Cadevo, cadevo, e avevo dimenticato perché. Era come se cadessi da sempre. Le stelle scorrevano via sopra la mia testa, sotto i piedi, tutt’intorno, io mulinavo le braccia per cercare di aggrapparmi, ma afferravo il vuoto. Vorticavo in una grande folata d’aria umida.
Sfrecciavo a tutta velocità , il vento mi strideva fra le dita, ho ripensato a quando a scuola ci facevano correre i cento metri, le uniche volte in cui gli altri non ridevano mai di me. Con le mie gambe lunghe li battevo sempre tutti. Peccato che adesso le mie gambe non servissero a un bel niente. Precipitavano anche loro come salami.
Qualcuno ha gridato in lontananza. Dovevo assolutamente ricordarmi perché ero lÃ, era importante, per forza. Non si precipita cosÃ, senza una buona ragione. Ho guardato dietro di me, ma «dietro» non voleva dire piú niente: tutto cambiava in continuazione e cosà in fretta che mi veniva da piangere.
Senz’altro dovevo aver fatto una grossa stupidaggine. Mi sarei preso una bella sgridata o peggio, anche se non riuscivo a immaginare niente di peggio di una sgridata. Mi sono raggomitolato su me stesso come quando Macret mi pestava, era un trucco risaputo per sentire meno male. Ormai non restava che aspettare. Prima o poi sarei arrivato.
Era l’estate del 1965, l’estate piú speciale di tutte, e io precipitavo in caduta libera.
A forza di sentirmi dire che ero solo un bambino, e che andava benissimo cosÃ, è successo l’inevitabile. Ho voluto provare loro che ero un uomo. E gli uomini fanno la guerra, lo vedevo di continuo alla tivú, un vecchio apparecchio bombato davanti al quale i miei genitori mangiavano quando la stazione di servizio era chiusa.
A quei tempi non erano molte le auto di passaggio sulla strada lungo cui vivevamo e che scendeva verso la valle dell’Asse, nella Provenza piú sperduta. La nostra stazione di servizio si riduceva a due pompe sotto una vecchia pensilina.
Una volta mio padre lustrava regolarmente le pompe, ma poi l’età e la penuria di clienti lo avevano fatto desistere. A me però mancavano le pompe tirate a lucido. Non me le lasciavano piú lucidare da quando, l’ultima volta, mi ero completamente inzuppato e mia madre me ne aveva dette di tutte i colori, come se non avesse già abbastanza da fare con un marito sfaticato e un figlio ritardato. Quando la mamma sbottava in quel modo io e mio padre non osavamo fiatare. È vero che aveva parecchio da fare, specie quando c’erano da lavare le tute dell’officina dure di grasso motore. Ed è anche vero che mi bastava prendere in mano un secchio per rovesciarmi addosso tutta l’acqua che conteneva. Non ci potevo fare niente: era cosÃ.
I miei parlavano poco. Gli unici rumori che si sentivano a casa nostra – un parallelepipedo di blocchi di calcestruzzo, dietro la stazione di servizio, che mio padre non aveva mai finito di intonacare – era il vociare della televisione, il fruscio delle pianelle di cuoio sul linoleum, il fischio del vento che scendeva impetuoso dalla montagna per incunearsi tra la parete rocciosa e il muro della mia camera. Tra di noi non parlavamo: ci eravamo già detti tutto.
Mia sorella veniva a trovarci una volta l’anno. Aveva quindici anni piú di me, era sposata e abitava lontano. O almeno a me sembrava un posto lontano quando me lo mostrava sulla cartina. E ogni volta finiva a discutere con mamma e papà . Lei era dell’idea che una stazione di servizio in un posto isolato come quello non andasse bene per me. Sinceramente io facevo fatica a capire le sue ragioni: a parte le pompe sporche, a me piaceva tantissimo la stazione di servizio. Dopo la sua partenza studiavo la cartina e mi domandavo sempre che cosa potesse esserci di tanto piú bello dove viveva lei.
Un giorno gliel’ho chiesto. Lei mi ha accarezzato i capelli e mi ha risposto che nella sua città avrei avuto degli amici della mia età , qualcuno con cui parlare. E prima o poi avrei pur desiderato conoscere una donna, no? Io le donne le conoscevo meglio di quanto lei non sospettasse, ma non ho detto niente. Mia sorella ha continuato: mamma e papà erano anziani, che ne sarebbe stato di me una volta che loro non ci fossero stati piú? Io sapevo che quando si diceva di qualcuno che «non c’era piú» significava che se n’era andato per sempre e non sarebbe piú tornato. Ho risposto che avrei badato alla stazione di servizio: lei ha fatto finta di crederci, ma si vedeva che non era sincera. Comunque non me ne importava un bel niente. Dentro di me gongolavo all’idea che un giorno avrei potuto finalmente lucidare le pompe.
Su un punto però mia sorella aveva ragione. Non avevo amici. Il paese piú vicino si trovava a dieci chilometri. Da quando avevo smesso di andare a scuola non vedevo piú i miei compagni. Le uniche persone che incontravo erano gli automobilisti di passaggio che si fermavano per la benzina, ai quali ero tutto orgoglioso di fare il pieno sfoggiando il bel giubbino della Shell che mi aveva dato mio padre. Questo prima che la Shell si accorgesse che non vendevamo benzina a sufficienza, obbligandoci cosà a passare a una marca italiana che non c’entrava niente. Io comunque il giubbino lo mettevo lo stesso. I clienti erano gentili, scambiavano due chiacchiere con me, e c’era chi mi allungava anche qualche moneta di mancia che i miei mi autorizzavano a tenere. C’erano persino clienti abituali come Matti. Ma nessun amico.
Per me non era un problema. Io ci stavo bene là .
È stato per colpa di una sigaretta che me ne sono andato.
La valle usciva da un inverno rigido che era carambolato sull’estate, sicché la povera primavera era rimasta schiacciata in mezzo. Cosà avevo sentito dire da un cliente e mi era sembrato buffo, un po’ come succedeva con il vento incuneato tra la mia stanza e la parete della montagna.
Tra le mansioni che mi spettavano rientrava quella di provvedere al rifornimento di carta igienica nei gabinetti con la lettera C – la W era caduta e non era mai piú stata rimessa al suo posto dopo la scoperta che era perfetta come sottopentola. «Carta igienica» era un parolone per designare dei semplici quadratini di giornale, io però mi divertivo un sacco a ritagliarli. Dovevo fare attenzione a non ritagliare un giornale prima che mio padre avesse finito di leggerlo da cima a fondo. Una volta mi aveva rifilato un ceffone perché non ci ero stato attento e avevo dovuto rincollare la pagina sportiva, salvo poi accorgerci che un cliente aveva utilizzato il quadrato con i risultati che gli interessavano. E mi ero beccato un altro ceffone.
Erano le due del pomeriggio e quel giorno si era vista una sola macchina, una R4 azzurra. Me la ricordo bene quella R4. La montagna dietro la stazione era arroventata come una lamiera d’acciaio. Dopo aver passato un’ora a ritagliare i giornali, ero entrato nei C, come li chiamavamo, per mettere la carta igienica. Trattenevo sempre il fiato nel gabinetto, fin da piccolo avevo sempre avuto una fobia per i cattivi odori. E anche se nessuno utilizzava i C da giorni c’era sempre un odore sgradevole di terra putrida, un odore che associavo alla morte, al compost pieno di cose brulicanti che mia madre metteva intorno al geranio, l’unico fiore in tutta la stazione di servizio. Fiore che moriva regolarmente e che mia madre immancabilmente rimpiazzava. Mio padre insisteva a ripeterle che era colpa del compost, ma lei niente, non sentiva ragione.
È stato uscendo dal gabinetto che ho notato il pacchetto di sigarette finito sotto il lavandino. Ne restavano due. Non avevo mai fumato. Mio padre raccontava sempre che, durante la guerra, aveva visto un tizio prendere fuoco mentre faceva benzina con la sigaretta in bocca. Avevano svuotato un’intera cisterna per domare le fiamme. Ogni volta che i pompieri credevano di aver finito, quello avvampava di nuovo. Penso che mio padre esagerasse per farci capire la lezione. Nella nostra stazione di servizio, sopra le pompe di benzina c’era un cartello enorme sul quale giganteggiava una sigaretta barrata.
Io però ero lontano dalle pompe e anche da casa, e per sicurezza sono andato a sedermi sul montarozzo dietro i gabinetti. Avevo con me dei fiammiferi, sempre utili per dar fuoco agli insetti. Una volta un cliente, vedendomi in azione, mi aveva chiamato «razza di imbecille crudele». A scuola, però, ci avevano fatto dissezionare delle rane vive e sinceramente non vedevo la differenza. «Razza di imbecille crudele sarai tu» gli avevo risposto prima di scappare via in lacrime, lasciandolo di stucco. Mia madre era andata a parlare con il tipo, l’imbecille crudele. Io li avevo osservati da lontano, gesticolavano in maniera concitata, cioè, soprattutto mia madre. L’altro non diceva un granché. La cosa era finita lÃ. Il tipo se n’era andato, e quando ero stato certo che non potesse vedermi gli avevo mostrato le chiappe.
Ho acceso la sigaretta come nei film western e dopo un paio di boccate di prova ho aspirato a pieni polmoni. È stato peggio della volta in cui avevo rischiato di annegare, a otto anni, durante le ultime vacanze di cui avessi memoria: eravamo andati su al lago. Una signora mi aveva tirato fuori dall’acqua. Solo che, per giunta, stavolta bruciava.
Ho buttato via la sigaretta, che è caduta su un mucchio di aghi di pino. Volevo schiacciare la cicca con la punta del piede, ma è rotolata via e gli aghi di pino sono andati in fiamme di colpo: in una risata crepitante, una vampata rossa e gialla mi ha avvolto la scarpa. Ho gridato, mia madre è uscita subito, e anche mio padre. Lui ha capito al volo che cosa stava succedendo. Da quelle parti non si scherzava con gli incendi. È arrivato con un estintore, non lo avevo mai visto correre cosà veloce, eppure non era piú tanto giovane. Alla fine è rimasto un quadrato di terra bruciata sul montarozzo. Niente di che, ma ci era mancato poco. Cosà almeno ha detto mio padre. «Ci è mancato poco». Mia madre mi si è scagliata addosso come una furia. Anche mio padre me le avrebbe suonate volentieri, credo, ma ormai ero grandicello e non osava piú mettermi le mani addosso.
Ho protestato che non ero piú un bambino e mia madre ha ribattuto che invece sÃ, eccome se lo ero, e finché vivevo sotto il suo tetto avrei fatto come diceva lei, mi conveniva ficcarmelo bene in quella mia zucca di dodicenne.
La sera stessa hanno chiamato mia sorella. Ho sentito cosa dicevano attraverso la porta. Credevano di parlare a voce bassa, ma siccome erano tutti e due un po’ sordi, parlare a voce bassa equivaleva quasi a urlare. Hanno usato il grosso apparecchio di bachelite della casa, l’unica cosa che mi lasciavano lucidare perché non potevo romperla e non c’era bisogno di acqua. Io lo lustravo piú volte al giorno, brillava come catrame fresco, era una festa per gli occhi. E proprio perché adoravo quel telefono mi sono sentito doppiamente tradito.
Hanno dato ragione a mia sorella, erano troppo anziani per star dietro a un bambino, era il caso che mandasse qualcuno a prendermi. Le hanno detto che avevo rischiato di nuovo di appiccare un incendio. Io però non ricordavo che ci fosse stato un precedente. C’è stato un lungo silenzio mentre parlava mia sorella e ho capito che sarebbero venuti a prendermi. Non sapevo quando, se l’indomani, di là a un mese, a un anno, non faceva una grossa differenza. Sarebbero venuti, questo solo contava.
Quel giorno stesso ho deciso di partire per la guerra.
Avevo un piano. In guerra mi sarei fatto valere, mi avrebbero dato delle medaglie, sarei tornato a casa e finalmente tutti sarebbero stati costretti ad ammettere che ero un adulto, o quasi. In guerra potevi fumare, lo facevano sempre in tivú, e il bello era che non rischiavi di provocare incendi, dato che fuoco e fiamme erano già ovunque. L’unica cosa che mi scocciava era il fatto che i soldati sembravano sempre un po’ sporchi, e non so se questo mi sarebbe piaciuto. Io avevo bisogno di un fucile e di calzini puliti tutti i giorni, altrimenti ci sarebbe stato da piangere.
Al mio ritorno nessuno avrebbe piú parlato di portarmi via. Anzi, magari mi avrebbero dato addirittura la stanza grande, quella che si affacciava sulle pompe di benzina, la stanza degli eroi. Mia madre non ne aveva piú bisogno, era piú piccola di me, poteva benissimo fare a cambio con la mia.
L’unico problema era che non sapevo dove si faceva la guerra. Sapevo solo che era lontano. Un giorno l’avevo chiesto a mia madre e lei mi aveva risposto cosÃ: lontano.
Per me lontano cominciava dall’altopiano in cima alla montagna a ridosso della mia stanza. Ci si arrivava risalendo lungo la valle, ma c’era una scorciatoia, un vecchio sentiero che nemmeno i cacciatori si azzardavano piú a prendere perché troppo pericoloso. Io ci ero già andato una volta, di nascosto. Avevo spinto lo sguardo oltre il ciglio della montagna e avevo visto i prati che si estendevano a perdita d’occhio, come un mare: dava le vertigini. Da allora, le sere in cui scoppiava un temporale mi immaginavo l’altopiano che si riempiva d’acqua, lassú in mezzo alle nuvole, finché l’acqua non finiva per tracimare, trascinandoci via: ci saremmo svegliati a mollo nell’Asse.
Tanto vale dirlo subito, visto che comunque è di dominio pubblico: alla guerra non ci sono mai arrivato. A saperlo, me ne sarei rimasto a casa ad ascoltare il maestrale che mi parlava attraverso i blocchi di calcestruzzo come tutte le sere. Non ci sarebbe stato il seguito. Ma non ci sarebbe stata nemmeno Viviane, la regina dagli occhi feroci che parlava come tutti i venti di tutti gli altopiani di tutti i Paesi del mondo. Molto meglio del mio vento che mi raccontava sempre le stesse storie. Ma ci tornerò sopra piú tardi, per adesso Viviane non l’avevo ancora incontrata.
La sera, a cena, ho annunciato ai miei genitori:
– Me ne vado.
Mio padre non mi ha risposto perché in quel momento cominciava il suo sceneggiato preferito. Mia madre mi ha detto di finire le lenticchie e di non parlare con la bocca piena. Meglio cosÃ, in fondo: se mi avessero ordinato di restare...