Lavoravo al pronto soccorso da circa tre settimane, credo. Era il 1973, prima che finisse l’estate. Nel turno di notte non c’era altro da fare che riordinare le pratiche per l’assicurazione del turno di giorno, e cosí ho cominciato a gironzolare, nell’unità di terapia intensiva cardiologica, giú in mensa, eccetera, in cerca di Georgie, l’inserviente, un mio buon amico che spesso rubava le pillole dagli armadietti.
Stava correndo sul pavimento piastrellato della sala operatoria con uno spazzolone. – Non hai ancora finito? – gli ho detto.
– Gesú, c’è un sacco di sangue, – si è lamentato.
– Dove? – A me il pavimento sembrava piú che pulito.
– Cosa diavolo hanno fatto qui dentro? – mi ha chiesto.
– Un’operazione, Georgie.
– Accidenti, siamo pieni di porcherie, – ha detto, – e non vedono l’ora di venire fuori –. Ha appoggiato lo spazzolone a un armadietto.
– Perché piangi? – Non capivo.
Si è fermato, ha alzato lentamente le braccia e si è aggiustato la coda di cavallo. Poi ha afferrato lo spazzolone e si è messo a tracciare grandi archi a casaccio sul pavimento, tremando e frignando e muovendosi a tutta velocità. – Perché piango? – ha detto. – Gesú. Wow, cavolo, perfetto.
Ero al pronto soccorso a chiacchierare con l’Infermiera grassa e tremolante. Un medico dei Servizi Famigliari che non piaceva a nessuno è venuto a cercare Georgie per mandarlo a pulire qualcosa. – Dov’è Georgie? – ha chiesto.
– In sala operatoria, – ha risposto l’Infermiera.
– Di nuovo?
– No, – ha detto l’Infermiera. – Ancora.
– Ancora? A fare cosa?
– A lavare il pavimento.
– Di nuovo?
– No, – ha ripetuto l’Infermiera. – Ancora.
In sala operatoria Georgie ha lasciato cadere lo spazzolone e si è chinato, nella posizione di un bimbo che fa la cacca nel pannolino. Guardava in basso con la bocca spalancata per il terrore.
Ha detto: – Accidenti, cosa devo fare per queste cazzo di scarpe?
– Quella roba che hai fregato, – gli ho chiesto, – te la sei già calata tutta, vero?
– Senti come cigolano, – ha detto, camminando con cautela sui tacchi.
– Ehi, fammi controllare le tasche.
È rimasto fermo per un minuto, e io ho trovato la sua scorta di pillole. Non sapevo cosa fossero, ma comunque gliene ho lasciate due per tipo. – Siamo quasi a metà turno, – gli ho detto.
– Bene. Perché ho tanto, tanto, tanto bisogno di bere. Potresti aiutarmi a pulire tutto questo sangue?
Intorno alle tre e mezza del mattino è arrivato un tizio con un coltello in un occhio, accompagnato da Georgie.
– Non sarai stato tu, spero, – ha detto l’Infermiera.
– Io? – ha risposto Georgie. – No. Era già cosí.
– È stata mia moglie, – ha detto il tizio. La lama era conficcata fino all’impugnatura nell’angolo esterno dell’occhio sinistro. Era un coltello di quelli da caccia.
– Chi l’ha portata? – ha chiesto l’Infermiera.
– Nessuno. Sono venuto a piedi. Sto a tre isolati da qui.
L’Infermiera l’ha scrutato attentamente. – Sarà meglio che la facciamo stendere.
– Okay, sono decisamente pronto per una cosa del genere.
Lei l’ha scrutato ancora un po’ in faccia.
– L’altro occhio, – ha detto, – è di vetro?
– È di plastica, o di qualche altro materiale artificiale.
– E con questo ci vede? – gli ha chiesto, intendendo l’occhio ferito.
– Ci vedo. Ma non riesco a stringere il pugno sinistro perché la lama mi sta facendo qualcosa al cervello.
– Oddio, – ha detto l’Infermiera.
– Conviene che chiami il dottore, mi sa, – ho detto io.
– Buona idea, – ha approvato l’Infermiera.
L’hanno aiutato a sdraiarsi, e poi Georgie gli fa: – Nome?
– Terrence Weber.
– Hai la faccia scura. Non vedo quello che dici.
– Georgie, – ho detto.
– Ehi, cosa stai dicendo? Non vedo.
L’Infermiera si è avvicinata, e Georgie le ha detto: – Ha la faccia scura.
Lei si è chinata sopra il paziente e gli ha gridato in faccia: – Quando è successo, Terry?
– Poco fa. È stata mia moglie. Stavo dormendo.
– Vuole la polizia?
Lui ci ha pensato un po’ e alla fine ha detto: – Solo se muoio.
L’Infermiera è andata all’interfono e ha chiamato il medico di turno, quello dei Servizi Famigliari. – C’è una sorpresa per lei, – ha detto. Lui ha percorso il corridoio con tutta calma, perché sapeva che l’Infermiera odiava i Servizi Famigliari, e il tono allegro che aveva usato poteva solo significare un caso al di fuori delle sue competenze, potenzialmente umiliante.
Ha sbirciato in sala traumi e ha visto la situazione: l’addetto amministrativo – cioè io – impalato accanto all’inserviente, Georgie, entrambi strafatti, a guardare un paziente con un coltello che gli spuntava dalla faccia.
– Quale sarebbe il problema? – ha chiesto.
Il medico ci ha radunati tutti e tre in ufficio e ha detto: – La situazione è questa. Dobbiamo far venire un’équipe, un’intera équipe. Voglio un mago degli occhi. Un gran mago degli occhi. Il migliore. Voglio un neurochirurgo. E voglio un artista dell’etere, trovatemi un genio. Io quella testa non la tocco. Stavolta rimango a guardare. Conosco i miei limiti. Noi lo prepariamo e poi ci facciamo da parte. Inserviente!
– Sta parlando con me? – ha detto Georgie. – Devo prepararlo?
– Siamo in un ospedale, o sbaglio? – ha chiesto il medico. – E questo non è il pronto soccorso? E quello un paziente? E lei l’inserviente?
Ho chiamato il centralino e ho detto di mandare il mago degli occhi, il neurochirurgo e l’artista dell’etere.
Georgie, intanto, era in fondo al corridoio che si lavava le mani cantando una canzone di Neil Young.
– Quel tipo non è a posto, niente affatto, neanche un po’, – ha detto il medico.
– Finché riesce a sentire le mie istruzioni, la cosa non mi riguarda, – ha ribattuto l’Infermiera, pescando con un cucchiaino dentro un bicchiere di carta. – Ho da pensare alla mia vita e a proteggere la mia famiglia.
– Va bene, okay, okay. Non si arrabbi, – ha detto il medico.
Il mago degli occhi era in vacanza o qualcosa del genere. Mentre la centralinista faceva un giro di telefonate per trovarne un altro, gli altri specialisti stavano correndo nella notte per raggiungerci. Sono rimasto lí a guardare cartelle cliniche e a masticare qualche altra pillola di Georgie. Alcune avevano un gusto che ricordava la puzza di urina, altre bruciavano, altre sapevano di gesso. Varie infermiere e due medici di terapia intensiva erano venuti giú a fare due chiacchiere con noi.
Tutti avevano un’idea diversa su come affrontare il problema di estrarre la lama dal cervello di Terrence Weber. Ma quando Georgie è tornato dopo aver concluso la preparazione del paziente – la rasatura del sopracciglio, la disinfezione della zona intorno alla ferita e cosí via – ci è sembrato che stringesse il coltello da caccia nella mano sinistra.
La conversazione è sprofondata nel vuoto.
Alla fine il medico ha chiesto: – Dove ha preso quel coltello?
Nessuno ha detto altro, per un lungo momento.
Dopo un po’ una delle infermiere di terapia intensiva ha detto: – Hai una stringa slacciata –. Georgie ha appoggiato il coltello su una cartella e si è chinato ad allacciarsi la scarpa.
Mancavano ancora venti minuti alla fine del turno.
– Come sta quel tizio? – ho chiesto.
– Chi? – ha detto Georgie.
È saltato fuori che Terrence Weber ci vedeva ancora benissimo dall’occhio buono e aveva riflessi e funzioni motorie accettabili, malgrado il problema di cui si era lamentato. – I valori sono nella norma, – ha detto l’Infermiera. – Quel tizio non ha niente. Cose che capitano.
Dopo un po’ ti dimentichi che è estate. Non ti ricordi cos’è il mattino. Avevo fatto due doppi turni con in mezzo una pausa di otto ore, che avevo trascorso dormendo su una barella nella sala infermiere. Le pillole di Georgie mi facevano sentire come un gigantesco pallone pieno di elio, ma ero sveglissimo. Io e Georgie siamo usciti nel parcheggio e abbiamo raggiunto il suo pick-up arancione.
Ci siamo sdraiati nel cassone su un pezzo di compensato polveroso, con la luce del giorno che ci bussava alle palpebre e la fragranza dell’erba medica che ci si addensava sulla lingua...