Settembre 1785.
L’ufficio dove Jonah Hancock tiene la contabilità è una specie di cuneo col soffitto a cassettoni come la cabina di una nave, i muri intonacati e i battiscopa neri, le travi ben fissate una all’altra. Il vento fischia lungo Union Street, la pioggia scoppietta contro il vetro della finestra, e Mr Hancock è appoggiato sui gomiti, con la testa tra le mani. Grattandosi il cuoio capelluto scopre un ciuffo di capelli ispidi sfuggito al barbiere, e vi indugia con blanda curiosità ma senza irritazione. In privato Mr Hancock non si preoccupa piú di tanto del proprio aspetto; in pubblico, porta la parrucca.
È un uomo corpulento di quarantacinque anni, che indossa abiti di lana pettinata, fustagno e lino, tessuti onesti e comuni che si addicono al suo cranio spelacchiato, alla lanugine argentata che gli copre le mascelle, alla pelle screpolata e macchiata dei polpastrelli. Non è certo attraente, né lo è mai stato (e cosà appollaiato sul suo sgabello, con quel pancione e le gambe scheletriche, sembra un ratto in cima a un palo), ma la faccia grassoccia ha un’espressione affabile, e gli occhietti piccini con le ciglia chiare sono limpidi e fiduciosi. Ha la corporatura ideale per la sua posizione: il figlio di un mercante, a sua volta figlio di un altro mercante – un figlio di Deptford –, a cui non si chiede di esprimere stupore o diletto davanti alla merce rara che gli passa per le mani ruvide, ma solo di stabilirne il valore, annotarne il nome e il numero e spedirla nell’effervescente e rutilante città dall’altra parte del fiume. Le navi che manda in giro per il mondo – la Eagle, la Calliope, la Lorenzo – attraversano e riattraversano il globo, ma per quanto lo riguarda Jonah Hancock, il piú sedentario degli uomini, si addormenta ogni notte nella camera dove ha tirato il primo respiro.
La luce nell’ufficio ha una sfumatura torbida, tempestosa. La pioggia viene giú a secchiate. Mr Hancock ha i libri mastri aperti davanti a sé, brulicanti di parole e cifre, ma la testa da un’altra parte e, quando sente uno scalpiccio fuori dall’ufficio, accoglie quella distrazione con gratitudine.
Ah, pensa, questo sarà Henry, ma appena distoglie lo sguardo dalla scrivania si accorge che è solo la gatta. È quasi a testa in giú ai piedi delle scale, col sedere per aria e le zampe posteriori divaricate al massimo sull’ultimo gradino, mentre con quelle davanti inchioda un topo che si contorce sul tavolato dell’ingresso. Ha la boccuccia aperta e mostra i denti, trionfante, ma è in una posizione precaria. Per raddrizzarsi, calcola lui, dovrebbe mollare la preda.
– Sciò! – fa Mr Hancock. – Via! – ma lei afferra il topo tra i denti e attraversa l’ingresso tutta fiera. Anche se è uscita dal suo campo visivo, sente il tamburellio danzante delle zampe feline e il tonfo umidiccio del corpo del topo sul pavimento mentre la gatta lo fa volare in aria piú volte. L’ha osservata spesso fare questo gioco, e ogni volta trova il verso interrogativo, tutto di gola, che lo accompagna sgradevolmente umano.
Torna a girarsi verso la scrivania scuotendo la testa. Avrebbe giurato che fosse Henry, giú per le scale. Nella sua mente la scena ha avuto luogo altre volte: suo figlio, alto e magro, brache candide e ricci castani, che fa capolino con la faccia sorridente in uno scintillio di granelli di polvere. Non gli succede tanto spesso di avere visioni del genere, ma quando accade ne è sempre turbato, perché Henry Hancock è morto appena nato.
Mr Hancock non è certo una persona irrazionale ma non è mai riuscito a scrollarsi di dosso l’idea che, a partire dal momento in cui sua moglie aveva abbandonato la testa sul cuscino dopo aver partorito esalando l’ultimo disgraziato respiro, la sua vita abbia deviato dal giusto corso. Quella che avrebbe dovuto condurre, gli pare, continua a svolgersi nelle immediate vicinanze, e a separarli c’è solo un sottile velo d’aria e di fortuna: di tanto in tanto ne coglie un barlume di sfuggita, come se una tenda svolazzante si fosse scostata per un attimo. Il primo anno del suo vedovaggio, per esempio, una volta, mentre giocava a carte, aveva sentito qualcosa di caldo e di umano che premeva contro il ginocchio, e aveva abbassato gli occhi illudendosi di vedere un bimbetto robusto che cercava di alzarsi in piedi di fianco alla sua sedia. Perché era rimasto cosà inorridito quando aveva scoperto invece la mano di una tale Moll Rennie che gli risaliva lungo la coscia? In un’altra occasione, a una fiera, gli era caduto l’occhio su una trombetta variopinta, e solo dopo essersela portata dietro per metà del tragitto verso casa gli era balenato in testa che non ci sarebbe stato nessun bambino a riceverla. Ormai sono trascorsi quindici anni, ma capita ancora che, nei rari momenti in cui è soprappensiero, Mr Hancock senta entrare una voce da fuori, o abbia la sensazione di qualcuno che lo tira per i vestiti, e il suo primo pensiero è Henry, come se per tutto il tempo avesse avuto un figlio.
Sua moglie Mary invece non torna mai a visitarlo, sebbene sia stata una grande benedizione per lui. Aveva trentatre anni quando è morta, una donna placida che a questo mondo ne aveva viste tante ed era piú che preparata per il prossimo: Mr Hancock non ha dubbi su dove si trovi ora, né sulla possibilità di poterla un giorno raggiungere nello stesso luogo, e tanto gli basta. Rimpiange solo il figlio, passato cosà in fretta dalla nascita alla morte, da uno stato di incoscienza all’altro, come uno che dormendo si giri dall’altra parte.
Dal piano di sopra arriva la voce di sua sorella, Hester Lippard, che viene a trovarlo ogni primo giovedà del mese per rovistare nella dispensa, tra i panni da lavare e nell’armadio della biancheria, e davanti a certi reperti non riesce a trattenere le esclamazioni. Un fratello senza moglie è un’eredità ingombrante, ma un giorno i suoi figli potrebbero trarne profitto: se Mrs Lippard gli farà il favore di togliere da scuola la piú piccola perché diventi la sua governante, non ha ragione di non aspettarsi una ricompensa.
– Ecco, lo vedi che le lenzuola hanno fatto la muffa, – dice adesso. – Se le avessi messe via come ti avevo detto io… ti sei segnata tutto sul taccuino?
Un mormorio flebilissimo per tutta risposta.
– Allora? Non è mica per il mio bene, Susanna, ma per il tuo.
Un attimo di silenzio, in cui lui immagina la povera Sukie con la testa ciondoloni, le guance livide.
– Sono piú i grattacapi che mi crei di quelli che mi risparmi, te lo dico io! Allora, dov’è andato a finire il filo rosso? Dove? È andato perso un’altra volta? E chi credi che li tiri fuori i soldi per comprarne dell’altro?
Lui sospira, e si gratta la testa. Dov’è la famiglia numerosa che dovrebbe riempire le stanze di questa casa, che suo nonno ha costruito e suo padre ha reso ancora piú bella? I morti ci sono, non c’è dubbio. Li sente ovunque, come se potesse toccarli, nelle assi inclinate del pavimento e nella struttura portante delle scale, e nelle voci delle campane, quelle di St Paul che entrano dalla porta principale, e quelle di St Nicholas che arrivano da quella sul retro. Qui la mano dei maestri d’ascia è visibile nelle curve lunghe delle travi, che ricordano il ventre delle grandi navi; negli architravi con i loro intagli di fiori e di uccelli, di angeli e scudi, eterna testimonianza della fatica e dell’immaginazione di uomini ormai morti da tempo.
Qui non ci sono bambini a stupirsi a loro volta della perizia degli intagliatori di Deptford, che non hanno rivali al mondo; a crescere al ritmo delle navi che salpano cariche e splendenti dai moli, e tornano sfasciate e lacere. I figli di Jonah Hancock saprebbero, come lo sa Jonah Hancock, che cosa significa mettere tutta la propria fede e le proprie fortune a bordo di una nave e poi farle prendere il largo verso l’ignoto. Saprebbero, come lo sa adesso Mr Hancock, che un uomo in attesa di una nave è distratto di giorno e vigile di notte, incline all’ansia, con un sapore amaro che gli risale dalla gola. È rude con i familiari o fin troppo sentimentale; ingobbito sulla scrivania a fare e a rifare sempre gli stessi conti. Si rosicchia le unghie.
Che razza di sapere è questo, se muore con Jonah Hancock? A che pro le sue gioie e i suoi affanni se non c’è nessuno a condividerli? a che servono la sua faccia e la sua voce se devono essere solo consegnate alla polvere? che valore potrà mai avere il frutto di questa abbondanza se avvizzisce sul ramo senza figli a raccoglierlo?
Eppure talvolta c’è dell’altro.
Ogni viaggio per mare comincia allo stesso modo, quando un gruppo di uomini si riunisce in un caffè, e tutti si grattano il mento, soppesano rischi e obbligazioni.
– Io ci sto, – dice uno,
– Anch’io, –
– Anch’io, –
perché a questo mondo da soli non si ottiene nulla. Tu getterai la sorte insieme a noi, avremo in comune una sola borsa. Ed è per questo che un uomo prudente non fa affari con gli ubriaconi, i libertini, i biscazzieri, i ladri o chiunque Dio abbia motivo di trattare con durezza. Tu getterai la sorte insieme a lui, avrete in comune un peccato. E non ci vuole nulla perché un minuscolo veliero vada a schiantarsi contro gli scogli. Non ci vuole nulla perché un carico si inabissi nel buio a cinque braccia di profondità . I polmoni dei marinai possono riempirsi d’acqua salmastra, le dita finire in salamoia; a proteggerli c’è solo la mano pietosa di Dio.
E Dio cosa dice a Mr Hancock? Dov’è la Calliope, e il suo capitano, di cui non si hanno notizie da diciotto mesi? L’estate è agli sgoccioli. Ogni giorno il mercurio scende un po’ di piú. Se la nave non torna presto non tornerà affatto, e quasi certamente sarà lui a doversi assumere la colpa. Ma cos’ha fatto lui, per meritarsi un simile castigo? Chi getterà piú la propria sorte insieme a lui se si diffonde il sospetto che la sfortuna lo perseguita?
Da qualche parte la marea sta girando. In quel punto da cui non si vede terra, dove da orizzonte a orizzonte non si stende che acqua mutevole scintillante traditrice, un’onda inarca la schiena e si rovescia con un sospiro, e invia il suo sussurro salino all’orecchio di Mr Hancock.
Questo è un viaggio speciale, dice il sussurro, una strana voce dentro il suo cuore.
Cambierà tutto.
E d’un tratto, nel suo ufficio silenzioso, quest’uomo appassito con la fronte tra le mani è preso da un gran senso esultante di attesa, come un bambino.
La pioggia comincia a scemare. E mentre la gatta sgranocchia il cranio del topo passandosi e ripassandosi la lingua sul muso, Mr Hancock si permette di sperare.
Con questa pioggia è improbabile che ci siano in giro tanti uccelli, ma forse dalle travi della casa di Mr Hancock è sbucata una cornacchia, e adesso sventaglia le penne luttuose di bambagina e piega la testa di lato per considerare il mondo con un solo occhio scialbo e stizzoso. Questa cornacchia, se dispiegasse le ali, se le ritroverebbe intrise dell’aria ancora umida che si leva a folate dalle strade di sotto: catrame rovente, fanghiglia di fiume, il fetore di ammoniaca della conceria. E se di là spiccasse il volo per levarsi sopra i tetti di Union Street, in quattro e quattr’otto arriverebbe ai dock, le culle delle future navi, che appena nate già si ergono sopra ogni altro edificio. Alcune, incatramate e lustre, con le bandiere al vento e le polene scintillanti, attendono impazienti il varo; altre, per il momento poco piú che costole di legno appena scortecciato e aria che passa nel mezzo, sono ancora nel bacino di carenaggio, enormi, pallide e nude come scheletri di balena.
Se di qui la cornacchia virasse a nordovest seguendo la curva del fiume, e se volasse per sei miglia senza sosta… ma è una distanza verosimile, per una cornacchia? Che abitudini hanno? Che estensione ha il territorio in cui si muovono? Insomma, se facesse tutto questo, lasciandosi trasportare per il cielo mentre le nuvole si ritirano, arriverebbe nei pressi della città di Londra, là dove ogni sponda del fiume è merlata di moli grandi e piccoli, alte costruzioni di pietra gialla che si alternano a strutture cadenti di legno nero.
Qui l’acqua è cinta dalle calate e dai ponti, ma dopo l’acquazzone è gonfia e agitata. Le navi dalle candide vele procedono a fatica, e i barcaioli hanno dovuto fare appello a tutta la loro baldanza per tenere le loro minuscole imbarcazioni lontano dalla riva vincendo la corrente. Mentre il sole fa capolino, la nostra ipotetica cornacchia volerà sopra il vetro scintillante delle serre a Southwark, dove si coltivano i meloni; l’ufficio della dogana, il pinnacolo a piú pia...