Sull’autostrada per Vienna, mentre mi sfilano davanti agli occhi i maestosi paesaggi austriaci, grandi colline innevate sulle quali veglia da millenni un baluardo di montagne dentellate, ascolto Radio Österreich 1. A Hagenberg, in Alta Austria, un uomo sta parlando di suo padre, Otto von Wächter, ex SS-Führer che durante la guerra fu governatore di Cracovia e poi del distretto della Galizia. Nel Governatorato Generale per le aree occupate della Polonia, dove i nazisti assassinarono tre milioni di ebrei polacchi. Ascolto con attenzione. «Con la deportazione degli ebrei lui c’entra solo nella misura in cui non poteva fare altrimenti, per cosí dire», dichiara Horst von Wächter ai giornalisti di Ö1, a cui ha aperto le porte del malconcio castello che ha acquistato un quarto di secolo fa. Sullo sfondo si sentono voci e risate. Prende la parola sua figlia Magdalena: «Ho sviluppato un senso di colpa, prima era molto forte […] era orribile sapere che il nonno ha partecipato a questo, mi ha annientata». Interviene la figlia di lei, Gwendolyn, quattordici anni: «Non era solo un cattivo nazista, ho sentito». Magdalena ribatte: «Penso che nessuno possa essere un buon nazista, perché il nazionalsocialismo è da condannare, e il nazionalsocialismo è il germe di tutti i mali».
Per un’ora la storia di Otto von Wächter e dell’eredità avvelenata che ha lasciato alla sua famiglia mi accompagna mentre mi addentro nella forza tranquilla di questa natura immensa, immutabilmente radicata nel territorio dell’Europa centrale, che ha visto passare tanti popoli, eserciti e imperi.
Siamo a marzo 2018. Ottant’anni fa le truppe tedesche invasero l’Austria senza incontrare nessuna resistenza armata. Al loro arrivo la polizia viennese aveva già infilato il bracciale nazista e cominciato ad arrestare masse di «indesiderabili». Tre giorni dopo, fra gli applausi assordanti di duecentocinquantamila persone riunite in Heldenplatz, a Vienna, Adolf Hitler, originario del paese, gridò: «Come Führer e cancelliere della nazione tedesca e del Reich annuncio l’ingresso della mia patria nel Reich tedesco». L’Austria divenne una provincia del Reich, con il nome di Ostmark. La popolazione non protestò. Dopo la dissoluzione dell’impero degli Asburgo nel 1918, che l’aveva ridotta a un piccolo paese, il desiderio di avvicinarsi alla Germania era infatti abbastanza diffuso fra gli austriaci, che avevano la sensazione di condividere con il vicino una forte identità germanica comune. Inoltre, fra le due guerre, il nazionalsocialismo vi si era ben radicato.
Fin dagli anni Venti era nato un Partito nazionalsocialista austriaco, che aveva avuto un crescente successo. Dopo vari attentati commessi da suoi militanti, nel giugno del 1933 il partito fu dichiarato fuori legge, ma proseguí le sue attività clandestinamente grazie ad aiuti logistici e finanziari provenienti dalla Germania. La loro violenza culminò nell’estate del 1934 con un fallito Putsch durante il quale il cancelliere Engelbert Dollfuss, vicino all’Italia fascista e alla Chiesa cattolica, fu assassinato e sostituito da Kurt Schuschnigg.
Otto von Wächter, membro del partito dal 1923, aveva partecipato al Putsch. Ricercato per alto tradimento, fuggí in Germania. Nel 1935 entrò nelle SS. Dopo il fallimento del colpo di Stato i nazisti cambiarono metodo. Il governo tedesco cominciò a infiltrare il potere austriaco con simpatizzanti ufficialmente non iscritti alla NSDAP che avrebbero preparato il terreno all’Anschluss.
C’è una fotografia di Wächter in uniforme nazista, seduto alla sua scrivania nel palazzo della Hofburg a Vienna. Risale al 9 novembre 1938, giorno in cui furono scatenati i pogrom contro gli ebrei in Germania e nella Ostmark. Wächter era stato nominato segretario di Stato dal nuovo governatore dell’Ostmark, Arthur Seyss-Inquart, che fece regnare il terrore contro gli oppositori politici e gli ebrei.
L’antisemitismo austriaco non aveva nulla da invidiare a quello tedesco. In Mein Kampf, Hitler, che aveva abitato a Vienna dal 1908 al 1913, elogiò i tonitruanti discorsi del sindaco della capitale Karl Lueger contro gli ebrei, il cui successo in tanti settori suscitava molte gelosie. Dopo la disfatta della prima guerra mondiale le teorie del complotto ebraico si erano fatte ancora piú aggressive grazie alla cassa di risonanza della Chiesa cattolica e del Partito cristano-sociale di Karl Lueger. Negli anni Trenta, sotto l’influenza del nazionalsocialismo si intensificarono le persecuzioni contro gli ebrei, che cominciarono a emigrare. L’odio cresceva, ma era ancora tenuto sotto controllo dalla legge e da un residuo di decoro morale. L’arrivo delle truppe tedesche abbatté quel fragile baluardo scatenando negli austriaci una violenza belluina che raramente si era vista in Germania.
Quanti scrittori hanno descritto la metamorfosi di Vienna, quell’astro della Mitteleuropa un tempo irrorato di cultura e diventato teatro del proprio declino, sul cui palcoscenico una bestia immonda, la folla avida e invidiosa, saccheggiava, rubava, picchiava, umiliava e faceva soffrire terribilmente coloro che avevano tanto contribuito alla fama della loro città. Nell’autobiografia pubblicata nel 1966 lo scrittore tedesco Carl Zuckmayer, che è stato testimone di quei giorni, ne parla come dell’inferno in terra: «L’aria era sempre piena, giorno e notte, di urla penetranti, selvagge, isteriche, provenienti da gole di uomini e donne. E tutti gli esseri umani perdevano le loro sembianze, sostituite da grugni deformi: chi per la paura, chi per la menzogna, gli altri per un senso di trionfo violento e pieno di odio. […] Ho vissuto i primi giorni del dominio nazista a Berlino. Ma non c’era confronto con quei giorni a Vienna»1. Nel suo capolavoro, Il mondo di ieri (1942), lo scrittore austriaco ebreo Stefan Zweig descrive «la svergognata voluttà di torturare in pubblico, di calpestare la dignità, d’infliggere sempre piú raffinati avvilimenti»: «Non soltanto si rubò e si saccheggiò, ma si lasciò libero gioco a ogni privata sete di vendetta. Professori universitari dovettero pulire le strade con le mani nude, vecchi e pii israeliti dalle bianche barbe vennero trascinati nella sinagoga e costretti dalla ragazzaglia urlante a fare flessioni e a gridare in coro “Heil Hitler!”»2. Un’ondata di suicidi travolse coloro che non volevano sapere fin dove si sarebbe spinta quell’infamia, come il filosofo Egon Friedell, autore di una mitica Storia della cultura dell’evo moderno3, che si gettò dalla finestra del suo appartamento quando si presentarono alla porta due SA. Anche Zweig, in esilio in Brasile, si uccise quattro anni dopo, nel febbraio del 1942, rifiutandosi si assistere all’agonia della civiltà europea con la quale identificava la sua opera e la sua vita.
Dei circa centottantacinquemila ebrei che vivevano ancora in Austria nella primavera del 1938, circa centoventimila riuscirono a espatriare, ma sessantacinquemila morirono assassinati nei campi o altrove, come pure quasi tutta la comunità rom, una decina di migliaia di persone.
Dopo l’Anschluss i funzionari civili nonché le forze militari e di polizia furono integrati nell’apparato statale e nell’esercito della Germania nazista. Chi si rifiutava non rischiava in genere molto piú della perdita del posto o del pensionamento anticipato. Eppure la grande maggioranza degli austriaci collaborò, e molti fecero carriera all’estero, specie nei Paesi Bassi e all’Est, e parteciparono ai crimini nazisti. A causa della prossimità storica dell’Austria all’Europa orientale, che risaliva all’impero austro-ungarico, il Reich riteneva opportuno inviare i suoi effettivi austriaci in quella regione, dove si svolsero le peggiori atrocità naziste. Gli storici discutono da tempo per cercare di comprendere come mai tanti austriaci figurassero, proporzionalmente, tra il personale coinvolto nell’Olocausto.
Otto von Wächter era uno di loro. Come governatore di Cracovia fece giustiziare piú di cinquanta ostaggi polacchi. Ordinò inoltre che tutti gli ebrei di età superiore ai dodici anni portassero un segno distintivo e rinchiuse gli ebrei in un ghetto circondato da muri e filo spinato. Mentre governava la Galizia dalla sede di Leopoli (L´viv, oggi in Ucraina), fra il gennaio del 1942 e l’agosto del 1944, furono massacrati o deportati in campi per essere gassati oltre centomila ebrei della città. Non è noto il suo ruolo preciso, come alto funzionario civile senza responsabilità di polizia, in quelle atrocità. Da alcuni archivi emerge che protesse dalle SS lavoratori ebrei e che ai primi del 1942, quando la Soluzione finale era già in corso, criticò la «germanizzazione» del regione di Leopoli. Un superiore mise in discussione la sua «lealtà come SS».
Horst von Wächter si aggrappa disperatamente a questi scarsi elementi per presentare suo padre in una luce positiva e trovargli qualche giustificazione: obbedienza agli ordini, cecità, impotenza. «Di fatto, sono convinto che non abbia esseri umani sulla coscienza e che in realtà si sia rifiutato di uccidere. Considerati i valori che aveva, farlo non corrispondeva alla sua mentalità», insiste. La figlia Magdalena dice: «Anch’io voglio crederci, mi piacerebbe tanto crederci, in parte ci credo, credo a mio padre». Nell’agosto del 1942, nel pieno delle deportazioni degli ebrei di Leopoli al campo di sterminio di Belzec, Heinrich Himmler offrí a Otto von Wächter di tornare a Vienna, ma lui rifiutò questa opportunità di porre fine alla missione e limitare cosí il suo coinvolgimento diretto nell’Olocausto.
Horst è nato nel 1939, quattro anni prima di mio padre. Come SS con un alto incarico di comando, suo padre era implicato fino al collo nella macchina criminale nazista. Il padre di Volker si è iscritto alla NSDAP e ha approfittato dei provvedimenti di arianizzazione, ma non ha mai avuto incarichi nello Stato nazista. Uno ha conosciuto a malapena suo padre Otto, morto in esilio sotto falso nome, a Roma, nel 1949; l’altro ha vissuto sotto lo stesso tetto con suo padre Karl per oltre vent’anni.
Com’è possibile che Horst difenda il padre e Volker lo condanni? Magdalena von Wächter e io apparteniamo piú o meno alla stessa generazione. Entrambe siamo influenzate dall’immagine che i nostri padri hanno del loro padre, quella narrazione che si trasmette nelle famiglie e che a volte confonde le piste della grande Storia. Magdalena vuole credere al padre per salvare l’onore della sua famiglia, io sono meno sensibile di lei alla fedeltà famigliare, e preferisco formarmi un’opinione personale basata sui fatti. Lei non vuole «trasmettere» questa storia ai suoi figli perché possano «sentirsi liberi» da questo retaggio. Mio padre e io abbiamo attinto da questa memoria per forgiare valori che ci servono nella vita quotidiana.
Da che cosa dipendono queste differenze? Dal divario del rispettivo grado di colpevolezza di Karl e Otto, perché la colpa piú grave è troppo difficile da ammettere per i suoi discendenti? Dai nostri caratteri, dalle persone che abbiamo conosciuto, dalle nostre letture, dai casi della vita? E se contasse anche un altro fattore: che loro sono cresciuti in Austria mentre noi abbiamo avuto un’educazione tedesca?
L’Austria non è sfuggita all’amnesia generale che colpí l’Europa dopo la guerra. Anzi, in Austria quell’amnesia non è durata venti o trent’anni, come in Germania o in Francia, ma quasi mezzo secolo. Già al momento della proclamazione della sua indipendenza dal Reich, nell’aprile del 1945, il paese si era affrettato a scolpire nel marmo il mito fondatore della Seconda Repubblica: che l’Anschluss «era stato imposto a forza da una minaccia militare esterna e dal terrorismo e dall’alto tradimento di una minoranza nazifascista, estorto con l’inganno a una classe dirigente politica debole, e inflitto da un’occupazione militare e bellica del paese all’indifeso popolo austriaco».
Dopo la guerra gli Alleati occuparono l’Austria e la suddivisero in quattro zone di occupazione, poi promulgarono una legge che metteva al bando la NSDAP e le organizzazioni affiliate e vietava la diffusione di idee naziste. Su una popolazione di circa 6,6 milioni di abitanti individuarono oltre mezzo milione di iscritti al Partito nazista. Intrapresero la denazificazione e spinsero il governo provvisorio austriaco a insediare tribunali popolari che avviarono numerosi processi e in parte comminarono pesanti condanne.
Il problema fondamentale della denazificazione era che quasi nessuno fra gli austriaci la riteneva utile perché non pensavano di essere stati nazisti. Nel settembre del 1945 il giornale «Neues Österreich», che fungeva da portavoce del Partito conservatore (ÖVP), del Partito socialdemocratico (SPÖ) e del Partito comunista (KPÖ), scrisse: «In realtà, durante tutta l’epoca nazista Vienna era un calderone ribollente di rivolta e di sdegno […]. E dobbiamo continuare a sentirci rimproverare la nostra passata obbedienza a Hitler, che contraddice tutti i fatti storici». Nel 1947 il socialdemocratico Theodor Körner, sindaco della capitale e futuro presidente della Repubblica, sostenne addirittura: «Il viennese è un cittadino del mondo, e quindi non un antisemita. Anche oggi, le tendenze antisemite gli sono del tutto estranee».
A Vienna erano sopravvissuti circa cinquemila ebrei, e circa altri duemilatrecento erano tornati vivi dai campi. La maggior parte si affrettò a lasciare la città che li aveva traditi e i cui abitanti, dopo la guerra, manifestavano una desolante mancanza di empatia. Fu solo grazie alle pressioni degli Stati Uniti che vennero stanziate riparazioni per cominciare a indennizzare gli ebrei, sia pure in misura assai inferiore a quanto era stato loro sottratto. «Parte dell’élite politica difendeva l’idea che si dovesse “tirare per le lunghe” l’esame delle richieste delle vittime ebree», mi ha spiegato lo storico austriaco Winfried Garscha, specialista di questo periodo.
Nel 1955 gli Alleati lasciarono l’Austria, avendo ben altre gatte da pelare in piena guerra fredda che tentare di rieducare gli austriaci. Non appena il paese recuperò la propria sovranità vide la luce un nuovo partito, la FPÖ, presieduta da un ex SS-Brigadeführer, Anton Reinthaller, che aveva scontato tre anni di reclusione per alto tradimento a causa delle sue funzioni politiche nel Terzo Reich. Quanto alla giustizia austriaca, si affrettò a promulgare un’amnistia di fatto, archiviando le inchieste e impedendo che i procedimenti giungessero a sentenza, mentre la maggior parte dei nazisti in carcere fu rilasciata.
Per una strana coincidenza, mentre mi avvicino a Vienna la radio Österreich 1 trasmette un’intervista a Christian Frosch, il regista austriaco di Murer: anatomia di un processo4, un film sul processo a Franz Murer, un SS-Führer, principale responsabile del massacro di quasi tutti gli ottantamila ebrei di Vilnius, in Lituania, fra il 1941 e il 1943. Tornato in Austria dopo la guerra, Murer conduceva una vita tranquilla come politico locale quando Simon Wiesenthal, un sopravvissuto all’Olocausto che ha dedicato la sua vita a lottare contro l’impunità dei nazisti, allertò l’opinione pubblica internazionale sul suo passato di assassino. Nel 1963 si aprí il processo a Graz. «Il clima dell’aula è stato definito in generale [dalla stampa] come incredibilmente ostile ai testimoni ebrei, con proteste fra il pubblico, ed è stata descritta la scena di un uomo che si è alzato in piedi per fare il saluto hitleriano», dice Frosch. Si è visto benissimo «come funzionasse il capovolgimento di ruoli fra carnefice e vittima», spiega. Alla fine di un processo scandaloso, contraddistinto da una massiccia ingerenza della politica, l’imputato fu assolto e salutato come un eroe da gran parte della popolazione. Intervenne a favore di Franz Murer, per ragioni elettorali, persino un socialdemocratico come l’allora ministro della Giustizia Christian Broda, che aveva partecipato alla resistenza contro il nazismo.
Per decenni, dopo la guerra, i due maggior...