Davvero del tutto estranea, questa corrente dell’Umanesimo, alla tonalità fondamentale che in esso assume il neoplatonismo? Forse, per riprendere la felice immagine di Warburg, nessun ‘arazzo’ come quest’epoca è composto da piú fili e di piú diversi colori e materie. Mai come intorno a questo problema è necessario tenerlo a mente. Anzitutto, occorre cogliere la drammatica da cui lo stesso neoplatonismo è tutto pervaso, tanto al proprio interno, quanto per l’inevitabile confronto con l’aristotelismo, da un lato, e la teologia cristiana, dall’altro. E poi leggere ‘in controluce’ quel testo, conclusivo di un’epoca in tutti i sensi, l’Oratio del conte di Concordia, inseparabile dalle Conclusiones nongentae, nient’affatto esibizione di erudita e giovanile arroganza, testimone, piuttosto, di una provocazione riformatrice di straordinaria energia. Tradizioni e auctoritates su cui il pensiero filosofico e teologico sembrava fondarsi vengono qui affrontate ‘alla pari’, ridiscusse, comparate, con eccezionale ‘arte combinatoria’ e libertà di movimento, e tuttavia vi permane vivissimo lo scrupolo filologico e ancora piú vive la vis indagatrice, interpretante, l’inquietudine di quell’autentica skepsis, che resta momento fondamentale di ogni pensare. Ciò che piú conta è però comprendere come nell’Oratio si esprima il tentativo, di grande mole davvero, di combinare l’immagine neoplatonica dell’uomo, depurata da ogni verbosa laudatio, con quelle stesse problematiche che nell’Alberti si erano tragice delineate.
Mirabile l’uomo, magnum miraculum. Ma le spiegazioni tradizionali dell’ermetica sentenza non soddisfano affatto. Non soddisfa il loro antropocentrismo, la visione sostanzialmente statica e gerarchica che in esse si esprime intorno alla natura e all’ordine del cosmo, con l’uomo come vincolo e intermedio fra tempo ed eternità, spirituale e sensibile. Ogni determinismo crolla di fronte all’irrompere del vero miracolo, e questo miracolo è veramente tremendo. Nel mezzo, in un leonardesco vortice piú che al centro della natura, è stato posto un essente nullis angustiis cohercitus, la cui felicitas la suprema liberalitas divina ha fatto consistere nell’id esse quod velit. L’uomo, unico essente creato al fine di ricrearsi; l’uomo, unica natura «alla ricerca di una continua rinascita» (María Zambrano). Ciò comporta il rovesciamento dell’impostazione etica classica, fondata su un’idea della natura dell’uomo che si è chiamati a porre poi in atto; ‘divieni ciò che sei’ era ‘l’imperativo’; ora esso suona invece: ‘divieni ciò che vuoi, che scegli di essere, o che senti di dovere’. Ma la libertà è dono tremendo, poiché in nessun modo predeterminabili i fini che con essa si possono perseguire. Saremo ciò che vorremo, ma ciò che vogliamo è vario, multiforme e cangiante. Due facce dell’universale vicissitudo. L’uomo è, sí, capax Dei, come lo considera il platonismo, capace di farsi unus cum Deo spiritus, di ‘indiarsi’ addirittura nella «solitaria caligine del Padre», e tuttavia nella sua essenza altri semi, altri germi di vita rimangono custoditi, che possono in ogni istante ridurlo a strisciare a terra come un bruto. Ritorna in te stesso, ripete Pico – per ritrovare le radici della tua grandezza, certo, ma a un tempo anche quelle della tua miseria1. L’esserci umano è un puramente possibile; libertà in lui non significa che pura apertura all’essere-possibile. Non ha certa sede come gli altri enti, è aoikos, diremmo, come l’Eros platonico; non possiede un volto proprio né una figura definita. A suo arbitrio sceglie il proprio aspetto. E tornano quei nomi che martellano i testi albertiani: camaleonte l’uomo, simboleggiato da Proteo nei misteri2, in perenne metamorfosi; plastes et fictor di se stesso. Che è come dire: simulatore e dissimulatore. Su tonalità diversa, come non avvertire in lontananza l’acre musica, se non addirittura del Momus, di tante Intercenales? Se libertà è il drammatico contrassegno dell’esserci, sarà certo impossibile definire quest’ultimo non solo come centro sovrano della realtà, ma anche in quanto pontifex tra le sue dimensioni3. Come un compito piuttosto ci appare, se non addirittura un perenne esperimento. Altro che ben fondata copula del mondo! Anche l’anima di Pico è sempre «in tirocinio, in prova» come quella dell’Alberti, come lo sarà, senza piú il pensiero che questo essere in prova possa aver fine, quella di Montaigne. Amicizie stellari tutte, dove le dissonanze partecipano necessariamente di una stessa armonia.
Certo, la ‘sentenza’ comune ad Alberti e a Machiavelli, che la mente nostra, «sempre intesa | dietro al suo natural, non ci consente | contr’abito o natura sua difesa» (L’Asino, I, vv. 88-90) contraddice l’ascendere di Pico, nega che nell’ambito del possibile tale possibilità ci sia data. I Ghiribizi al Soderini lo affermano tragice: gli uomini non possono comandare alla loro natura, ma soltanto procedere per quanto possono ‘accomodandola’ alla varietà degli ordini delle cose. Che una tale ‘operazione’ riesca oppure no rimane imprevedibile; perché le stesse ‘operazioni’ una volta giovino e un’altra nuocciano, perché sempre si assista a una straordinaria eterogenesi dei fini, perché uomini e stati persistano negli errori che pure hanno riconosciuto, «io non lo so». Tuttavia in Machiavelli non si afferma il primato del ‘contingente’ come in Guicciardini; il disincanto sulla natura dell’uomo (che è piú radicale nel primo che nel secondo, il quale pensa ancora a una naturale inclinazione al bene) non conduce ad affermare che son tutte ‘pazzie’ quelle dei filosofi e teologi «perché in effetto gli uomini sono al buio delle cose» (Ricordi, 125). Se anche una è la natura umana, nell’infinita varietà delle sue maschere, e «tutto quello che è stato per el passato e è al presente, sarà ancora in futuro» (Ricordi, 76), dovrà mantenersi in pieno il valore esemplare dello studio dell’Antico ed esso potrà indicarci quelle regolarità sulle quali elaborare fondate, ragionevoli congetture intorno allo stesso avvenire.
Il fine che la volontà di Pico persegue, autentica epopteia delle cose divine, su cui fondare vera Pace o Concordia, non potrà mai sopprimere questa problematica, antinomica origine della nostra natura. Anche quel Fine rimane nient’altro che un possibile, ancorato quasi alla febbrile tenacia degli studi, al perfezionamento di sé attraverso il colloquio ininterrotto con tutti i maestri, tutte le scuole di filosofia, filosofia naturale, teologia di ogni tradizione e civiltà. Gratia adiuvante? E come affermarlo nella logica di questo discorso? Dio ci ha posto irrevocabilmente nelle nostre stesse mani. Che fa poi? Guida da perfetto orologiaio le creature che hanno sede certa, nome sicuro, volto definito, o osserva, invece, passioni e azioni dell’uomo come il padre della parabola pensa al figlio che ha fatto libero erede, attendendone e basta la conversio, ovvero il ritorno? Ma come potrà, senza un altro miracolo, quello dell’aiuto divino, l’uomo, plastes et fictor, assurgere con le sue sole forze oltre a Serafini, Cherubini e Troni? Come potrà far passare dalla potenza all’atto l’intelletto che gli consente di in-tuere, stando ancora in terra, invisibilia Dei? La provvidenza divina provvede una tantum? Possumus si volumus – insiste Pico. E inizia da qui un eroico cammino dell’intelligenza: sono socratici i furori che rapiscono la mente; le Muse ispirano, guidate da Bacco; delfici i precetti da seguire; il gallo del Fedone l’animale che si deve al Dio della guarigione. La scala di Giacobbe diviene quella che, salendo attraverso dialettica e filosofia naturale, giunge infine alla vera quiete e solida pace della santissima teologia. La dialettica in quanto symploké, intreccio e ‘amicizia’ tra idee e non pugna tra parole e capziosa sillogistica. Anche la filosofia naturale, pur essendo la natura polemos e contesa, pacificherà le liti dell’opinione, permettendoci di comprenderne, come Eraclito vuole, la sostanziale unità, il logos comune che armonizza tutti gli opposti. Il movimento è, insomma, quello stesso della filosofia: tutto scrutando essa lacera-analizza, vi titanica, l’Uno nei molti, ma poi raccoglie (è il senso stesso del termine logos!), vi Phebea, i molti nell’Uno. Cosí ci si innalza fino a riposare in sinu Patris, al sommo della scala, raggiungendo la teologica felicità. Patriarchi e gerarchie angeliche, per quanto appassionatamente invocati, appaiono metafore o indumenta di questo studio della filosofia che si compie teo-logicamente, per il quale Pico non arrossirà d’essere lodato, studio che rappresenta la sola via per giungere a vera, perenne Pace, a pitagorica amicizia: «Multiplex profecto, Patres, in nobis discordia; gravia et intestina domi habemus et plusquam civilia bella. Quae si noluerimus […] sola in nobis compescet prorsus et sedabit philosophia». Innegabilmente, è su philosophia che batte l’accento di Pico; ciò non implica, di per sé, una polemica con l’espressione philosophia religiosa, ma certo è il primo termine a fornire la sostanza del discorso.
Quale filosofia potrebbe mai corrispondere a un cosí alto impegno? Come la meditazione e la contemplazione potranno diventare degne di farsi sede e ospiti del Rex gloriae? Solo dimostrando l’essenziale analogicità che vive nel profondo, nell’essenza di ogni tradizione e delle diverse scuole, una volta che esse vengano emendate ‘dall’accidente’ dei loro errori. Vi è una corda che accorda il cuore delle vere filosofie; esse sono distinte espressioni di un eros comune. Tutte è necessario considerare, tutte comparare e ‘misurare’, come per Alberti edifici e rovine dell’antica Roma, non per giungere ad astratti principî che ne eliminino la polifonia, bensí per esaltarne l’amicizia. Alla loro radice è pace. Ritrovarla significa perciò indicare la via della pace da realizzare oggi. Occorrerà però conoscere direttamente le loro voci – e farle rivivere. Non basterà superare i dogmatismi che minacciano sempre di richiudere in sé Portico e Accademia e proporre l’accordo tra i loro Maestri «da molti già prima sostenuto, da nessuno sufficientemente dimostrato»; né potremo arrestarci alla comparazione fra aristotelici e platonici greci, latini, arabi, giudei; anche ripercorrere l’aurea catena, dalla piú antica teologia, da Orfeo, da Zoroastro ed Ermete a Platone, e mostrare, in termini nuovi, ma sostanzialmente ancora sull’antica linea di Clemente e Origene4, che la «filosofia è tra le opere della divina provvidenza», non soddisferà quella responsabilità ultima che Pico avverte per «haec altior sanctiorque philosophia». Non si tratta, insomma, di aggiungere nuovi argomenti o contenuti a quanto già Ficino aveva proposto. Né di esprimere l’esigenza, filologica, nel senso che abbiamo chiarito, e perciò imprescindibile, di comprendere la lingua in cui tutte le diverse tradizioni si sono espresse, poiché altrimenti diverrebbe impossibile assimilarne anche le idee. Sono il punto di vista e il metodo che si trasformano. Nella costruzione ficiniana il ‘finalismo’ che la regge è chiaro: il culmine della dottrina platonica e quello della cristiana teologia si armonizzano perfettamente, generando quell’accordo tra sapienza e religione che sta a fondamento anche di ogni pace mondana5. La visione si amplia in Pico filosoficamente, non per la semplice aggiunta di altri testi e altre tradizioni. Per quanto centrale ne sia il ruolo, il platonismo diviene un elemento della ‘sinfonia’ e il suo accordo con la teologia cristiana, anzi: col Cristo stesso, «libro vivente della filosofia divina» (Ficino, De christiana religione, XXIII), da suo principio ordinatore e dominante non pesa ora che come un elemento del tutto. Rimane, certo, l’esigenza prima che muoveva la ricerca del ‘padre’ Ficino, esigenza ricca di significato tanto filosofico quanto storico-politico, e che sta alla base della sua polemica contro l’averroismo, quella, cioè, di non separare fede e ragione; tuttavia l’Oratio pichiana verte integralmente sulla dimensione teologica in quanto conclusione del cammino filosofico, e tale unitaria methodos, ciò che ancora piú conta, non sembra affatto presupporre, come in Ficino, l’assolutezza, la perfezione, l’universalità della religione cristiana (anche se sarebbe azzardat...