Un’astrologa mi ha scritto una mail dicendo di avere notizie importanti sul mio immediato futuro. Vedeva cose che io non ero in grado di vedere: era entrata in possesso dei miei dati personali, che le avevano consentito di studiare i pianeti e ricavarne informazioni. Desiderava farmi sapere che nel mio cielo si sarebbe presto verificato un transito importante. La entusiasmava pensare ai cambiamenti che tale informazione poteva comportare. Per una cifra modesta l’avrebbe condivisa con me, affinché potessi usarla a mio vantaggio.
Intuiva – continuava la mail – che avevo perso la bussola, che stentavo a dare un significato alla mia situazione attuale e a nutrire speranza per il futuro; sentiva un forte legame personale tra noi, una sensazione che non sapeva spiegare, e comunque era convinta che alcune cose potrebbero restare inspiegate. Molte persone sbarravano la mente al significato del cielo che le sovrastava, ed era comprensibile, ma riteneva che io non fossi tra quelle. Non avevo infatti quella cieca fiducia nella realtà che induceva altri a esigere spiegazioni concrete. Sapeva che avevo sofferto abbastanza per cominciare a pormi certe domande, per le quali ancora non avevo una risposta. Ma i movimenti dei pianeti rappresentavano una zona di infinito riverbero del destino umano: forse era solo che alcune persone non si consideravano abbastanza importanti per immaginarsi lassú. La cosa triste, scriveva, è che in quest’epoca di scienza e incredulità abbiamo smarrito il senso del nostro significato. Siamo diventati crudeli, con noi stessi e con gli altri, perché in ultima analisi pensiamo di non contare nulla. Ciò che i pianeti ci offrono, scriveva, altro non è che l’occasione per recuperare fiducia nella grandiosità dell’umano: quanto piú rispetto e stima, quanta gentilezza e responsabilità e riguardo metteremmo nelle relazioni con gli altri se fossimo convinti che ognuno e ognuna di noi ha un peso nel cosmo? Sentiva che ero la persona giusta per comprendere quanto ciò potesse influire sulla pace e la prosperità del mondo, per non dire della rivoluzione che un concetto piú elevato di destino poteva comportare nella vita personale. Sperava che l’avrei scusata per avermi contattata a quel modo e per aver parlato cosà apertamente. Come aveva già scritto, sentiva tra noi un forte legame personale che l’aveva incoraggiata ad aprirmi il suo cuore.
Era lecito supporre che gli algoritmi che avevano generato quella mail avessero generato anche l’astrologa: le sue frasi erano troppo caratterizzate, e il dato di carattere ripetuto troppo spesso; era senza dubbio basata su un tipo umano, ma lo era troppo per essere umana a sua volta. Come risultato, la sua comprensione e sollecitudine erano piuttosto sinistre ma anche, per le stesse ragioni, apparentemente imparziali. Un mio amico, depresso dopo il divorzio, di recente mi aveva confessato che gli capitava di commuoversi fino alle lacrime di fronte alla preoccupazione per la sua salute e il suo benessere espressa dal lessico degli slogan pubblicitari e delle confezioni alimentari, o dalle voci automatiche su treni e bus, cosà ansiose di ricordargli la sua fermata; al momento provava qualcosa di assai simile all’amore per la voce femminile che, quando era al volante, lo guidava con molta piú dedizione di quanto avesse mai fatto sua moglie. Si è attinto a piene mani, mi ha detto, dal linguaggio e dalle informazioni della vita, e chissà che il finto-umano non sia ormai piú reale e comunicativo dell’originale, che si possa ricevere piú tenerezza da una macchina che da un nostro simile. Dopo tutto, l’interfaccia meccanizzata era il distillato non di uno ma di molteplici esseri umani. In altre parole, c’erano voluti molti astrologi per mettere a punto quello specifico esemplare. Era rassicurante, a suo avviso, che quel vasto coro non corrispondesse a una singola persona, e provenisse invece da ogni luogo e da nessun luogo: certo, un sacco di gente avrebbe trovato assurda una simile idea, ma ai suoi occhi l’erosione di individualità comportava anche l’erosione del potere di far soffrire.
Era stato quello stesso amico – uno scrittore – a dirmi, la primavera precedente, che se mi fossi trasferita a Londra con mezzi limitati, sarebbe stato meglio comprare una casa malandata in una buona strada piuttosto che una bella casa in un quartiere degradato. Solo i molto fortunati e i molto sfortunati hanno un destino chiaro: tutti gli altri sono costretti a scegliere. L’agente immobiliare si è stupito che avessi fatto mia quella briciola di saggezza, se di saggezza si trattava. Nella sua esperienza, ha detto, per le persone creative la luce e lo spazio erano piú importanti della posizione. Tendevano infatti a cercare le potenzialità delle cose, mentre gran parte delle persone cercavano la sicurezza di ciò che è conforme, di ciò che è già stato pienamente realizzato, immobili la cui attrattiva altro non era che la somma di possibilità esaurite, a cui non si poteva aggiungere nulla. Ironia vuole, ha detto, che quella gente, pur timorosa di essere originale, sia anche ossessionata dall’originalità . I suoi clienti andavano in estasi per ogni minimo dettaglio di architetture del passato: be’, spostatevi un po’ dal centro e ne troverete in abbondanza a molto meno. Per lui restava un mistero che la gente continuasse a comprare in zone inflazionate della città quando si potevano fare ottimi affari in quartieri che si stavano trasformando. Probabile che fosse dovuto a scarsa immaginazione. Le quotazioni del mercato immobiliare avevano raggiunto il massimo, ma ciò sembrava eccitare gli acquirenti, anziché scoraggiarli. Quasi ogni giorno gli capitava di assistere a scene folli, con il suo ufficio assediato da gente che sgomitava per pagare troppo per troppo poco, come se fosse questione di vita o di morte. Aveva accompagnato visite durante le quali erano scoppiate liti, presieduto vendite all’asta di inaudita aggressività , si era addirittura visto offrire mazzette in cambio di un trattamento di favore; e tutto ciò per immobili che, alla fredda luce del giorno, non avevano nulla di speciale. Ciò che colpiva era la genuina disperazione di quei clienti, in preda agli spasmi del desiderio: gli telefonavano ogni ora per essere aggiornati o passavano in ufficio senza alcun motivo; supplicavano, talvolta addirittura piangevano; furiosi un momento prima e pentiti un attimo dopo, spesso lo intrattenevano con lunghe confessioni private. Li avrebbe compatiti se, appena completata la pratica d’acquisto, non avessero rimosso ogni traccia del dramma scordandosi non solo della propria condotta ma anche delle persone che avevano dovuto sopportarla. Gli erano capitati clienti che per una settimana avevano condiviso con lui le piú raccapriccianti intimità e la settimana dopo gli passavano accanto per strada senza dare alcun segno di riconoscerlo; aveva visto coppie sprofondare nella disperazione davanti ai suoi occhi, e che ora si facevano allegramente i fatti loro nel quartiere. Soltanto in quell’assoluto oblio scorgeva talvolta un briciolo di imbarazzo. Agli inizi della carriera quegli incidenti lo turbavano, ma grazie al cielo l’esperienza gli aveva insegnato a non prendersela troppo. Si rendeva conto di essere per loro una figura che sbucava dalla bruma rossa dei desideri, un oggetto, per cosà dire, di transfert. Eppure quel desiderio continuava a sconcertarlo. A volte pensava che la gente volesse solo ciò che non era sicura di poter avere; altre volte gli sembrava piú complicato. Spesso i suoi clienti ammettevano di provare sollievo dopo che il loro desiderio era stato frustrato: le stesse persone che avevano fatto il diavolo a quattro e pianto come bambini delusi vedendosi negare un certo immobile, qualche giorno dopo sedevano calme e tranquille nel suo ufficio, esprimendogli gratitudine per non averlo ottenuto. Si erano rese conto che sarebbe stato un acquisto del tutto sbagliato e volevano sapere cos’altro aveva da offrire. Per la maggior parte delle persone, a suo avviso, trovare una casa e ottenerla imponeva di rendersi molto attivi, il che comportava una qualche cecità , la cecità della fissazione. Solo quando la volontà si è esaurita, la maggioranza delle persone riconosce il verdetto del destino.
Questa conversazione si svolgeva nel suo ufficio. Fuori, il traffico si muoveva pigro nella grigia, sudicia strada londinese. Ho obiettato dicendo che la frenesia da lui descritta, piú che indurmi a competere, spegneva ogni mio entusiasmo per la ricerca della casa e mi faceva venir voglia di andarmene. Tanto piú che non avevo i soldi per impegnarmi in eventuali aste. Mi rendevo conto che nelle condizioni di mercato da lui descritte era improbabile che trovassi un qualche posto in cui vivere. Ma nello stesso tempo mi ribellavo all’idea che le persone creative, come lui le aveva chiamate, dovessero accettare di essere emarginate dai loro valori, quelli che lui aveva garbatamente definito superiori. Aveva usato, mi pareva, la parola «immaginazione»: la scelta peggiore per quel tipo di persone era abbandonare il centro come gesto di autoprotezione rifugiandosi in una realtà estetica dalla quale il mondo esterno non veniva trasfigurato. Non intendevo competere, e meno che mai stabilire nuove regole su cosa fosse una vittoria e cosa no. Volevo ciò che volevano tutti, anche se non potevo ottenerlo.
L’agente immobiliare pareva un po’ sorpreso dal mio commento. Non intendeva, ha detto, che dovessi essere emarginata, pensava solo che col denaro di cui disponevo avrei potuto trovare di meglio, e ottenerlo con facilità , in un quartiere meno ambito. Si rendeva conto che ero in una posizione vulnerabile e che un fatalismo come il mio era raro nel mondo in cui lui operava. Ma se ero decisa a correre nel mucchio, bene, aveva qualcosa da mostrarmi. Aveva i dettagli a portata di mano: una casa rimessa sul mercato proprio quella mattina, essendo andata buca la vendita precedente. Era un immobile di proprietà del comune e, come il prezzo lasciava intendere, volevano trovare al piú presto un altro acquirente. Come potevo vedere, ha detto, era in pessime condizioni – di fatto, virtualmente inabitabile. Gran parte dei suoi clienti, per quanto bramosi fossero, non l’avrebbero mai preso in considerazione. Se gli consentivo di usare il termine, era al di là dell’«immaginazione» di gran parte della gente; sebbene fosse in una zona senz’altro invidiabile. Tuttavia non se la sentiva di incoraggiarmi. Era un’occasione per un immobiliarista o un impresario edile, qualcuno capace di valutarla in modo impersonale; il problema era che i margini di guadagno erano troppo ridotti per interessare a quel tipo di persone. Per la prima volta mi ha guardata negli occhi. Inutile aggiungere, ha detto, che non è il posto dove far vivere dei bambini.
Parecchie settimane dopo, a transazione conclusa, l’ho incrociato per strada. Era solo, e camminava con un fascio di carte stretto al petto e un mazzo di chiavi che gli tintinnavano fra le dita. Ricordando ciò che mi aveva detto, mi sono premurata di salutarlo, ma lui non ha dato segno di riconoscermi. Ciò accadeva nei primi giorni dell’estate, adesso eravamo all’inizio dell’autunno. Sono state le riflessioni dell’astrologa sulla crudeltà a ricordarmi quell’episodio che sul momento mi era sembrato la conferma che, qualunque cosa vogliamo pensare di noi stessi, non siamo che il risultato di come gli altri ci hanno trattato. Nella mail dell’astrologa c’era un link al tema natale che aveva stilato per me. Ho provveduto a pagare e ho letto ciò che diceva.
Ho riconosciuto subito Gerard: pedalava nel traffico sotto il sole e mi è passato accanto senza vedermi. Aveva un’espressione esaltata che mi ha rammentato un lato drammatico del suo temperamento e una sera di quindici anni fa, quando, seduto nudo sul davanzale del nostro appartamento all’ultimo piano con le gambe ciondoloni nel buio, mi aveva detto che pensava che non lo amassi. L’unica differenza visibile erano i capelli, che aveva lasciato crescere in una stupefacente criniera di ricci neri.
L’ho rivisto qualche giorno dopo: era mattino presto e stavolta camminava accanto alla sua bicicletta tenendo per mano una bimbetta in uniforme scolastica. In passato avevo vissuto insieme a Gerard per parecchi mesi, nell’appartamento di cui era proprietario e dove, per quanto ne sapevo, viveva tuttora. Alla fine di quel periodo l’avevo lasciato, senza tante formalità o spiegazioni, per qualcun altro e me n’ero andata da Londra. In seguito, per alcuni anni, mi chiamava nella casa in campagna in cui vivevo, e la sua voce era cosà flebile e remota che sembrava chiamasse da un luogo di esilio. Poi un giorno avevo ricevuto una sua lunga lettera, parecchie pagine scritte a mano in cui sembrava spiegarmi perché aveva trovato il mio comportamento incomprensibile e moralmente scorretto. Era arrivata subito dopo la nascita del mio primogenito, e in quei giorni spossanti non ero riuscita a leggerla fino in fondo, ascrivendo la mancata risposta alla lista dei miei peccati.
Dopo esserci salutati, manifestando uno stupore che da parte mia era simulato dal momento che l’avevo già visto qualche giorno prima, Gerard mi ha presentato la ragazzina come sua figlia.
– Clara, – ha detto con voce ferma, trillante, quando le ho chiesto il suo nome.
Gerard mi ha chiesto che età avevano i miei figli adesso, come se la genitorialità potesse essere attenuata se vi ero implicata anch’io. Poi ha detto di aver visto una mia intervista da qualche parte, dovevano essere anni, a dire il vero, e la descrizione della mia casa nel Sussex lo aveva reso alquanto invidioso. I Downs meridionali erano una delle regioni del paese che preferiva. Era stupito, ha detto, di rivedermi in città .
– Una volta Clara e io siamo andati a camminarci, – ha detto. – Vero Clara?
– SÃ, – ha detto lei.
– Ho spesso pensato che sarebbe stato il posto giusto in cui andare se avessimo lasciato Londra, – ha detto Gerard. – Diane mi lascia leggere gli annunci porno degli agenti immobiliari, purché mi limiti a quello.
– Diane è la mamma, – ha spiegato Clara compunta.
La strada in cui ci trovavamo era uno dei grandi viali alberati di belle case vittoriane che sembravano fungere da garanti della rispettabilità del quartiere. Ogni volta che ci passavo davanti, le siepi ben potate e le lucide, ampie finestre suscitavano in me ingiustificati sentimenti di insicurezza e di totale esclusione. L’appartamento che avevo condiviso con Gerard era nelle vicinanze, in una strada dove si potevano cogliere i primi labili abbassamenti di tono via via che si transitava verso i distretti fatiscenti e intasati di traffico piú a est: le case, sebbene ancora belle, mostravano qualche imperfezione, le siepi erano un po’ piú incolte. L’appartamento di allora era un vasto labirinto di stanze ai piani alti di una villa edoardiana, con scorci spettacolari che illustravano la discesa dal salubre allo squallido, una dicotomia che Gerard, all’epoca, sembrava padroneggiare o subire. Dietro si godeva della vista palladiana a ovest, prati ben tenuti, alberi frondosi e scorci discreti su altre belle case. Davanti c’era il deprimente panorama di desolazione urbana sul quale, dal momento che l’edificio sorgeva su un’altura, si aveva una vista oltremodo estesa. Una volta Gerard mi aveva indicato un fabbricato lungo e basso in lontananza dicendomi che era un carcere femminile: ne avevamo una visione cosà nitida che la sera, nel corridoio su cui si aprivano le celle, distinguevamo i puntini arancioni delle sigarette accese delle recluse.
I rumori dietro l’alto muro al nostro lato stavano aumentando. Gerard ha posato una mano sulla spalla di Clara e si è chinato per dirle qualcosa all’orecchio. Era evidente che la stava rimproverando, e io ho ripensat...