Notti stellate
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Notti stellate

  1. 248 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Notti stellate

Informazioni su questo libro

Marcello è cresciuto nelle baracche lungo la fiumara di Marrani, alla periferia di Reggio Calabria, ed è alla fiumara che da bambino passa i pomeriggi. Tra carcasse di auto, elettrodomestici rotti e confezioni di caramelle scadute, in quella discarica a cielo aperto la sua fantasia trasforma tutto in gioco. È lí che porta il suo cane pieno di zecche, che sfoglia riviste porno, che si nasconde quando la madre lo fa arrabbiare. A casa non c'è nemmeno il bidet e lui dorme nel letto dei genitori: il padre zappa, e la madre, personaggio indimenticabile, per quanto ci provi non riesce ad arginare le sue rivolte; di sette figli, è proprio il piccolino a dare piú problemi. Come accade solo nei migliori romanzi, comico e tragico si fondono nelle avventure di questo ragazzino sedotto e spaventato dalle cattive compagnie, troppo povero per sognare un riscatto, ma cosí capace di meraviglia che non può non cercarlo con tutto sé stesso.

«Dentro la pancia di Rosa c'ero io, che arrivavo insieme al giardino. Il nome fu tanto discusso, dato che i nonni erano stati accontentati tutti. Mamma si era fissata che mi voleva chiamare Maurizio, ma a papà questo nome suonava male. Gli venne in mente allora un amico di mio fratello Antonio, un ragazzetto buono, educato, che si chiamava Marcello. Sperava che se mi metteva il suo nome uscivo come lui. Invece no: focu fu».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
Print ISBN
9788806240479
eBook ISBN
9788858429914

Parte 1

Capitolo 1

Eccola mia mamma Rosa con i piedi nella terra fresca. Era una terra bella, di un marrone vivo, diversa da quella che c’era là intorno. La stavano sgomberando a Marrani, il nostro quartiere, per costruire le nuove palazzine popolari, e i miei se l’erano fatta portare a camionate per bonificare un pezzo della fiumara, dove il torrente diventava secco, una pietraia, e la gente lo aveva trasformato in una discarica di roba accumulata: carcasse di macchine, frigoriferi, televisori, lavatrici, armadi. Tutta la famiglia era impegnata quel giorno, e anche se io dovevo ancora nascere riesco a vederli. Mia mamma portava un paio di scarpe rovinatissime, blu con i buchini, di quelle che vendono in farmacia, e collant color pelle tutti sfilati. Si vestiva di vecchio, con una gonna larga a fiori, la stessa che si metteva sempre, una maglietta bianca con i brillantini e un grembiule con due pere stampate. La faccia rugosa, sudatissima, le mani sporche di terra, le unghie nere. Aveva seni molto grandi, zingareschi, e portava degli orecchini vecchi, fuori moda, che non toglieva mai, neanche quando andava a dormire. A quell’epoca era giovane, aveva poco piú di quarant’anni. Si era fatta la tinta ai capelli, che per lei erano sacri, e li proteggeva con un muccaturi, un fazzoletto colorato legato sotto il mento. Con la sua voce potente faceva rigare dritti tutti. Era lei quella che ordinava: incitava mio padre Peppino a muoversi prima che scurava, e lui zitto eseguiva gli ordini e accelerava con la pala.
Peppino era magro e portava un paio di pantaloni arrotolati fino alle ginocchia, un fazzoletto sulla fronte e una camicia a righe sbottonata, legata con un nodo all’altezza dell’ombelico. Anche dietro, sulla schiena, aveva un buco. Questo era un segno particolare di mio padre: un doppio ombelico, uno davanti e uno dietro, perché una volta, in un incidente, gli si era conficcato un pezzo della portiera della macchina. Peppino era un gran lavoratore, ma amava anche lui concedersi delle libertà. Da piccolo invece di comprare il sale andava al cinema e poi per sfuggire a mio nonno che lo voleva menare se ne saliva in cima a un albero di noci ed era capace di rimanerci due giorni. Nonno aveva insegnato a tutti a lavorare, li costringeva. I nipoti lo chiamavano «nonno Hitler», io non l’ho conosciuto, meno male.
Mia sorella Adelina con una zappetta in mano faceva finta di scavare. Aveva tanti capelli, «una manna di capiddi», diceva mia mamma, che si inventava sempre nuovi vocaboli, tipo «il sugo non cuitía», che ancora oggi non mi spiego che cosa vuol dire. Adelina se ne era venuta a lavorare tutta elegante, con una vesta degli anni Trenta. Faceva sempre il contrario di quello che diceva mia mamma. Mamma diceva: «’Mbíviti l’acqua» e lei si beveva il vino. Oppure: «Non voglio che vai a contargli i cazzi nostri alla gente» e lei andava e raccontava per filo e per segno quello che succedeva in famiglia.
Mio fratello Tomo, poco piú in là, aveva un rastrello in mano. Cercava di fare quello che gli diceva papà, ma era timido nel lavoro. Era vestito con una maglietta che un tempo era stata bianca, pantaloni nocciola a zampa, di tela, e scarpe di pezza. Era magro come un chiodo, con i baffi e un sorriso a trentadue denti, che allora ce li aveva, poi li ha persi tutti perché il dentista da noi era un optional, non l’abbiamo mai visto, non sapevamo manco che esisteva quel mestiere. A un certo punto Tomo disse che doveva smettere, si era fatta ora di andare, lui lavorava al bar dei mercati generali.
Fausto era piú piccolo di Tomo, molto preciso, e dolce anche, affettuoso, educato. Lavorava al mercatino a piazza del Popolo, vendeva frutta e verdura. Gli volevano bene tutti, era perfetto, una sola volta l’ho visto ubriaco. Lui quella mattina non ci era andato alla fiumara, perché era contrario, pensava che recintarsi un pezzo di discarica era un’idea idiota, pazzesca, non ne aveva voluto sapere.
Adelina, Tomo e Fausto non erano figli di Rosa. La loro madre era morta anni prima in seguito a un male, e mio padre, siccome da solo non riusciva a badarli, li aveva portati in collegio, chi a una parte chi a un’altra, divisi. Poi un giorno Peppino, che lavorava un po’ come zappatore e un po’ come muratore, era andato in un paesello sulla costa ionica ad attaccare mattonelle nella casa di fronte a dove abitava mia madre e lí era rimasto fulminato dall’occhio strabico di Rosa, da questa donna cosí cruda, impetuosa, serbaggia. Anche a Rosa era piaciuto Peppino, si erano intuiti a prima vista. Lei aveva bisogno di andare via da Roccasecca, dove era disperata, lavorava sempre sempre sempre e non aveva una vita sua. Come si erano visti si erano riconosciuti, e cosí avevano finito per incrociarsi questi due mari della Calabria, lo Ionio e il Tirreno. C’era anche un altro figlio della prima moglie, Antonio, il primo, il piú irrequieto, testardo, non so quante volte se ne era scappato dal collegio. Viaggiava tanto, era andato fino in Danimarca a passaggi ed era tornato con le scarpe tutte consumate. A quell’epoca però viveva già a Roma, dove studiava Architettura, che era il suo sogno, si era appassionato al cinema e all’arte. I soldi per partire se li era fatti lavorando da benzinaio un mese, giusto per il biglietto del treno. Appena li aveva presi era fuggito, senza il permesso di mio padre. Per avere una stanza dove dormire badava agli anziani, visto che con mia zia di Roma non si era trovato tanto bene.
Santa e Dino, i figli che Peppino aveva fatto con Rosa, erano troppo piccoli per aiutare, cosí quel giorno alla fiumara li guardava nonna Angela, la mamma di mio padre, seduta sulla sua sedia. Nonna aveva una treccia legata sulla testa con delle forcine e vestiva di nero perché era morto da poco suo marito, nonno Hitler. Anche i nonni avevano zappato la terra. Sette figli, una campagna enorme e una casetta piccola: nonna Angela raccontava sempre che ai tempi loro mangiavano bieta bollita tutti i giorni, e meno male che a Scandallo, il paese di mio padre, si potevano raccogliere le olive per strada a manate. Un paese di lavoratori, di terra, di trattori, dove si coltivavano gli ulivi, i ciliegi, e la verdura cresceva spontanea con le foglie enormi, ed era buonissima.
Mentre gli altri scavavano, nonna ogni tanto si alzava e con la mano tremolante versava l’acqua o il caffè che aveva conservato in un thermos. Era venuta a lei quest’idea di chiudere un pezzo di terra nel letto della fiumara, un pomeriggio che erano andate con Rosa a raccogliere legna per il fuoco, per fare il braciere. Dalla casa alla fiumara era un attimo: subito finiva il paese e la strada diventava di fango e polvere. Dietro il curvone che passava tra due ville abbandonate si apriva la frontiera, una terra di nessuno, attraversata dal torrente quasi sempre asciutto, al punto che non ci avevano neanche fatto un ponte per attraversarlo.
«Rosetta, – come la chiamava nonna in confidenza, – lo sai che mi è venuta un’idea? Vedi quel giardino là?»
«Quale giardino?»
«Quello».
«La spazzatura?»
«Secondo me quello un giardino è».
«Vi dico che è spazzatura».
«E io ti dico che secondo me è un giardino».
Mia mamma era un osso duro persino per nonna Angela, però alla fine si convinse. «Ma lo sapete che forse forse…»
La sera, dopo mangiato, si erano guardate tra loro, poi Rosa aveva detto a Peppino: «Oggi eravamo con tua mamma che coglievamo la legna, e lo sai che mi ha fatto venire un’idea? Sai là dove ci sono gli zingari?»
«Da Mimí sarebbe?» Mimí ’u Zingaru aveva uno sfasciacarrozze giú alla fiumara.
«Il pezzo di fronte, dove buttano tutta immondizia. Basta che lo pulizzamu…»
«Ma niscisti paccia? Tu sei paccia, che vado a stare nell’immondizia».
«Ma camina! Lo chiudiamo con quattro pali, come viene viene, l’immondizia si toglie, e di giorno stiamo là, che non vediamo piú a nessuno in mezzo ai piedi». Il fatto è che a casa Rosa si sentiva circondata da persone che le volevano male. Diceva sempre che la colpa di tutte le nostre disgrazie era della vecchia che viveva di fronte, perché era convinta che Adelina le aveva dato un oggetto di casa e quella ci aveva fatto sopra qualche maghía, malocchio o fattura. Un altro vicino strano era don Nino l’argentino, che viveva con una donna che non si capiva se era la sua badante o sua moglie. Don Nino si metteva tutto il giorno con sigaro e bastone su un bizzolo, che era il suo divano di cemento, levigato lucido a forza di stare sempre là seduto, e ogni volta che qualcuno passava alzava il bastone e imprecava ingiurie incomprensibili, se non stavi attento ti prendevi pure una bastonata. Per i bambini era diventato un passatempo, prima lo provocavano e poi scappavano per scansare la verga.
«La togli tu tutta l’immondizia, – aveva protestato Peppino. – Me ne devo andare dove buttano la merda i cristiani? E una volta che la pulisco magari mi cacciano pure?» Perché Peppino le aveva avute, le brutte esperienze. Una volta gli avevano dato in uso un pezzetto di giardino tutto pieno di rovi. Lui l’aveva pulito, sistemato, piantato, e poi proprio quando dovevano uscire i frutti l’avevano cacciato e non gli avevano fatto staccare manco un pomodoro, niente gli avevano dato, che gliel’aveva fatto bello a furia di zappare, prima era uno schifo.
Ma Rosa aveva già la risposta pronta: «I cristiani si fanno le ville dove vogliono e noi per piantare due pomodorelli ci cacciano? Camina… Cosí si piglia un poco di sole pure tua mamma. Chi la tiene piú dentro casa? E riscaldiamo anche ’sti figlioli, che sono pieni di dolori». Era umida la casa dove abitavano, Fausto aveva passato sei mesi all’ospedale a Roma per i reumatismi e Antonio per tre mesi era stato senza camminare.
E cosí avevano fatto portare tutta quella terra alla fiumara e si erano messi a scavare, vangare, pareggiare. Ogni tanto qualche curioso si fermava a guardare i lavori che procedevano. Il primo era stato Mimí ’u Zingaru, che stava dall’altro lato della strada. Portava sempre i pantaloni stretti, Mimí, che mettevano in risalto un bel culo tondo, due pomi da brasiliano.
«Ma signora! Signora! – aveva chiesto Mimí. – Ma si poti costruire qua? Non vi dissero niente a voi?»
«E no, qua io un giardineddo faccio, mica una casa, mi pianto due pomodorelli».
«E non è di nessuno?»
«E di chi volete che è? Fiumara è».
«Ma qua, signora, è tutta spazzatura. Meglio se andate a un’altra parte, che qua vi ammazzate solo».
«E che, per voi è buono e per me no?» Perché pure lo sfascio di Mimí era un pezzo di fiumara recintato.
Poi si era fermato il macellaro di Marrani: «No, ma qua non penso che vi lasciano in pace».
«Vabbè, che dobbiamo fare? Se ci lasciano ci lasciano, s’allora ce ne andiamo».
«Noi pure abbiamo un pezzo di giardino, là però è piú appartato, qua è davanti alla strada. Dovete fare una bella chiusura».
«E sí, lo so, questo, lo so».
«A me mi fa piacere se vi lasciano, almeno ci aiutiamo uno con l’altro, s’avete bisogno basta che me lo dite».
Alla fine arrivò Lorenzo con l’ultima camionata di terra. Lui era un altro frequentatore fisso della fiumara, aveva una cava di sabbia dalla quale ogni giorno alla stessa ora se ne calava a bordo della sua ruspa. Con quella ruspa ci andava dappertutto, pure a fare la spesa.
Peppino disse ai figli di allontanarsi, di stare attenti al camion che scaricava. Vedendo quella quantità di terra persero tutti la voglia di continuare. Nella fiumara il sole cuoceva e la schiena bruciava. Il lavoro da fare era ancora tanto, c’era da spianare un ultimo pezzo di terra e dopo recintare tutto.
– Oh Peppe, mi gira la testa, – disse all’improvviso mia mamma, e Peppino, che cercava sempre di sdrammatizzare:
– Ma che dici, Rosa?
Nonna Angela capí che la cosa era seria e lasciò la sedia per andare a vedere.
– Ora mi ripiglio, – tranquillizzò tutti Rosa, ma intanto si mise seduta, non sembrava che stava proprio bene.
– Che ti senti?
– Debole, – e faceva cenno che non ci vedeva.
– Vabbè figlioli, per oggi abbiamo finito, – disse Peppino, e aiutò Rosa ad alzarsi e a entrare nella macchina che stava parcheggiata là vicino, una Simca color oro. Rosa si sedette dentro e dal finestrino abbassato disse alla nonna: – Voi andate con i figlioli, ci vediamo a casa. Accendete il fuoco, – poi le passò un mazzo di chiavi che teneva tra i seni. Li usava come borsellino, anzi come borsa.
Peppino spinse sull’acceleratore, era felice che poteva dare sfogo alla sua guida sportiva; ma pure se stava male Rosa trovò la forza di gridare: – Stai attento al semaforo! Vai piano! Piglia di qua! Ti ho detto cento volte che ’sta strada non mi piace. Frena! Meglio arrivare dopo che non arrivare proprio!
Raggiunsero l’ospedale di Reggio tutti impanati di terra, intimiditi. Il dottore fece sedere Rosa sul lettino, disse a Peppino di aspettare fuori e lui preoccupato uscí dalla stanza e aspettò nel corridoio.
Dopo un po’ mia mamma tornò dalla visita che pareva scioccata. Si mise la mano davanti alla bocca, come era abituata per non far vedere i denti che mancavano, e iniziò a sorridere, guardando Peppino con occhi da innamorata: – Peppe! – disse. – Focu meu, focu meu! Sette sono. Sette!
– Sette che?
A Rosa veniva da ridere, non riusciva quasi a parlare. – Sono positiva! Mi dissero che sono incinta –. Era contenta e dispiaciuta allo stesso momento, stava ancora valutando.
– Ma va’, va’, camina, che dici? Non eri in menopausa?
E Rosa, divertita: – Cosí disse il medico.
Tutti e due in fondo speravano che era uno scherzo, invece scherzo non era, perché dentro la pancia di Rosa c’ero io, che arrivavo insieme al giardino. Il nome fu tanto discusso, dato che i nonni erano stati accontentati tutti. Mamma si era fissata che mi voleva chiamare Maurizio, ma a papà questo nome suonava male. Gli venne in mente allora un amico di mio fratello Antonio, un ragazzetto buono, educato, che si chiamava Marcello. Sperava che se mi metteva il suo nome sarei uscito come lui. Invece no: focu fu.

Capitolo 2

Piano piano quel pezzo di terra che ci eravamo recintati alla fiumara diventò un accampamento, un labirinto. Il recinto era fatto di brande, lamiere, pali, reti, sportelli, porte e tutto quello che è buono per chiudere. Mio padre dedicava intere giornate al giardino, era la sua vita. Non era tipo da andare a farsi la passeggiata o al bar con gli amici, preferiva starsene per fatti suoi. Quand’era stanco si metteva sotto l’albero di fichi, su una sedia a sdraio scassata con una bottiglia di vino e un bicchiere appoggiati su una mattonella, e si rilassava. La maggior parte del tempo però la passava a coltivare, a gustarsi il pomodorello che cresceva ogni giorno, a mangiarsi una nespoledda. Le fave appena uscivano era il primo che le assaggiava. Arrivava ogni volta soddisfatto con qualche cosa, quei pochi frutti che portava a tavola erano i piú gustosi, i piú maturi.
Ogni angolo non utilizzato per coltivare era buono per fare una baracca, secondo mia madre, oppure andava ammassato di roba. I miei hanno continuato a occupare spazio inutilmente per anni e anni, ogni angolo, giocavano a Tetris. Mamma dirigeva i lavori e papà eseguiva. Con l’aiuto dei figli tirò su una fila di baracche: c’erano la cucina, il caminetto per riscaldarci, la stanza da letto per fermarci a dormire se la fiumara era in piena e non riuscivamo a tornare a casa, la baracca degli attrezzi, il g...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Notti stellate
  4. Parte 1
  5. Parte 2
  6. Parte 3
  7. Parte 4
  8. Epilogo
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Copyright