Il metodo per preparare un cadavere in Missouri era proprio eccezionale. I nostri poveri soldati sembravano acchittati per le nozze, mica per la tomba. L’uniforme tutta spazzolata a petrolio, che bella cosí da vivi non l’avevano mai vista. La faccia sbarbata, come se il becchino non volesse vedere neanche l’ombra d’un pelo. Nessuno avrebbe riconosciuto il soldato Watchorn, perché i suoi famosi scopettoni erano spariti. Comunque la morte gli piace cambiarti i connotati. Certo le bare erano di legnaccio, ma il punto non era quello. Ne sollevavi una e il corpo dentro la infossava. Il legno in fabbrica lo tagliavano talmente fino che era un’ostia piú che una tavola. Ma i soldati morti non stanno a guardare certe cose. Il punto è che in fondo ci faceva piacere vederli rimessi cosí a nuovo.
Sto parlando del finale del mio primo impegno sotto le armi. Nel 1851, mi sa tanto. Siccome non ero piú un fiore, a diciassette anni m’ero arruolato volontario in Missouri. Se avevi braccia e gambe ti prendevano. C’era il caso che ti prendevano anche se ti mancava un occhio. In America la paga peggiore in assoluto era la paga dell’esercito. E davano da mangiare roba talmente strana che cacavi merda fetentissima. Ma eri contento d’avere un lavoro perché in America, se non guadagnavi quei due soldi, facevi la fame, e io la lezione l’avevo imparata. Insomma, ero stufo di fare la fame.
Credetemi quando dico che certi amano fare il soldato, anche per una paga micragnosa. Prima cosa, ti danno un cavallo. Magari zoppo, magari tormentato dalle coliche, magari con un gozzo sul collo grosso quanto un mappamondo, ma pur sempre un cavallo. Secondo poi, ti danno un’uniforme. Magari con qualche difetto alle cuciture, però è un’uniforme. Blu come la pelle d’un moscone.
Giuro su Dio, nell’esercito si stava bene. All’inizio avrò avuto diciassette anni, di preciso non lo so. Non dico che prima del militare ho avuto una vita facile. Ma a forza di ballare ho messo su un bel fascio di muscoli. Mica ce l’ho coi miei clienti, anzi. Se sganci un dollaro per un ballo, qualche giro di valzer lo vuoi fare, vivaddio.
Eh già, m’hanno preso nell’esercito, posso dire con orgoglio. Grazie a Dio John Cole è stato il mio primo amico in America e nell’esercito, e anche l’ultimo se è per questo. Ha passato con me quasi tutta questa straordinaria e incredibile vita da yankee, che comunque la guardi è andata bene. Era un ragazzino come me, ma a sedici anni pareva un uomo fatto. L’ho conosciuto che ne aveva quattordici, piú o meno, ed era molto diverso. L’ha detto pure il proprietario del saloon. Tempo scaduto, belli, non siete piú due cuccioli, dice. Viso bruno, occhi neri, occhi indiani li chiamavano a quei tempi. Luccicanti. Gli anziani del plotone dicevano che gli indiani erano gente cattiva, gente cattiva con la faccia da sfinge buona ad accopparti appena ti vede. Dicevano che gli indiani bisognava cancellarli dalla faccia della terra, che la via migliore probabilmente era quella. I soldati gli piace spararle grosse. Probabilmente il coraggio te lo fai venire cosí, diceva John Cole, che era uno comprensivo.
Io e John Cole all’ufficio reclutamento ci siamo andati assieme, si capisce. Ci siamo offerti in coppia, perché le pezze al culo che avevo io ce le aveva pure lui. Come gemelli. Be’, quando abbiamo smesso di lavorare al saloon non siamo partiti coi vestiti da femmina. Saremo sembrati due pezzenti. Lui era nato nel New England, dove la terra di suo padre non rendeva piú niente. John Cole aveva solo dodici anni quand’è uscito di casa. Appena l’ho visto ho pensato: ho trovato un amico. Proprio cosí. Ho pensato che non era niente male. Con tutto che aveva la faccia smunta per la fame. L’ho incontrato sotto una siepe nel maledetto Missouri. Sotto una siepe perché il cielo aveva aperto le cateratte. Laggiú fra le paludi, dopo la vecchia St Louis. M’aspettavo di trovarci un’anatra sotto le frasche, piú che un essere umano. S’aprono le cateratte, corro a ripararmi ed eccolo là. Sennò magari neanche lo vedevo. L’amico d’una vita intera. Un incontro strano e fatidico, si potrebbe dire. Una fortuna. Ma lui prende e tira fuori un coltellino affilato che si portava appresso, fatto con uno spuntone di metallo. Me l’avrebbe piantato in corpo se cercavo rogne. Era un bel po’ malfidato, secondo me. Comunque quando ci siamo messi a parlare sotto la siepe di cui sopra m’ha detto che la bisnonna era un’indiana di quelli che li avevano cacciati dall’est parecchio tempo prima. Adesso stavano nel Territorio indiano. Non li aveva mai conosciuti. Non so perché me l’ha raccontato subito, certo io sono stato molto alla mano, avrà pensato che rischiava di spegnere la fiammella dell’amicizia se non si sbrigava a vuotare il sacco. Allora gli ho detto che si poteva consolare. Io ero figlio di povera gente di Sligo, altrettanto sventurata. Eh già, noi McNulty non avevamo tanto da vantarci.
Forse per rispetto all’animo sensibile di John Cole potrei fare un bel salto e non raccontare i nostri primi anni. Però forse anche lui riconoscerebbe che a modo loro sono stati anni importanti e io non posso dire che rappresentano un periodo di sofferenza vergognosa. Sono stati vergognosi? Io non la vedo cosí. Li chiamerò i nostri anni danzerecci. Diavolo, perché no? In fondo eravamo solo ragazzini obbligati a sopravvivere su un terreno pericoloso. E siamo sopravvissuti, come vedete sono ancora qui a raccontarlo. Fatta conoscenza sotto una siepe anonima, ci è venuto naturale unire le forze per provare a cavarcela. In altre parole io e l’imberbe John Cole ci siamo avviati assieme sulla strada piovosa e siamo entrati nel primo paesino d’un distretto di frontiera che dava lavoro a centinaia di rozzi minatori, con cinque turbolenti saloon su un vialone pieno di fango che s’adoperavano per farli divertire.
Non che ne sapessimo granché. A quei tempi John Cole era magrolino, come appunto tentavo di spiegare prima, con gli occhi neri come un fiume e il viso appuntito come un cane da caccia. Io sembravo piú piccolo. Cioè, anche se alla fine delle mie avventure irlandesi, canadesi e americane avevo sui quindici anni, sembravo suo coetaneo. Ma non avevo idea del mio aspetto. I ragazzini possono sentirsi eroici e immensi quando invece sono solo moscerini.
Mi sono stufato di girare da solo. In due si sta meglio, ha detto.
Sicché la nostra idea era di trovare lavoro svuotando buglioli o facendo qualunque mestiere aborrito dalla gente civile. Non sapevamo granché degli adulti. In pratica non sapevamo niente di niente. Eravamo disposti a fare qualsiasi cosa e il pensiero ci riempiva di gioia. Eravamo pronti a calarci nelle fogne e spalare merda. Chissà, magari avremmo anche commesso qualche oscuro delitto, se poi non ci arrestavano e non ci punivano. Eravamo due fili di paglia in un mondo difficile. Pensavamo di aver diritto a un tozzo di pane, se ci rimboccavamo le maniche. Il pane celeste lo chiamava John Cole, perché dopo il tracollo del padre aveva frequentato certi posti dove gli passavano la stessa quantità di inni e pasti frugali.
Non c’erano molti posti cosí a Daggsville. Non ce n’erano proprio. Daggsville era solo cagnara, cavalli lerci, porte sbattute, urla strane. Devo confessare che a quel punto delle mie peripezie avevo indosso un vecchio sacco da frumento legato in vita. Poteva passare per un vestito, ma mica tanto. John Cole era messo meglio, portava uno strano completo nero che avrà avuto trecento anni, a giudicare dai buchi. A ogni modo gli spirava una bella arietta tra le cosce, a quanto vedevo. Ci potevi quasi infilare la mano e misurare la sua virilità, sicché ti sforzavi di guardare da un’altra parte. M’ero inventato un buon metodo per risolvere il problema, lo guardavo dritto in faccia, che non era una fatica, era una faccia piacevole. E cosí, la prima cosa che ci troviamo davanti è una costruzione nuova di zecca, tutta in legno fiammante, che ancora scintilla di chiodi appena piantati. Saloon, diceva un cartello, né piú né meno. E sotto, su un cartello piú piccolo appeso a uno spago: Cercasi ragazzini puliti.
Guarda guarda, dice John Cole, che non era istruito quanto me, ma sempre un po’ istruito era. Be’, dice, per la buonanima di mia madre, metà di quello che chiedono ce l’abbiamo.
Entriamo diretti e ci troviamo una stupenda quantità di bel legno scuro, pannelli fino al soffitto, un lungo bancone, nero e lucente come una chiazza di petrolio. Ci siamo sentiti come pulci su un cappellino per signora. Intrusi. Era l’esempio d’una di quelle scene americane principesche che ti trovi meglio a guardarle da fuori che a starci dentro. L’uomo dietro il bancone, panno di camoscio alla mano, lucidava con filosofia una superficie che non aveva bisogno d’essere lucidata. Era chiaro che avevano aperto da poco. Un falegname rifiniva le scale che portavano alle stanze di sopra, sistemava l’ultimo pezzo di corrimano. Il barista aveva gli occhi chiusi, sennò ci avrebbe visti prima. Magari ci avrebbe addirittura buttato fuori. Poi ha aperto gli occhi e invece di fare un passo indietro e coprirci d’improperi come ci aspettavamo, quell’individuo perspicace ha sorriso, pareva contento di vederci.
Cercavate ragazzini puliti? chiede John Cole, un pelino bellicoso, fiutando ancora pericoli.
Ma prego, benvenuti, risponde l’uomo.
Davvero? dice John Cole.
Si capisce. Siete proprio quello che mi serve, specialmente il piccoletto, dice. Si riferiva a me. Poi, come per paura che John Cole si offendeva e prendeva la porta: ma vai benissimo anche tu, dice. Vi do cinquanta centesimi a sera, cinquanta centesimi a sera cadauno, e da bere a volontà, se ci andate piano. Potete dormire nella stalla qui dietro, proprio cosí, belli comodi e al calduccio come gatti. Se sarete di soddisfazione.
E il lavoro qual è? chiede John sospettoso.
Il lavoro piú facile del mondo, risponde lui.
E cioè?
Ma come! Ballare, che altro sennò? Solo ballare.
Ma noi mica siamo ballerini, dice John, che a quel punto è confuso, e parecchio contrariato.
Non dovete essere ballerini nel senso comune del termine, dice l’uomo. E comunque non stiamo parlando di cancan.
Va bene, dice John, che ormai non ci capisce piú niente, ma noi i vestiti per ballare non ce li abbiamo, poco ma sicuro, dice, mostrando la sua condizione molto particolare.
Suvvia! Ci pensiamo noi, ci pensiamo noi, dice l’uomo.
Il falegname aveva smesso un attimo di lavorare e se ne stava seduto sulle scale con un gran sorriso.
Seguitemi, signori, dice il barista, che probabilmente era anche il padrone, con tutte le arie che si dava, vi mostrerò i vostri abiti da lavoro.
Poi attraversa il pavimento nuovo di trinca a colpi di stivali e apre la porta dell’ufficio. C’era un cartello che diceva Ufficio, l’abbiamo capito da questo. Prego, giovanotti, dopo di voi, dice, tenendoci la porta. Conosco le buone maniere. Anche voi, spero, perché perfino i rozzi minatori amano le buone maniere, eh già.
Cosí entriamo, siamo tutt’occhi. C’è una fila di vestiti appesi come un branco d’impiccate. Sono vestiti da femmina. Gonne. Non c’era altro lí dentro, e avevamo guardato bene, giuro.
Le danze cominciano alle otto spaccate, dice. Sceglietevene uno della vostra taglia. Cinquanta centesimi cadauno. E se vi danno la mancia, ve la tenete.
Ma, signore, dice John Cole, come se parlasse a un povero demente. Mica siamo femmine. Non si vede? Io sono un maschio e Thomas pure.
Lo vedo che non siete femmine. L’ho potuto constatare appena siete entrati. Siete due bei pargoli. Il cartello dice Cercasi ragazzini. Le donne le assumerei volentieri ma non ci sono donne a Daggsville, a parte la moglie del bottegaio e la figlioletta dello stalliere. Per il resto, tutti uomini qui. Ma gli uomini senza donne, gli prende lo struggimento. Si ritrovano nel cuore una specie di tristezza. Io la voglio scacciare e anche fare un po’ di quattrini, sissignore, proprio come si usa in America. Gli serve solo l’illusione, solo l’illusione del gentil sesso. Gliela darete voi, se accettate questo lavoro. Dovete solo ballare. Niente baci, carezze, palpate o toccatine. Solo ballo fine ed elegante. Se sapeste con quanto garbo, con quanta delicatezza balla un rozzo minatore. È una vista che commuove. E voi, se mi posso permettere, avete una vostra bellezza, soprattutto il piccoletto. Ma vai benissimo anche tu, vai benissimo anche tu, dice, vedendo di nuovo montare l’orgoglio professionale appena acquisito da John Cole. Poi alza un sopracciglio a mo’ di domanda.
John Cole mi guarda. Per me era uguale. Meglio che crepare di fame in un sacco da frumento.
D’accordo, dice.
Ora vi faccio preparare un bagno nella stalla. Vi do il sapone. Vi passo la lingeria, muy importante. L’ho portata da St Louis. Vi andrà a pennello, ragazzi, secondo me vi andrà a pennello, e dopo qualche bicchiere nessuno degli uomini che conosco storcerà il naso. È una nuova era nella storia di Daggsville. I cuori solitari avranno fanciulle con cui ballare. E tutto con buona creanza, solo con buona creanza.
Usciamo con un’alzata di spalle, come a dire che è un mondo di matti, ma ogni tanto la fortuna arriva. Cinquanta centesimi cadauno. Quante volte, sotto quante pergole prima d’addormentarci ai tempi dell’esercito, sulla prateria, su pendii solitari, ci siamo divertiti a ripeterlo, io e John, facendoci sempre una risata. Cinquanta centesimi. Cadauno.
Quella sera in particolare nella perduta storia del mondo, il signor Titus Noone, perché cosí si chiamava, ci ha aiutato a vestirci con discrezione tutta maschile. Bisogna riconoscerglielo, se ne intendeva di bottoni, nastri e tutto quanto. Ha avuto pure l’accortezza di spruzzarci il profumo. Mai stato cosí pulito in tre anni, forse in tutta la vita. A essere sincero in Irlanda non brillavo per pulizia, i poveri contadini non fanno il bagno. Quando hai la pancia vuota la prima cosa che sparisce è anche il minimo rispetto dell’igiene.
Il saloon s’è riempito in fretta. S’erano sbrigati a mettere i manifesti per tutto il paese e i minatori avevano risposto alla chiamata. Io e John Cole stavamo su due sedie contro un muro. Molto femminili, composti, gentili e ammodo. Non guardavamo mai i minatori, fissavamo dritto davanti a noi. Di ragazze ammodo ne avevamo viste ben poche, ma abbiamo trovato l’ispirazione. Io avevo una parrucca bionda e John una rossa. Mi sa che, seduti lí, dal collo in su sembravamo la bandiera d’un paese sconosciuto. Il signor Noone ci aveva premurosamente riempito i bustini d’ovatta. Tutto a posto, però eravamo scalzi, dice che s’era scordato le scarpe a St Louis. Magari le aggiungevamo in un secondo momento. Ci fa: attenti a non farvi pestare i piedi dai minatori, e noi: va bene. Strano, ma appena ci siamo infilati quei vestiti è cambiato tutto. In vita mia non m’ero mai sentito tanto appagato. Tutte le tristezze e le preoccupazioni sono volate via. Ero un uomo nuovo, una donna nuova. Libero, come gli schiavi liberati dalla guerra a venire. Ero pronto a tutto. Mi sentivo grazioso, forte e completo. Questa è la verità. Non so cos’ha provato John Cole, non me l’ha mai detto. John Cole dovevi amarlo per le cose che decideva di non dire. Di cose utili ne diceva tante. Ma non ha mai parlato male di quel lavoro, neanche quando non faceva piú per noi. Eravamo le prime ragazze di Daggsville ma non certo le peggiori.
Si sa che esistono minatori di tutti i tipi. Arrivano in una regione, l’ho visto mille volte, e la spogliano di tutta la bellezza, poi i fiumi diventano neri di sporcizia e gli alberi appassiscono come vergini offese. Gli piace il mangiare pesante, il whisky pesante, le notti pesanti e a dire la verità, se sei una ragazza indiana, gli piacerai sempre nella maniera sbagliata. I minatori vanno nei villaggi e ne combinano di tutti i colori. A stuprare, i minatori sono imbattibili, almeno certi. Altri minatori sono insegnanti, professori che vengono da terre piú civilizzate, preti spretati e bottegai in bancarotta, uomini che le mogli li hanno abbandonati come ferri vecchi. Tutte le tinte e le sfumature dell’animo umano, come direbbe sicuramente un pittore. Però sono venuti tutti quanti al saloon di Noone e c’è stato un cambiamento, un gran cambiamento. Perché eravamo belle ed eravamo la luce dei loro occhi. E comunque il signor Noone stava lí con un fucile a portata di mano in bella vista sul bancone. Non vi dico quanto è morbida la legge in America con un proprietario di saloon che ammazza i minatori. Un bel po’.
Forse gli ricordavamo altri posti. Forse eravamo le ragazze della loro gioventú, i loro primi amori. Caspita, eravamo cosí candidi e carini che io pure avrei voluto conoscermi. Forse per qualcuno il primo amore eravamo noi. Per due anni abbiamo ballato con loro ogni sera e non hanno mai fatto una mossa sconveniente. Sul serio. Magari sarebbe piú stuzzicante raccontare che spingevano col bacino, che c’infilavano la lingua in bocca, o ci agguantavano i seni immaginari con le mani callose, invece no. Erano gentiluomini della frontiera, in quel saloon. Cadevano schiantati dal whisky a notte fonda, cantavano a squarciagola, a volte facevano a pistolettate mentre giocavano a carte, si picchiavano coi pugni di ferro, ma quand’era ora di ballare parevano il cortese d’Artagnan dei romanzi. Le panze da maiale sembravano appiattirsi e ricordavano animali piú eleganti. Gli uomini si rasavano per noi, si lavavano per noi, si mettevano in ghingheri per noi, almeno per quanto possibile. John si chiamava Joanna, io Thomasina. Ballavamo e ballavamo. Facevamo volte e giravolte. In effetti, eravamo diventati bravi. Nel valzer sapevamo andare lenti e svelti. Mai visti a Daggsville ragazzi migliori, oserei dire. O piú bell...