Nuuk, 13 agosto 2014.
Matthew considerò per un momento l’idea di tornare a casa a cambiarsi, ma poi lasciò perdere. Invece, da Radiofjeldet andò direttamente al Palazzo 2. Mentre camminava mandò un messaggino su Else e Arnaq a Tupaarnaq. Lei gli rispose subito che di sicuro era meglio avere una sorella che un padre, visto che tanto i padri erano sempre dei grandi idioti.
Pochi minuti dopo Matthew trovò l’indirizzo che gli aveva dato Ivalo. L’edificio era quasi distrutto quanto il Palazzo 17, ma costruito in maniera diversa, con tutte le porte disposte su un ballatoio comune che correva per tutta la sua lunghezza.
Nell’androne in cui entrò dal cortile qualcuno aveva dipinto un cartello rotondo bianco e rosso, con una barra rossa che passava sopra la sagoma nera di un uomo che faceva la pipÃ. Il messaggio era chiaro, ma si sentiva ugualmente un forte lezzo di vespasiano.
Il portoncino era azzurro. Macchiato e pieno di crepe negli strati esterni. Ma le cose che riusciva a vedere dell’appartamento attraverso i vetri erano in ottime condizioni. C’erano tende a fiorami a entrambe le finestre ai lati dell’ingresso, e da una Matthew scorse una cucina bella e pulita.
La seconda volta che bussò al legno, la porta fu tirata verso l’interno, e una donna piccola sui cinquantacinque anni sbirciò dallo spiraglio tra il battente e lo stipite.
– Niente réclame, per noi, – disse con voce stanca appena scorse la sua faccia.
– Réclame? – ripeté lui stupito.
– SÃ, non distribuisci réclame?
– No –. Matthew corrugò la fronte. – Sono un giornalista e vorrei fare qualche domanda.
– Ah, ho capito. Credevo fossi uno di quei genitori che distribuiscono le réclame delle gite scolastiche qui nei palazzi, perché pensano che sia troppo pericoloso mandarci i figli.
– Mia figlia è morta –. Matthew ebbe un tuffo al cuore cosà forte che per poco non cadde in ginocchio. Non aveva idea di come gli fossero venute quelle parole, e se le sarebbe rimangiate volentieri. – Scusa, ho detto una stupidaggine. Mi chiamo Matthew e sto cercando Paneeraq Poulsen. La conosci?
– SÃ, – rispose la donna esitando. – Sono io.
– Lavoro per il «Sermitsiaq», e sto investigando su un vecchio caso. Quattro omicidi che furono commessi qui a Nuuk nel 1973.
Paneeraq tacque, ma lo fissò negli occhi.
I polpastrelli della mano sinistra di Matthew si chiusero con cautela intorno all’anulare destro e cominciarono a sfregarlo delicatamente, avanti e indietro. – A quanto mi risulta, si tratta di un caso in cui con tutta probabilità le vittime erano ancora piú perfide della persona che le uccise, anche se furono omicidi raccapriccianti –. Cercò le parole. – Ho avuto il tuo indirizzo da un’impiegata del Comune, ed eccomi qui. Ho difficoltà a portare avanti l’indagine. Sono tutti chiusi come ricci.
Il silenzio della donna gli provocò di nuovo un tremito alle mani.
Lei annuà adagio e serrò le labbra.
– Aspetta un momento, – gli disse e chiuse la porta.
Un paio di portoncini piú in là tre giovani groenlandesi erano usciti sul ballatoio da un altro appartamento. Stavano fumando tutti e tre, e a Matthew venne voglia di una sigaretta. Raggiunse il parapetto e si sporse a guardare giú. Nel cortile che separava il Palazzo 1 dal 2 c’erano soltanto tre auto, di cui una sfasciata. Sulla sinistra, in linea diagonale, si intravedeva l’estremità della Casa della cultura.
La porta si aprà di nuovo e lui si rigirò immediatamente.
– Entra pure, – si limitò a dire Paneeraq spalancandola. – Me lo sono tenuto per me da allora, ma adesso ho cinquantatre anni e niente che mi leghi alla vita, tranne mio nonno materno. Se devo morire, tanto vale che lo faccia con l’anima monda, e mio nonno ha passato da un pezzo l’ottantina, perciò neanche lui ha qualcosa a cui aggrapparsi.
Non sapendo cosa dire Matthew si abbassò per slacciare i pesanti scarponi blu.
– Ne abbiamo parlato prima che ti facessi entrare, – continuò lei. – Se qualcuno del Governo autonomo dovesse venire a conoscenza di questa storia, avremmo comunque i giorni contati.
– Non ho parlato con il Governo autonomo, – si affrettò a dire Matthew. – Ma con un’impiegata comunale di una certa età . Ha delle opinioni molto ferme sulle storture… – esitò. – Sul modo in cui vengono considerate le donne in parecchi villaggi.
Paneeraq annuà rivolgendogli un sorriso vacuo e con una mano gli indicò il soggiorno. – Staremo a vedere.
Gli additò una sedia accanto al tavolo da pranzo. – Possiamo metterci là .
La stanza era suddivisa in tre piccole zone: una appunto con il tavolo da pranzo, una con il divano e il televisore e una con una grande poltrona in cui era seduto un vecchio ricurvo. Era sprofondato e ben nascosto da una maglia con cappuccio simile a quelle che Matthew aveva visto indosso a parecchi uomini groenlandesi dietro i banchi del mercato. Appoggiato alla poltrona c’era uno di quei tamburi usati per la danza rituale.
– Lui è mio nonno, – disse Paneeraq posando due tazze di caffè fumante sul tavolo. – Ormai non parla quasi piú.
Scostò una sedia e si accomodò di fronte a Matthew. Aveva il viso leggermente arrotondato. Gli occhi piccoli e le sopracciglia rade. I capelli erano folti e corti, con la riga a destra. Qua e là nel nero si vedevano tracce di grigio.
– Che cosa vuoi sapere? – gli domandò senza guardarlo.
– Sto cercando di far luce su un caso che risale agli anni Settanta, – rispose Matthew esitante. – I quattro omicidi a cui accennavo prima di entrare. Sono convinto che fossero tutti legati a degli abusi in famiglia. Ovviamente, non furono le bambine a uccidere i padri, ma qualcuno che le aveva a cuore ne ebbe abbastanza per loro e lo fece.
– E secondo te io sarei una di quelle bambine?
Matthew fece scorrere le dita su per la tazza calda. – SÃ. Ma è okay, se preferisci non parlarne.
Il vecchio nella poltrona aveva abbandonato una mano rugosa sul tamburo, e batteva le dita sulla pelle tesa. Non forte, ma abbastanza da attirare l’attenzione di Matthew.
– No, lo faccio volentieri –. La voce di Paneeraq interruppe il tamburo, che tacque immediatamente. Poi lei si alzò e raggiunse un piccolo comò marrone scuro, dove accese due grossi ceri bianchi con sopra dei motivi cristiani. Su uno c’era un’immagine di Gesú che ricordava un’icona, e sull’altro un ritratto della Madonna nello stesso stile.
Matthew scorse un piccolo riccio di mare fossile in mezzo ai ceri. – Quassú si trovano pietre come quella? – le domandò con un sorriso.
– No, me l’ha regalata tanto tempo fa un caro amico –. Si rimise seduta al tavolo e prese un sorso di caffè. – Che cosa vuoi sapere?
Matthew si sporse in avanti. – Quando ho cominciato a occuparmi di questa vicenda, credevo che al suo centro ci fossero gli omicidi, ma poi la mia attenzione si è spostata.
– Su?
– Sugli abusi sessuali.
Paneeraq fece un sospiro profondo e abbassò lo sguardo sul tavolo.
– Sul serio, non c’è nessun problema se preferisci non parlarne, – le disse Matthew.
Lei si strinse nelle spalle. – Ormai sei qui –. Vagò con lo sguardo verso i ceri. – Ogni singola bambina che ha subito abusi resta una bambina sola e abbandonata per tutta la vita. Il dolore per essere stata tradita cosà profondamente dalla persona che avrebbe dovuto proteggerla non passa mai. Quel dolore ti accompagna giorno dopo giorno, ed è forte oggi come quando, a nove o a dodici anni, ti addormentavi a furia di pianti ogni notte.
– Posso annotare le tue parole sul cellulare? – domandò Matthew estraendolo.
– Fai pure. Però se scrivi un articolo intero lo voglio vedere se mi citi per nome.
– Non ci ho ancora pensato. Preferisci restare anonima?
– Devi fare quello che credi meglio –. Paneeraq fissò con espressione vacua il cellulare di Matthew. – Io non ho subito abusi in casa, ma accaddero tante altre cose.
Lui levò lo sguardo. Le parole con cui Jakob aveva descritto Paneeraq nel taccuino, che riusciva a mala pena a camminare e aveva il terrore del padre, gli erano rimaste impresse, ma non voleva menzionare né il taccuino né il suo proprietario. – Io ero convinto che gli omicidi fossero una vendetta per le violenze nei confronti…
– Di noi bambine?
Lui annuà adagio.
– Forse erano anche questo, ma non solo. Non ho idea di come si trovassero le altre tre in famiglia, però so che cosa subimmo tutte e quattro e continuammo a subire anche dopo il nostro ritorno a Nuuk, poco meno di un anno prima che i miei genitori venissero assassinati.
– Non abitavate a Nuuk? Con i vostri genitori? – Matthew sentà il sospetto di Jakob riguardo le bambine e i loro padri sbriciolarsi tra le dita.
– Non mi pare che tu abbia scoperto granché, ma forse non cambia niente. Siamo state dimenticate. Tutto è stato dimenticato.
– Non completamente, – la corresse Matthew. – Io ne sto scrivendo adesso.
– Ma non a causa di noi bambine, giusto? Lo spunto sono stati gli uomini assassinati. Tutto quello che riguardava noi è andato perduto, perciò non troverai nessuna prova.
– Magari le prove salteranno fuori una volta che il vaso si scoperchierà in modo definitivo. Anche tu sei una testimone, e ne potrai parlare.
Paneeraq bevve un sorso del caffè e si spostò leggermente indietro sul sedile. – Eravamo quattro bambine, coetanee. Io, Najak, Julianne e Nuka. Avevamo tutte e quattro all’incirca nove anni quando arrivammo ad Ammassalik. Deve essere stato nel 1969. C’era un sanatorio pediatrico, e dovevamo cominciare la cura per la Tbc –. Scosse il capo. – In fondo, non era che un brefotrofio, ma immagino che volessero un pretesto per sperimentare dei farmaci su di noi, e la Tbc era l’ideale, perché nessuno dava importanza alle bambine affette da tosse cronica.
– E passaste due anni nel brefotrofio? Avrei immaginato qualunque cosa tranne questa.
– SÃ, due anni abbondanti. Le giornate erano tutte uguali. Credo che avessimo abbandonato ogni speranza di tornare a casa, e poi, inve...