fosse su una lettiga, uno in carrozzina, e per di piú gravati dai guai fisici che già vi portate appresso.
Molti sono arrivati senza fiato, Semino, come detto, con una nuova ernia che gli penzolava dall’addome.
La piú tonica, manco a dirlo, era mia madre, che era partita dritta verso la meta scortata dalle vedove dell’associazione. A loro era bastata mezza giornata in sua compagnia per riconoscerla, come fanno le bestioline col capo branco.
Mamma è vedova dal 15 marzo 1992, aveva cinquantaquattro anni la notte che il suo Gabriele è morto. Ma ha vestito il lutto già nel 1966, anno in cui io e papà ci ammalammo. Dunque, della nostra associazione è la veterana delle donne che hanno perso il marito travolto da un’epatite o in attesa di un nuovo fegato oppure dopo un’operazione andata a schifo.
La piú giovane è Clementina ed è arrivata con il gruppo del Nord Sardegna. Teneva per mano la figlia Checchina che ha dieci anni. Ne aveva nove quando suo padre, un maratoneta, se n’era andato dopo un trapianto sfortunato.
Clementina ha fatto vedere a Mamma la foto che le aveva spedito dall’America il socio di corse del marito. È ritratto mentre taglia il traguardo della gara di New York famosa nel mondo.
Spesso, in quella maratona, gli atleti corrono agitando la bandiera del Paese di provenienza, legandosela al collo e facendola sventolare sulle spalle come un mantello, quasi che possa dare loro un superpotere.
Altri, addirittura, la montano su un’asta che tengono in pugno per l’intero percorso. E trottano. Una gran fatica.
Lui aveva, stretta nella mano destra, la fotografia del suo compagno sepolto pochi mesi prima. CosÃ, giunto al nastro d’arrivo, l’aveva alzata al cielo affinché tutti vedessero che anche il marito di Clementina aveva partecipato. C’era.
Clementina è una donna fortissima. Come Mamma.
– Come va con Checchina? – le ha chiesto Mamma che attendeva noi delle retrovie all’ingresso del Castello Malaspina con tutto il gruppone.
– Ha i suoi momenti di sconforto. Piú passa il tempo, meno ricorda la voce e il volto di suo padre. Mi farebbe piacere parlarne con te, Mariella.
Mamma le ha dato una carezza sul viso.
In ottant’anni a me non ne aveva mai riservata una, tanto da farmi pensare che non ne fosse capace. Non sapevo potesse regalare un gesto cosà tenero.
– Va bene, Clementina, entriamo, ci andiamo a sedere sotto uno degli alberi della piazza d’armi. Sai, conosco bene Bosa. Da bambina durante la guerra ho vissuto qui per cinque anni.
Questo sÃ, questo lo sapevo.
Arrancando e tenendosi la mano sul fianco dolente, dopo l’ultimo scalino di un’infinta scalinata, stazione terminale dell’interminabile via crucis, Semino mi ha affiancato nel preciso istante in cui Mamma spostava la mano dalla guancia di Clementina.
Guardandomi, il don ha detto a mezza voce: – Questa è la seconda ragione per cui ci servivi. Avevamo bisogno che tua madre venisse e fosse di conforto a Clementina e alle altre.
Gli ho sorriso. Immediatamente ho provato sollievo, nessun impegno gravoso era per me in programma.
Poi mi ha raggiunto un senso di sconforto al pensiero che in fondo servivo a poco e nulla all’interno dell’immenso sforzo che l’associazione fa per i malati. Avevo pensato di essere una pedina importante tanto da essere costretto con l’inganno a partecipare per assolvere chissà a quali alti incarichi, invece…
Prima ero servito solo come testimone scomodo, quasi un delatore, e ora come semplice accompagnatore del pezzo grosso della famiglia.
– Scusa, Checco. Ma se non venivi tu, non veniva lei,– ha tagliato corto don Raffaele Semino.
Maledetto gesuita.
All’ingresso del castello una fiumana di turisti stranieri, folli come noi – perché ci vuole una buona dose di pazzia per decidere di affrontare la scalata sotto il sole cocente –, attendeva di fare il biglietto alla cassa.
Il Misero, in carrozzina, mi ha tirato per un braccio e facendomi l’occhiolino mi ha detto: – Guarda che bone queste due tedesche. Ah?
E, in effetti, avevamo davanti due belle e prosperose ragazze.
– SÃ, però, abbassa la voce e mi raccomando: non fare il deficiente.
Manco a dirlo, in un tedesco anche decente, lui invece ha subito richiamato la loro attenzione.
– Buon pomeriggio, che gran fatica salire sin quassú, eh?
Quelle si sono voltate e, rifilandogli un sorriso stirato, quasi accondiscendente, in fondo compassionevole, in perfetto italiano gli hanno risposto, non prima di aver provato orrore e pena per le mie scarpe da basket oblunghe e per la sua triste carrozzina, ma incuranti che fosse in pigiama: – Buon pomeriggio, zignore, prego, vuole passare davanti?
– No, ci mancherebbe, – ha detto il Misero issandosi dalla sedia e facendo strabuzzare gli occhi a tutti noi, i suoi portantini.
– Ci mancherebbe, signorine. La carrozzella serviva solo per la salita. Sapete, sono un veterano, un reduce.
Figlio di cane.
– E i miei compagni sono fin troppo premurosi con me e non mi hanno in alcun modo permesso di affrontare la salita a piedi. Che mi dicono essere dura. Vero? Complimenti a voi che l’avete sostenuta restando cosà fresche e, oserei dire, raggianti.
Ma guarda tu ’sto deficiente, guarda tu questo imbecille, fesso, balosso e pure cascamorto. Un lumacone vecchio stampo a odor di brillantina.
Che vergogna, ho pensato, mentre le due ragazze si sono fissate interdette, decidendo chi delle due avrebbe dovuto rispondere.
– Come, a piedi? Perché, zignore, voi ziete venuti a piedi? – ha chiesto la piú giovane.
– E be’, sÃ! A piedi, ovviamente. E come altro si può arrivare quassú? – ha ribattuto il Misero perdendo di smalto e cercando consenso fra i partecipanti alla nostra gita, quelli piú stremati, devastati da pochi ma intensissimi chilometri in salita, prima fra le stradine in acciottolato, poi lungo le impervie scalinate. Quelli che a metà percorso, appoggiate le mani ai muri secolari delle antiche dimore, strette e alte, del rione Sa Costa, cercando sostegno, testa china, stavano vomitando la bile. Quelli che, palmi sui reni e testa rivolta al cielo, inseguivano, respirando forte, un filo d’aria fresca, ma ingollavano solo afa. E noi che trasportavamo a turno il Misero dopo l’abbandono stizzito di signor Piccoletto.
Trapiantati, o familiari accompagnatori, con occhi incantati riuniti intorno al Misero, erano pronti ad ascoltare la risposta delle due tedesche.
– Be’, zignore, noi ziamo arrivate con il trenino turiztico, gli altri in macchina. Vedi, dalla ztrada laggiú. E poi zi parcheggia lÃ…
E mentre le teutoniche spiegavano la via piú agile, breve e pure panoramica, per giungere in cima, noi ci siamo messi alla caccia del nostro presidente per fargli un culo tanto.
«Avanti, a piedi! Di qui! Sono solo pochi passi».
Aveva urlato alla partenza Rino. E tutti gli avevamo dato retta, persino quel recalcitrante di Mongiu che intravedendo la torre piú alta del castello aveva osato ancora seminare zizzania: «Ma quelli che stanno volando in tondo sono avvoltoi?»
Mongiu, la carogna sparita al reclutamento dei portantini, forse ci aveva visto giusto.
Lassú avrebbero trovato riposo solo le nostre ossa spolpate dagli sciacalli del cielo.
Ora. Mentre ognuno di noi perlustrava il terreno per trovare la pietra adatta, non protetta dalla Soprintendenza archeologica, per lapidare il nostro generale, all’improvviso la lunga fila per l’ingresso al maniero si è aperta in due e, al suo termine, è emersa prima la voce e poi la figura di Rino, che ha strepitato: – Tutti i normali si spostino a destra! Avanzino i trapiantati! Prego entrino prima i malati! Su! Fate passare quelli che hanno avuto l’epatite!
Procedendo fra gli sguardi commiserevoli dei «normali» in coda, siamo entrati dentro il castello.
– Un po’ di privacy, no? Eh, Rino? Complimenti per la delicatezza, – gli ho ringhiato contro una volta dentro e in attesa che anche i nostri «normali», fra cui Grazia e mia mamma, entrassero.
– E poi lo sai che c’era una strada che ci avrebbe permesso di non morire…
Fottendosene, mi ha dato le spalle e smarcandosi dal resto del gruppo, che un po’ lo voleva morto ma non aveva il fiato per ucciderlo, è andato incontro a signora Corrias, che aveva superato la biglietteria.
L’ha presa a braccetto ed è partito con lei in modalità viaggio di nozze lungo le mura panoramiche della fortezza.
Il Misero intanto, risedutosi in carrozzina, blaterava: – Adesso a me chi mi spinge?
E per tutti gli ha risposto Bartali: – Coddati, da adesso in poi vai a piedi.
Dopo tanto sudore l’intera comitiva dei Figli del Dono ha oltrepassato il confine.
Alcuni hanno optato per la visita guidata, altri, come me e Grazia, si sono dati al pascolo libero.
All’ombra di un olivastro, seduta su una panchina, Mamma conversava fitto con Clementina circondata dalle vedove, sedute accanto.
L’unica frase che ho intercettato è stata: – Adesso ne parlo con mio figlio.
E siccome ho sentito aria di fregatura, ho allargato il raggio della mia camminata mentre Grazia, richiamata a gran voce da Melina, si dirigeva verso la chiesetta di Nostra Signora de Sos Regnos Altos.
– Checco, noioso, vieni qua! Siediti un attimo fra noi.
SÃ, Mamma.
Abbiamo avuto anni di contrasti, mia madre e io. Ha cresciuto me e mio fratello secondo le leggi del ferro e del fuoco. Non ci ha mai concesso un vizio, infatti poi quelli ce li siamo presi da soli. Come neppure un agio. È stata una madre dura. Ci siamo scontrati senza mai capirci. Voleva un figlio piú rigoroso, capace, assennato, ma le è toccato fare i conti con una mezza tacca che sognava di volare alto senza allenare le ali. E forse senza manco avercele.
Su un punto non ci siamo mai scornati e su una questione ho aderito alla sua scelta e al suo pensiero senza tentennare.
Quando in un...