La mattina dopo riaccesi il telefono, fissai la carica della batteria e aspettai che le notifiche riempissero lo schermo.
I messaggi che mio marito mi aveva mandato nella notte dicevano cosí: «Ti raggiungo, Ida. Non resisto piú».
Tre minuti piú tardi: «Ma già dormi?»
Sei minuti piú tardi: «Non ti ho detto che oggi sono arrivate l’acqua e la luce, tutto a posto».
Io non sapevo se avevo voglia di vedere Pietro, proprio perché il sesso a distanza aveva reso la notte prima cosí inaspettata. Non si può desiderare ciò che si ha già, mentre la mia intera vita dimostrava com’è facile amare un assente.
Risposi che si trattava di pazientare ancora qualche giorno, e mi tenni cari i suoi messaggi, cartoline da un luogo in cui acqua e luce erano bollette e per quietarle bastava pagare.
– Vieni con me a comprare le scatole per la roba che vuoi conservare? C’è un negozio a Tremestieri, le ha di cartoncino o di plastica, sceglitele tu.
La voce di mia madre irruppe con lietezza nella mia colazione, o forse ero io che, dopo il sesso clandestino e un poco onirico con mio marito, mi sentivo felice come chi nella notte ha trovato un segreto e di giorno lo sa custodire.
– Quelle cose dentro i sacchi neri, mamma, si possono buttare.
– E vieni, dài, chiudili e buttiamoli insieme.
Da quando ero arrivata, non eravamo mai uscite insieme. Al momento di salire in macchina mi venne da cantare, come quando ce ne andavamo in giro, ragazzina io e ragazza pure lei, e mi ricordai di un altro giro in auto, di un’altra spazzatura.
Quando mio padre mi aveva iscritta a una sorte fantastica indovinando i miei piedi prodigiosi, piedi divini, aveva visto in me qualcosa che non c’era, non era forse una dichiarazione d’amore? Con i pattini io avevo calpestato la città e le sue macerie sotterranee, volando sui fondali dello Stretto, staccandomi dal centro della Terra tutte le volte che lo desideravo. Poco importava che i bandi di gare a cui faceva cenno non arrivassero mai e che le mie doti non fossero affatto speciali: non ero riuscita ad andare oltre il «salto del tre», il piú semplice, un passo appena coreografico, e spesso anche quello mi riusciva male. Di fronte ai nostri sogni la realtà poteva accucciarsi da una parte, inoffensiva. Ma, di tutti gli oggetti che riempivano la mia vecchia stanza, solo dei pattini non c’era traccia.
Saperli in casa mi faceva troppo male e un giorno, prima di una delle passeggiate con mia madre, li avevo infilati dentro un sacco della spazzatura. Ero stata io a sporgere il braccio dal finestrino verso il bidone, avevo allentato la presa e sentito il tonfo dentro il contenitore.
Una settimana dopo avevo comprato un biglietto di seconda classe per Roma, sola andata.
Quando mia madre accostò l’auto vicino a un cassonetto provai una fitta al cuore e insieme il bisogno di accogliere quel dolore, accudirlo, usarlo per superare me stessa e i miei ricordi. – Scendo e li butto io, – proposi prendendo in mano i sacchi neri, lanciando l’asticella della mia resistenza fin dove potevo. Lei si rilassò, soddisfatta che mi stessi dando da fare per aiutarla, mentre il rumore duro di quegli oggetti abbandonati ripeté una scena già vissuta.
Tornai in auto, mia madre accese la radio, abbassammo i finestrini e cominciammo a cantare.
In un modo limpido e segreto, durante gli anni in cui avevamo vissuto da sole eravamo state anche felici. La nostra era la felicità dei pezzi di vetro smerigliati che i bambini trovano sulla spiaggia, una felicità rada, luminosa e inoffensiva; uscivamo senza meta, per fuggire e imbrogliare la casa, percorrevamo le statali e le litoranee a est verso lo Ionio oppure nell’ovest del Tirreno, mia madre guidava e io guardavo fuori. Quando pioveva o nevischiava, lo Stretto si colmava di marosi e la città ci accoglieva, dal finestrino scorrevano famiglie e coppie, pazzi e impiegati, persone che si riparavano dalla pioggia e persone senza casa che affrettavano il passo fingendo di averne una. Ogni tanto ci fermavamo a riempire il serbatoio di benzina, a far controllare l’olio, le gomme, a mangiare il gelato lungo e stretto chiamato la mattonella, che i baristi tagliavano a fette e ci servivano in piattini bianchi ricoperti da un tovagliolo di carta velina. La sola felicità di cui eravamo capaci aveva il fiato corto della parentesi, della pausa inaspettata. Non ci fermavamo mai al mare, piuttosto gli camminavamo in parallelo sulle statali, e io sognavo onde tanto lunghe da arrivare a lambire le ruote della macchina, sembrandomi cosí di riuscire a nuotare, o a sopravvivere.
– Mamma, ma attenta! – saltai su, distratta dai miei ricordi a causa di una brusca frenata.
– Vuoi guidare tu, Ida?
– No, no. Ma non è che, siccome non voglio guidare, tu puoi fare quello che vuoi.
– Se vuoi guidare tu, guidi, sennò zitta e te lo fai andar bene.
– L’hai rinnovata la patente?
– No, guido senza documenti. Aspettavo te per ricordarmelo, sai.
Continuammo a provocarci fino a destinazione, e ancora dentro il negozio, per via delle scatole che io trovai di pessima fattura e con brutte fantasie. Alla fine scelsi le piú accettabili, una a righe rosse e bianche e una a grandi pois blu.
– Scegline altre, per le cose che vuoi tenere due soltanto non bastano.
– Ma se vendi casa che t’importa?
– Appunto, metti che te le devi portare a Roma.
Sulla soglia dell’indecisione stavamo bene. Discutendo per finta dell’estetica o dell’utilità degli oggetti, ci riposavamo; sapevamo entrambe che punzecchiarsi era una finzione e nascondeva un accordo di pace.
Conoscevamo, dal passato, altri e penosi litigi.
L’anno prima che mi trasferissi a Roma urlavamo per i motivi piú diversi, e le nostre scenate erano rimaste indelebili. Litigavamo la mattina, il pomeriggio e la notte, litigavamo come fossimo invincibili e non dovessimo morire mai, litigavamo come esseri eterni che si permettevano il lusso di sprecare il tempo; quel pugilato sporadico si era trasformato presto nel nostro unico dialogo. Il frigo vuoto o i panni bagnati che nessuna delle due aveva voglia di togliere dalla lavatrice erano il pretesto per far scoppiare una discussione sempre piú livida, un gioco a dirci di peggio e di piú, una parola piú oltraggiosa, un’ingiuria senza scampo, un urlo piú forte, un pugno sul muro, calci alle finestre. Io urlavo e mia madre piangeva e ciascuna metteva in campo l’arma piú apocalittica, la rabbia piú disgustosa, una bestemmia. Di quella violenza era rimasto un segno: la maniglia rotta della mia stanza, il muro screziato intorno al telaio della porta, lo stucco staccato e caduto. Urlavamo prima e dopo che avevo chiuso la porta, urlavamo mentre mi ci assiepavo addosso, urlavamo e crollavamo esauste. La libagione era finita, il cannibalismo reciproco interrotto; se era notte mi addormentavo al buio, se era mattina fissavo dalla finestra il mondo che non sapeva nulla di noi.
Dei nostri litigi non restavano ossa né polvere, uscivo di casa carica di imbarazzo. I vicini, ne ero certa, avevano sentito le nostre urla e forse pregavano per noi, per la salvezza delle nostre anime. Gli evangelici non litigavano mai: il muro che ci divideva restituiva canti e lodi per ricordarci che l’infelicità non era la regola di tutti ma l’eccezione della nostra casa. Una volta tornate, ricominciavamo. Sbranarci era una forma di intimità e per questo motivo la accoglievamo, piuttosto che non conoscerne nessuna. Quando ci ritrovavamo sole e sentivamo montare il prurito che ci avrebbe portato a esplodere, sperimentavamo l’ebbrezza del transitorio, come le coppie che finiranno la serata a letto e convivono con quel presagio per tutta la cena. Noi però non aspettavamo l’amore ma la lite e, anche se eravamo due, un due rotondo e soverchiato da un tetto, non eravamo una coppia. Eravamo madre e figlia e non avremmo saputo mimare in nessun altro modo l’assenza di mio padre.
– Ida, ti voglio dire una cosa.
– Se fai questo tono mi preoccupo.
– Sentimi. So che non mi ascolti mai. So pure che faresti il contrario di quello che ti dico, hai idee tutte tue, non torniamo su quello che ci siamo già dette, però una cosa da tua madre la vuoi sentire? La vita non si fa con i residui, con quello che ti tieni come scorta. Non ne hai un’altra di ripiego, dove mettere le cose che non fai.
– E allora?
– Quando tuo padre si è ammalato, è vero, ho cercato di stargli lontana piú tempo che potevo. Tu pensi che io l’abbia trascurato. Non mi sto scusando. Ero giovane, avevo un lavoro che mi piaceva, avevo te, ero preoccupata per te.
– E lo affidavi a me ogni giorno.
– Ho sbagliato con te, non con lui. La sua malattia mi esasperava, ti avrei messo le bende sugli occhi con le mie mani, se avessi potuto. Non volevo che vedessi cosí né lui né noi. Però non l’ho saputo fare, non ci sono riuscita. Tu non sai cosa significa avere un figlio e non poterlo proteggere. La felicità è importante, Ida.
– Non ricominciare con quello che non posso capire, parla di te, quando parli di te sei meno patetica.
– Ida, come ti rivolgi a tua madre. Come?
– Ci fermiamo a prendere una mattonella?
In quel momento mi sarei strappata la cintura di sicurezza a morsi, l’aria mi mancava, le parole sincere di mia madre mi colpivano piú delle sue accuse.
La felicità non esiste ma esistono momenti felici: avevamo fatto presto al negozio di scatole, non erano ancora le nove e mezza della mattina, e prima di rientrare, sedute nel déhor della nostra pasticceria preferita, ne rubammo ancora uno.
Ecco in cosa ero stata brava fino a quel momento: a non cadere. A tredici anni, dopo la scomparsa di mio padre io, per vivere, mi sarei dovuta inventare. Come altri si costruiscono il corpo muscolo dopo muscolo grazie all’allenamento e all’atletica, oppure si scolpiscono la mente e l’intelligenza con la psicoanalisi, la cultura o la meditazione, come in palestra intagliano un tricipite o disseppelliscono un tendine che neppure sapevano di avere, come trovano il lavoro, lo stipendio necessario, la poltrona al sicuro, il titolo di studio, la posa per la foto sul passaporto, la postura adatta al carattere, il vestito che pare cucito addosso, insomma allo stesso modo in cui tutti inventano chi sono e inventandolo si impongono, allo stesso modo toccava a me.
Io però non sapevo chi ero. Quello che mi era accaduto mi riguardava, ma era accaduto quando ero troppo piccola perché il mondo me lo riconoscesse. La gente non avrebbe interrotto il tempo e le proprie abitudini, tutti saremmo andati avanti perché il pianeta è pieno di sciagure, guerre e fame e stupri, e se un professore contrae la tristezza è soltanto colpa sua, ha mancato nel proteggere moglie e figlia dagli attacchi esterni e perfino da sé. Che uomo doveva essere un uomo cosí? Non gli è importato nemmeno della bambina, bisbigliava il silenzio della città; o forse alla città non importava nulla di me, di mio padre e della nostra famiglia, e quella era l’ipotesi piú verosimile. Io e mia madre eravamo due certificati di nascita e un giorno saremmo state due certificati di morte, e in mezzo due schede elettorali, due testamenti, infine una leggenda lontana: guarda, in questa casa abitavano due donne – avrebbero detto i cittadini fra loro, passando sotto il mio balcone. Oppure non saremmo state niente, neanche due folcloristici fantasmi, e dopo di noi un’altra famiglia avrebbe acquistato la casa e l’avrebbe resa un luogo diverso. Allora aprendo la porta si sarebbe respirata una fresca normalità, ci sarebbero stati rumori di bambini e giocattoli, mobili lucidi e pareti tinteggiate, lavatrici efficienti, un calendario, una piccola lavagna e gessi colorati in cucina come dagli evangelici; la mia vita e quella di mia madre sarebbero finite, morte con noi, perché nuovi legittimi proprietari avrebbero comprato le nostre pareti e il diritto di spazzarci via.
A questo pensavo nell’ultimo tratto di strada, tornando a casa, mentre dal finestrino cercavo lo stesso mare della mia infanzia. Io, se volevo vivere, quel mare dovevo attraversarlo e non fermarmi: il mio posto non era Scilla né Cariddi, e forse non esisteva in nessuna carta geografica, di sicuro non era una questione di chilometri. Ecco perché, anni addietro, Roma mi era apparsa la meta piú adatta: la città piú grande, la piú forte, cinta da mura. Dovevo fuggire, entrare a cavallo nell’Urbe come un conquistatore e voltarmi, guardare la Sicilia con la distanza del telescopio e la sicurezza dei rifugiati, per poi dimenticarmi e confondermi con i turisti di piazza Navona, con i barboni della stazione Termini, con le fioriere sotto i balconi borghesi dei quartieri residenziali. Io ero fatta, in ogni atomo, dell’aria della casa di Messina, e per questo motivo avrei dovuto lasciarla. Poi le cose mi avrebbero seguito come i cani, la miseria e il fato, ma una volta al sicuro le avrei addomesticate, rese innocue, lontano dalla casa sarei stata nuda e lieve, libera. Cosí pensavo a vent’anni.
Chi ero, continuavo dunque a chiedermi mentre mia madre parcheggiava e tiravamo fuori dal cofano le scatole appena comprate.
Ero la bambina nata da un uomo e una donna che si erano amati per giorni brevi, la custode della depressione di mio padre, la figlia rabbiosa di mia madre, la studentessa paziente e meritevole, la giovane donna spaventata. Ogni giorno imparavo a nascondere la vergogna e indossare la forza come i marinai, a comandare da un angolo come comandano le donne. Io e mia madre eravamo una famiglia come se nulla fosse successo, ma eravamo anche speciali perché eventi innominabili erano successi proprio a noi.
Il trascorrere del tempo restava, per me, una grande fatica.