Cesare
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Cesare

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Cesare Garboli era un critico folgorante, che scriveva per capire. Rosetta Loy è una grande scrittrice che ci racconta il loro incontro; e l'affinità assoluta, piú lunga di una vita. I silenzi nella casa dell'entroterra toscano e le serate con la pioggia che riga i vetri, i gatti ad accompagnarli ovunque, a eccezione di quelli neri, presaghi di nefaste profezie. In questa memoria sentimentale Cesare appare sia tra le pagine dei suoi libri che nelle sue furie imprevedibili. Da adolescente con il ciuffo davanti agli «occhi stupefatti e sbarrati che fissano incantati il futuro che li aspetta», al trentenne inviato in Vietnam, che non riesce a scrivere nemmeno una riga, stravolto dall'orrore che gli si presenta davanti. O mentre dà battaglia sulla scacchiera a Carlo Caracciolo in interminabili partite che lo vedono impegnato con regine, re, alfieri e pedoni. Grande amico di Natalia Ginzburg, Elsa Morante e Fellini. Lettore dall'intelligenza inarrivabile e uomo di infuocate passioni. Questo libro non è una resa docile al ricordo, ma il suo contrario. Perché, come scrive Metastasio nel celebre sonetto molto amato da Cesare, «Siam navi all'onde algenti, | lasciate in abbandono. | Impetuosi venti | i nostri affetti sono, | ogni diletto è scoglio. | Tutta la vita è mar».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806238506
eBook ISBN
9788858428733

1.

Nel 1978, dopo l’omicidio di Aldo Moro che fra depistaggi e omissioni rimane ancora oggi un buco nero nella storia del nostro paese, Cesare aveva deciso di lasciare Roma e l’ufficio che aveva alla Mondadori per trasferirsi a Vado di Camaiore, nella grande casa alle pendici delle Apuane dove la sua famiglia aveva trascorso l’ultimo periodo di guerra. Casa rimasta poi per anni facile preda di muffa e di ragni, ma dotata di un’anima in apparenza immortale.
Una decisione che al momento era apparsa incomprensibile, e come non di rado accadeva, veniva attribuita a una sua sconcertante e imprevedibile «mutazione di rotta».
Cesare aveva quarantanove anni, un lavoro sicuro e un bellissimo ufficio alla Mondadori di via Sicilia a Roma. Ma quanto era successo il 9 maggio di quell’anno, quando il corpo di Aldo Moro era stato ritrovato in via Caetani rannicchiato nel portabagagli di una Renault 4 rossa, trafitto da dodici colpi (tre sparati da una rivoltella, gli altri da una mitraglietta Skorpion), oltre a sconvolgerlo perché picchiava giú duro sulle ultime speranze di poter vivere in un paese civile, gli aveva chiarito quello che per noi sarebbe rimasto ancora difficilmente decifrabile. E avrebbe impiegato anni a configurarsi con la chiarezza con cui lui l’aveva immediatamente individuato.
Dal suo appartamento in pieno centro a Roma, a due passi da piazza di Spagna, andava adesso a vivere in una frazione di Camaiore in una casa appartenuta a un antico prelato il cui stemma figurava con tanto di cappello cardinalizio di fronte all’ingresso principale.
Casa comprata dal padre negli anni Trenta quando fra le sue molte attività aveva voluto aggiungere quella di imprenditore nel settore agricolo; e dove la famiglia si era rifugiata nell’ultimo periodo di guerra, quando il fronte aveva raggiunto la costa toscana costringendoli ad abbandonare la villa sul lungomare di Viareggio.
E davanti c’era ancora il lungo l’edificio che conteneva un tempo le sementi e gli attrezzi, accorpato da una grande ruota di legno a quello della ‘brilla’ dove le olive venivano schiacciate per ricavarne l’olio. Di lato lunghi filari di meli dai rami contorti si allineavano ancora in un preciso ordine a fianco della canaletta d’acqua che serviva a farla girare.
Un padre, l’ingegnere Antonio Garboli, che oltre ad avere creato una delle piú importanti imprese di costruzioni italiane, aveva allargato le sue attività nei piú svariati settori. E quando l’«Impresa Garboli» in seguito a turbinose vicende familiari era finita in mano al marito della maggiore delle figlie, si era ritirato a vivere nella villa che si era costruito a Viareggio. Una villa «cosí grande che nelle stanze ci si vedeva e ci si incontrava come in un transatlantico» (Prefazione ai Diari di Antonio Delfini, p. XLIII).
E di Viareggio sarebbe stato un famoso sindaco dal 1951 al 1953.
Alla sua morte, avvenuta all’improvviso nel 1961, alcune delle figlie avevano contestato la scelta di privilegiare il maschio lasciandolo erede non solo della villa di Viareggio (che Cesare avrebbe venduto alcuni anni dopo), ma anche della casa dell’antico prelato alle pendici delle Apuane dove la grande ruota di legno che metteva un tempo in moto il frantoio compariva adesso simile a un antico totem. La canaletta d’acqua che serviva a farla girare che continuava la sua corsa limpida e perenne tra l’erba alta delle sponde, sfiorata solo dal volo lieve delle libellule.
Com’era possibile giustificare questo improvviso ritiro, a neanche cinquant’anni, di un intellettuale presente e protagonista in ogni occasione, compagno per anni di Susanna Agnelli e grande amico di Natalia Ginzburg e Elsa Morante, di Fellini, di Moravia, allievo prediletto di Natalino Sapegno e Roberto Longhi, se non con una capricciosa e imprevedibile alternanza di ‘umori’, quasi una sorta di schizofrenia?
Oggi sappiamo invece che Cesare aveva capito quello che noi avremmo impiegato anni a decifrare, e aveva scelto di abbandonare la cosí detta ‘vita pubblica’ per dedicare tutta la sua energia ai valori di una cultura minacciata da ogni lato. Con i principali strumenti a sua disposizione: l’intelligenza e la rapidità della sintesi. Strumenti che manovrava con abilità stupefacente.
«Ho una casa in campagna, ci sono vissuti i miei genitori, ci sono addirittura morti, e vado là a occuparmi della storia, che è poi il regno dei morti», dirà a Corrado Stajano quando lo intervisterà per il «Corriere della Sera».
Io ho amato tantissimo i lunghi silenzi di Vado e le sere invernali con la pioggia che rigava i vetri. I ritratti che risalivano agli anni Trenta e uno stralunato Cesare diciannovenne dipinto da Morlotti con «occhi stupefatti e sbarrati che fissano incantati il futuro che li aspetta». Ho amato la sua solitudine popolata da una miriade di tazze e tazzine sbeccate, piatti spaiati di porcellane famose superstiti nella credenza insieme a bicchieri di Baccarat e brocche dal manico rotto. I letti ampi come barche per affrontare l’oceano della notte o poco piú che scatole per imprigionare il sonno dei lattanti che ricevano ancora l’ombra dei platani, appena mossa dal vento che scende dalle Apuane. Gli armadi che si aprivano cigolando su pile di coperte tarlate e vestiti appartenuti a chissà chi, in chissà quale tempo.
Ho amato perfino quelle gigantesche pentole dai coperchi ammaccati che si affollavano nella credenza della cucina: e appena veniva aperto lo sportello scivolavano giú sul pavimento una appresso all’altra, con un rimbombo che risuonava fino al piano di sopra. La mastodontica affettatrice rossa dalla lama mangiata dalla ruggine, inamovibile dal ripiano di marmo su cui era stata appoggiata al tempo delle «cinque | dolci sottane tra il sofà e la radio».
Un quadro di dimensioni degne di Versailles li celebrava ancora all’apice dello splendore: padre e madre in alto all’ombra di un ulivo, e giú lungo il pendio quelle cinque sorelle che sembravano venirti incontro con le loro camicette bianche, le gonne blu e i nastri nei capelli. In primo piano la maggiore seduta sul prato con un vestito giallo-arancio, in braccio la prima nata della nuova generazione. Cesare sul lato sinistro, in piedi, appoggiato a un albero. Cesare ragazzo con i pantaloni corti e le mani in tasca, un ciuffo di capelli sulla fronte e la mano sollevata a moderare l’entusiasmo del cane che lo imprigiona con le zampe al tronco.
Un quadro talmente grande che quando Cesare venderà la casa di Vado trasmigrando prima a Firenze e poi alla periferia di Viareggio, resterà sempre imballato perché non ci saranno piú pareti in grado di contenerlo.

2.

Il primo libro di Cesare è stato La stanza separata. È il marzo 1969 quando esce da Arnoldo Mondadori, con una rigida copertina verde scuro.
Una Avvertenza all’inizio ci spiega che
«Dei saggi e articoli qui raccolti, tre sono stati scritti per impulso spontaneo (Il dottor Zivago, Il mondo è quello che è, Autobiografia di Antonioni), e tra questi i primi due non sono mai stati pubblicati prima d’ora. Di altri tre è stata almeno spontanea la scelta del tema (Tutta una trascendenza, Gramsci come Tasso, Gli orrori sono orrori). Gli altri mi sono stati commissionati. Uno imposto da una piccola ribellione interiore (Il male estetico). E davanti alla confusa crescita di un libro che, in se stesso, non è nato come un libro, ma lo è diventato col passare del tempo, è forse giusto che io cerchi di spiegare come andarono le cose.
In primo luogo, piú dei libri mi hanno sempre interessato, almeno in passato, le persone. Piú della “letteratura”, tutto quello che la letteratura nasconde e rivela. Pacifico quindi che mi piacesse togliere ai libri la loro maschera, la loro empia e sacerdotale veste di attori. È questa una vocazione alla “critica letteraria”? Questo è esercitarsi nella “critica”? Ma a rigore, in questo caso bisognerebbe applicarsi alla critica come a una scienza esatta, coi suoi principî, le sue leggi, le sue deduzioni, i suoi commi, i suoi 0.0., 0.1., 1.1., 1.2… Ma per essere filologi o autentici “critici”, se giovani bisogna essere un po’ divisi da se stessi, un po’ collezionisti. Comunque bisogna saper convogliare la propria voracità di vita, isolarla, metterla da qualche parte, trasferirla, sfogandola nel cibo, nella famiglia, nella campagna, nelle donne, nelle farfalle, in un qualche accidente correlativo.
E poi a stabilire com’è fatta una stoffa, quanto di lana, quanto di cotone, se non si ha bottega, o qualche pratico interesse a farlo, ci si annoia. Fosse una necessità, la letteratura, un mestiere utile. È praticando questo genere di attività, invece (“manca la critica” è ormai diventato un ritornello), che si capisce quanto siano appropriate, oggi, tempestive, le vacanze di un’élite, di una civiltà letteraria, di cui non c’è alcuna richiesta, alcun bisogno. La letteratura è giunta a un punto di crisi, le manca l’aria, l’ossigeno, proprio nel momento in cui ci si è accorti che i valori della cultura sono “utili”. Non reali, come era stato nella civiltà classica e poi umanistica, ma “utili”. È vero, la cultura appartiene alla prassi, è una fabbrica e non un giardino. Ma diventa utile soltanto in tempi di barbarie. Scrivere senza una finalità politica, utilitaria, è oggi da imbecilli. Mentre un’operazione virtuosa, un po’ vacua e un po’ sublime, lo scrivere disinteressatamente, quando teneva la scena il vecchio Capitale dalla faccia cattiva, comprimaria una borghesia orgogliosa delle sue cieche certezze, persuasa del bene dell’ignoranza, tirannica nonna di vista corta e grande carattere… Allora non erano ancora nati gli “intellettuali”. Un poeta, un artista, un critico era un letterato. E facesse pure il superuomo, tanto lo si sapeva che era un fanciullino, un bambino capriccioso con la testa tra le nuvole. Un perditempo. O un buffone, da ridere sopra le sue mattàne. O da guardare con rispetto, qualche volta, se parlava difficile o vestiva pulito. O magari da viziare, da ungere. Il Novecento esordiva ottocentesco, teorizzando la divisione dei compiti, la distribuzione delle competenze, la circolazione delle categorie. A te Dio, a me Mammona. La fetta di Dio toccava alla letteratura, che, cresciuta, diventata grande, aveva nel frattempo perduto ogni ricordo dei primi passi in fasce negli studi dei notai».
Questa Avvertenza, si conclude diciannove pagine dopo.
«[…] M’accorgo di stare oltrepassando oltre ogni decenza i confini del preambolo introduttivo, e di sfiorare addirittura il capitolo di storia letteraria […] Quello che eterneggia mi è poco congeniale. Piú volentieri, entro nell’ordine d’idee che niente è piú sacro di ciò che non è stato ancora redento dallo stile, non ancora raggiunto dall’intelligenza».
I testi raccolti ne La stanza separata partono da Tobino: il primo, scritto nel 1958, e terminano dieci anni dopo insieme a quello su Leopardi. Ma lungo il loro percorso incontrano altri quaranta autori che vanno da Pasolini a Sandro Penna, da Pasternak (Il dottor Živago) alla Morante (L’isola di Arturo), e poi ancora Gadda e Mario Soldati, Calvino e Moravia, fino ad approdare a Vladimir Nabokov e al suo romanzo del 1930 su un giocatore di scacchi: La difesa.
Ed è singolare come la scrittura di Cesare, anno dopo anno, assuma sempre di piú una struttura unica e inconfondibile (verrebbe da dire «garboliana»).
Una seconda edizione uscirà nel giugno successivo e vincerà il «Viareggio opera prima per la saggistica». Un buon inizio per un autore che sul risvolto di copertina ha scritto: «Il libro involontario di un critico che scrive per capire».
Ma quando diversi anni dopo verrà intervistato da Giuseppe Leonelli, alla domanda perché mai quel titolo, Cesare lo riferirà semplicemente alla stanza occupata da una delle sue cinque sorelle, separata dalle altre perché conteneva un pianoforte.
Per avere un secondo libro di Cesare dovremo però aspettare altri quindici anni, quasi quella frase riportata sulla prima pagina: «Il n’y a pas de réalité hors de l’écriture, mais si l’écriture existe autant que réalité, alors ni réalité existe ni écriture», dovesse rendere La stanza separata un’eccezione, uno slittamento fuori dalla sua attività letteraria.
Nel frattempo usciranno, corredate da due lunghissime prefazioni, i libri di Antonio Delfini.
È il gennaio del 1982 quando Einaudi pubblica i Diari dello scrittore modenese, a cura di Giovanna Delfini e Natalia Ginzburg.
Rimasti fino a questo momento inediti, coprono un arco di tempo che va dal 1927 al 1961 e occupano 411 pagine scritte molto fitte. La Prefazione di Cesare, suddivisa in 10 capitoli, ne occupa altre 46 scritte altrettanto fitte e contrassegnate da numeri romani (I-XLVI).
Una Prefazione che è di per se stessa un libro per il sipario che apre sull’incontro fra uno scrittore di trentanove anni in continua battaglia con se stesso e il mondo, e un ragazzo di diciassette, assetato di letteratura. È il 1946 e durante le loro passeggiate sul lungomare di Viareggio inizia, fra lo scrittore modenese cresciuto in una facoltosa famiglia di proprietari terrieri e il ragazzo salutato alla nascita da cento colpi di fucile quasi fosse un erede al trono, un sodalizio destinato ad andare avanti a tempi alterni fino alla morte di Delfini nel 1963.
«[…] Il tempo è volato dal giorno in cui conobbi Delfini sul lungomare di Viareggio (nel 1946), – scrive Cesare; – io avevo 17 anni e lui 39, ma sono stato un ragazzo, sotto certi aspetti, precoce; e la seduzione che egli seppe esercitare su di me, appena lo incontrai, si protrasse poi indisturbata e intatta per un motivo forse piú basso, o piú nobile, dell’amicizia. C’era qualcosa come una curiosità fenomenologica, nella mia amicizia per Delfini, se posso rubare questo vocabolo alla filosofia (e a una filosofia cosí pasticciona). Nei limiti e nelle modalità in cui si manifestava, Delfini era un oggetto che la mia coscienza non poteva fare a meno di dare a se stessa; e, in come si manifestava, percepivo il rivelarsi di una verità assoluta. Ciò che mi attirava, e fece subito breccia, era il narcisismo. Oggi narcisisti lo siamo tutti; e non c’è piú nulla di strano, o di significativo, nell’essere afflitti da un male che si è diffuso inarrestabile insieme ai pavimenti di cotto e al diritto d’opinione. Ma Delfini era afflitto da narcisismo incurabile in un tempo in cui questa malattia non si era ancora massificata; era (ecco il punto) narcisista non di libido ma di volontà, cioè meno narcisista di natura di quanto non lo volesse essere per partito preso. Era dunque in anticipo. Il narcisismo nasceva da un luogo remoto di frustrazione e da una vulnerabilità disperata, comportandosi, grazie a una reazione di grande purezza, come un blocco sentimentale e affettivo. Dare e chiedere il cuore era un’incapacità che aveva le sue radici lontano, ma, col tempo, si era corazzata murandosi nella volontà di non avere mai bisogno di niente e di nessuno (p. VI).
[…] Lo ritrovavo a notte fonda, o poco prima di giorno, quando rientravo a casa fischiettando “Long ago and far away” o “C’est si bon”, con la solitudine dei vent’anni e la speranza di cibo dei cani che frugano tra i rifiuti. Facevo il giro dei caffè di Viareggio ancora aperti. Delfini era là, in piedi nello spicchio di luce ritagliato nel fondale della notte afosa, davanti al banco, una mano in tasca, l’altra a tenere il bicchiere o a grattarsi il cranio già quasi calvo. Nel vedermi (nel vedere qualcuno) il sorriso gli scucchiava la faccia tagliandola da un orecchio all’altro. Il cameriere sciacquava e asciugava le tazze. Si sentiva solo quel rumore d’acquaio, ritmico, e il mare ansante e mansueto lí a due passi, vicino ma anche lontano. “Je suis le ténébreux, le veuf, l’inconsolé, le prince d’Aquitai...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Cesare
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. 16.
  20. 17.
  21. Testi citati
  22. Il libro
  23. L’autrice
  24. Della stessa autrice
  25. Copyright