Sogni di Bunker Hill
eBook - ePub

Sogni di Bunker Hill

  1. 152 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Sogni di Bunker Hill

Informazioni su questo libro

L'ultimo, struggente romanzo di Fante considerato il suo testamento. Sotto le luci miserabili e iperboliche della Mecca del cinema, Arturo Bandini sogna il successo di scrittore mentre con la mano sinistra scrive pessime sceneggiature che non vedranno mai la luce. Potrebbe essere la premessa di una tragedia: ma come sempre, in bocca a Bandini, tutte le tragedie finiscono in commedia - la commedia umana, atea, materialista del desiderio e della speranza e dei sogni di Bunker Hill.
Anche in quest'ultimo capolavoro colpisce l'inconfondibile voce fantiana - un impasto di humour, candore e cattiveria - che ne ha fatto uno scrittore amatissimo dal pubblico anche dei piú giovani che in lui, nel suo alter ego Arturo Bandini, hanno riconosciuto il prototipo di tutti gli sbandati-sognatori che hanno popolato la letteratura, non solo americana, dei nostri anni. «Di fronte a questo estremo, teso, sarcastico, irriverente, indecente, blasfemo, ironico Sogni di Bunker Hill si ha la certezza di essere di fronte a un grande narratore in cui una vita spesa a scrivere racconti per riviste e sceneggiature per Hollywood produce l'ultimo, accecante, compatto frutto».

Pier Vittorio Tondelli

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806168063
eBook ISBN
9788858400425

Sogni di Bunker Hill

Anche per Joyce

Uno

Il mio primo impatto con il successo non fu per nulla memorabile. Facevo l’aiuto cameriere alla tavola calda di Marx. L’anno era il 1934. Il luogo, l’incrocio fra la terza e Hill, Los Angeles. Avevo ventun anni, e per me il mondo era delimitato a ovest da Bunker Hill, a est da Los Angeles Street, a sud da Pershing Square e a nord dal Civic Center. Ero un aiuto cameriere veramente unico, con grande verve e molto stile vista la professione, e sebbene fossi terribilmente sottopagato (un dollaro al giorno piú i pasti), attiravo una considerevole attenzione quando scivolavo fischiettando di tavolo in tavolo con un vassoio in equilibrio su una mano, strappando sorrisi ai miei clienti. Oltre all’abilità di cameriere, avevo anche altro da offrire ai miei avventori, poiché ero uno scrittore. La notizia si seppe un giorno, dopo che un fotografo ubriaco del «Los Angeles Times» si fu seduto al bar e mi ebbe fatto qualche scatto mentre servivo una cliente che mi guardava con ammirazione. Il giorno dopo c’era un servizio speciale allegato alla fotografia del «Times». Parlava della battaglia e del successo del giovane Arturo Bandini, un ragazzo del Colorado, ambizioso e gran lavoratore, che si era aperto un varco nel difficile mondo dell’editoria con la vendita del suo primo racconto a «The American Phoenix», diretto, naturalmente, dal piú celebre personaggio della letteratura americana, nientemeno che Heinrich Muller. Buon vecchio Muller! Quanto amavo quell’uomo! In verità, i miei primi sforzi letterari erano stati delle lettere nelle quali gli chiedevo un parere, gli mandavo tracce di racconti che avrei potuto scrivere, e infine proprio racconti, molti racconti, un racconto a settimana, fino a che anche Heinrich Muller, orso del mondo letterario, tigre nella tana, sembrò arrendersi e si degnò di mandarmi una lettera di due righe, e poi un’altra lettera di quattro righe, e infine una lettera di due pagine con ventiquattro righe e poi, meraviglia delle meraviglie, un assegno di centocinquanta dollari, a saldo del mio primo lavoro accettato.
Il giorno che arrivò l’assegno ero uno straccio. I miei indescrivibili abiti del Colorado mi pendevano addosso a brandelli, e il mio primo pensiero fu di farmi un guardaroba nuovo. Dovevo essere sobrio ma elegante, e cosí scesi da Bunker Hill, all’incrocio tra la Seconda e Broadway, all’emporio dell’usato Goodwill. Andai verso il reparto confezioni di lusso e trovai un eccellente vestito blu gessato. I pantaloni erano troppo lunghi cosí come le maniche, il tutto costava dieci dollari. Per un altro dollaro mi aggiustarono il vestito, e mentre se ne occupavano mi aggirai nel reparto delle camicie. Le camicie costavano cinquanta cent l’una, di ottima qualità e di tutti i tipi. Poi comperai un paio di scarpe basse, di pelle con la suola spessa, scarpe che mi avrebbero portato per le strade di Los Angeles per molti mesi a venire. Comprai anche altre cose, qualche paio di mutande e magliette, una dozzina di paia di calze, un po’ di cravatte e infine un irresistibile, indescrivibile cappello di feltro. Me lo piazzai con disinvoltura sulle ventitre, uscii dallo spogliatoio e pagai il conto. Venti carte. Era la prima volta nella vita che mi compravo dei vestiti. Mentre studiavo la mia immagine riflessa in un lungo specchio, non potei fare a meno di ricordare che in tutti i miei anni nel Colorado la mia famiglia era sempre stata troppo povera per comprarmi un vestito, persino in occasione degli esami di maturità. Be’, adesso avevo preso il via e niente poteva fermarmi. Heinrich Muller, la tigre ruggente del mondo letterario, mi avrebbe condotto in cima alla vetta. Uscii da Goodwill e mi avviai lungo Third Street, ero un uomo nuovo. Avvicinandomi vidi il mio capo, Abe Marx, sulla porta della tavola calda.
– Buon Dio, Bandini! – esclamò. – Sei stato da Goodwill o cosa?
– Goodwill un corno, – sbuffai. – Questo viene direttamente da Bullok, sciocco –. Un paio di giorni dopo, Abe Marx mi porse un biglietto da visita. Diceva:
DR. GUSTAV DU MONT
Agente letterario
Preparazione e revisione
di libri, commedie, sceneggiature e racconti
Esperta supervisione editoriale
513 Third Street, Los Angeles
NON RICEVE SFACCENDATI
Feci scivolare il biglietto nella tasca del vestito nuovo. Salii in ascensore al quinto piano. L’ufficio di Du Mont era in fondo al corridoio. Entrai.
L’ingresso tremava come se ci fosse un terremoto. Trattenni il respiro e mi guardai attorno. La stanza era piena di gatti. Gatti sulle sedie, sulle mantovane, sulla macchina per scrivere. Gatti sugli scaffali e nelle librerie. La puzza era insopportabile. I gatti si levarono e vennero a girarmi intorno, si strusciavano sulle mie gambe, si rotolavano giocosi sulle mie scarpe. Sul pavimento e sulla superficie dei mobili, uno strato di peli di gatto si sollevava e vorticava come un mulinello d’acqua. Andai verso una finestra aperta e guardai l’uscita di sicurezza. Gatti salivano e scendevano. Un’enorme creatura grigia si arrampicò verso di me con una testa di salmone in bocca. Mi oltrepassò sfiorandomi e si buttò nella stanza.
A questo punto un turbinio di peli di gatto riempiva l’aria. Una porta interna dell’ufficio si aprí. Ed ecco Gustave Du Mont. Un ometto di una certa età, con gli occhi come ciliegie. Agitò le braccia e si precipitò tra i gatti strillando.
– Fuori! Fuori! Andate via! È ora di andare a casa!
I gatti si mossero senza fretta, alcuni finendogli tra i piedi, altri dandogli zampate giocose sui pantaloni. Erano i suoi padroni. Du Mont sospirò, alzò le braccia e disse:
– Cosa posso fare per lei?
– Sono della tavola calda qui di sotto. Ha lasciato il suo biglietto da visita.
– Si accomodi.
Entrai nel suo ufficio, e lui chiuse la porta. Eravamo in una piccola stanza, in compagnia di tre gatti che ciondolavano in cima a una libreria. Erano felini d’élite, enormi persiani che si leccavano le zampe con regale disinvoltura. Li guardai ammirato. Sembrò che Du Mont lo capisse.
– I miei preferiti, – sorrise. Aprí il cassetto della scrivania e tirò fuori dello scotch.
– Che ne dici di mangiare un boccone, ragazzo?
– No, grazie dottor Du Mont. Perché voleva vedermi?
Du Mont stappò la bottiglia, bevve un gran sorso e rimase senza fiato.
– Ho letto il tuo racconto. Sei un bravo scrittore. Non dovresti star lí a buttar via avanzi. Sei fatto per ambienti piú sensibili –. Du Mont trangugiò un altro gran sorso. – Vuoi un lavoro?
Guardai tutti quei gatti. – Forse. Cos’ha in mente?
– Cerco un revisore.
Sentivo l’odore pungente di tutti quei gatti. – Non sono sicuro di poterlo fare.
– Per i gatti? Me ne occuperò io.
Ci pensai un minuto.
– Be’… cosa vuole che riveda?
Mandò giú un’altra sorsata dalla bottiglia. – Romanzi, racconti brevi, qualsiasi cosa arriva.
Esitavo. – Posso vedere il materiale?
Il suo pugno cadde su una pila di manoscritti. – Prego.
Presi il primo manoscritto. Era un racconto breve scritto da una certa Jennifer Lovelace, intitolato Passione all’alba. Emisi un gemito.
Du Mont bevve un’altra sorsata. – È orrendo, – disse. – Sono tutti orrendi. Non li posso piú leggere. È la peggior scrittura che io abbia mai visto. Ma se hai stomaco, sono soldi. Piú sono brutti, piú ti fai pagare.
A questo punto il davanti del mio vestito nuovo era tutto ricoperto di peli di gatto. Mi prudeva il naso, e sentivo che stava per arrivare uno starnuto. Lo trattenni.
– Com’è la paga?
– Cinque dollari la settimana.
– Maledizione, ma è solo un dollaro al giorno.
– Niente da fare.
Afferrai la bottiglia e bevvi un sorso. Mi bruciò la gola. Sapeva di piscio di gatto.
– Dieci dollari la settimana o non se ne fa niente.
Du Mont avanzò la mano. – Stringila, – disse. – Cominci lunedí.
Il lunedí mattina mi presentai al lavoro alle nove in punto. I gatti se ne erano andati. La finestra era chiusa. La sala d’attesa era stata rimessa a nuovo. Accanto alla finestra c’era una scrivania per me. Tutto era pulito e spolverato. Non un solo pelo di gatto mi rimase attaccato al dito quando lo passai sul davanzale della finestra. Inspirai l’aria. L’odore di urina era ancora forte, ma mascherato da un potente disinfettante. C’era anche un altro odore: gattorepellente. Mi sedetti alla scrivania e tirai fuori la macchina per scrivere. Era una vecchia Underwood. Ci misi un foglio di carta e provai la tastiera. La macchina funzionava come una falciatrice arrugginita. Improvvisamente mi sentii insoddisfatto. C’era qualcosa in questo lavoro che mi rendeva apprensivo. Perché avrei dovuto lavorare sul prodotto di qualcun altro? Perché non ero nella mia stanza a scrivere le mie cose? Come si sarebbe comportato in questo caso Heinrich Muller? Dovevo essere proprio matto.
La porta si aprí e apparve Du Mont. Mi meravigliai nel vederlo con la bombetta, un panciotto grigio sotto la finanziera, le ghette; sfoggiava un bastone da passeggio.
Non ero mai stato a Parigi ma la vista di quell’ometto elegante mi ci fece pensare. Era pazzo? Di colpo pensai che lo fosse.
– Buongiorno, – disse lui. – Ti piace la tua sistemazione?
– Che ne è stato dei gatti?
– Il disinfettante, – disse. – Li allontana, stai tranquillo. Conosco i gatti. Non torneranno –. Appese il cappello e il bastone a una coppia di ganci attaccati alla porta. Poi prese una sedia e ci sedemmo fianco a fianco alla scrivania. Prese il manoscritto che stava in cima, Passione all’alba di Jennifer Lovelace, e cominciò a insegnarmi l’arte della revisione letteraria. Lo fece brutalmente, perché, onestamente, era un lavoro brutale. Con in mano una matita nera, corresse, ridusse e cancellò frasi, paragrafi e intere pagine. Il manoscritto sanguinava quasi per le mutilazioni. Presto me ne ero fatta un’idea, e alla fine della giornata anch’io lo stavo facendo a pezzi.
Il pomeriggio, sul tardi, sentii un colpo alla finestra. Era un gatto, vecchio e strambo, con la faccia pesta e sconsolata. Mi sbirciava attraverso il vetro, strofinandoci il naso contro, e poi leccandolo speranzoso. Feci finta di niente per un po’, e quando guardai di nuovo c’erano altri due gatti con lui sul davanzale della finestra, che mi guardavano come orfani che chiedono la carità. Non potevo sopportarlo. Scesi con l’ascensore alla tavola calda: trovai nel secchio della spazzatura qualche fetta di manzo affumicato. Le avvolsi in un fazzoletto e le portai ai gatti. Quando aprii la finestra, irruppero nella stanza e mangiarono con voracità dalla mia mano.
Sentii Du Mont che rideva. Era sulla soglia del suo ufficio, con in braccio uno dei suoi persiani.
– Lo sapevo che eri un tipo da gatti, – disse. – Te lo avevo letto negli occhi.

Due

Mi ci vollero tre giorni per finire di rivedere il racconto di Jennifer Lovelace. La sua versione era lunga trenta pagine. La mia riduceva il manoscritto a circa la metà. Il racconto non era del tutto da buttare; era, mal costruita e mal narrata, la storia di sei insegnanti che attraversano in diligenza la pianura, scontrandosi con indiani e fuorilegge e arrivano infine a Stockton. Ero soddisfatto di quello che avevo fatto e portai il manoscritto a Du Mont. Lui lo soppesò, e aggrottò le sopracciglia.
– Non potresti aggiungerci un’altra decina di pagine? – domandò.
– È lungo abbastanza, – insistetti. – Non aggiungerò neanche un rigo. Credo che a Jennifer Lovelace piacerà.
Allungò la mano verso il telefono. – Le dirò che il lavoro è pronto.
Il pomeriggio seguente, mentre stavo dando da mangiare ai gatti, Jennifer arrivò. La sua bellezza era sconcertante. Aveva un vestito di lino bianco, calze nere trasparenti e scarpe nere di vernice, al braccio una borsa nera. I capelli erano una nuvola nera scintillante, il suo volto delicato era illuminato da occhi neri. C’era cosí tanto da vedere in lei, e i miei occhi si posarono sui contorni del suo corpo, la sensualità della vita e dei fianchi, solleticante, stimolante, incredibile. Avevo guardato migliaia di belle donne da quando ero arrivato a Los Angeles, ma la bellezza di Jennifer Lovelace mi prendeva alla gola.
– Salve, – dissi, e inciampai.
– Buon pomeriggio, – sorrise lei. – Sono Jennifer Lovelace. C’è il signor Du Mont?
– Vado a vedere. Prego, si accomodi.
Si adagiò in una sedia come un delizioso cuscino di satin e io guardai il meccanismo delle sue ginocchia, delle sue cosce, dei suoi fianchi. Poggiò in grembo le mani delicate e io provai un brivido di piacere. Tamburellai alla porta di Du Mont e lui mi disse di entrare. Entrai, chiusi la porta con cura e bisbigliai: – È qui!
– Shhh! – disse Du Mont portandosi un dito alle labbra. – Lasciala aspettare un po’. È ricca.
– Si vede, che è ricca.
Du Mont tirò fuori dal panciotto un orologio d’oro e lo fissò per un tempo che mi sembrò lunghissimo. Poi fece schioccare le dita: – Adesso! Falla entrare!
Aprii la porta e la trovai seduta con aria paziente, come una regina.
– Si accomodi, prego, – dissi.
– Grazie, – disse lei alzandosi. Mentre andava verso l’ufficio di Du Mont, vidi il dietro del suo vestito coperto da peli di gatto.
– Aspetti! – dissi. Lei si fermò e mi guardò sbalordita. Era il mio momento. Mi inginocchiai dietro di lei e cominciai a spazzolar via con la mano i peli dal suo glorioso sedere, sentendo le cosce muscolose, la rotondità del suo splendido didietro. Lei si allontanò da me di scatto.
– Cosa sta facendo? – domandò. – Cosa mai sta facendo?
– I gatti, – dissi io allungando le mani coperte di peli.
Ruotò il busto per guardare i peli attaccati al suo vestito e iniziò a spazzolarli via con una mano. Mi avvicinai sempre in ginocchio per darle aiuto ma lei mi respinse.
– Per favore, – implorò. – Mi lasci in pace –. A questo punto Du Mont le era a fianco, calmo e galante.
– Venga, cara, – la lusingava accompagnandola verso la porta e poi chiudendogliela alle spalle. Mi inginocchiai sul pavimento, confuso e imbarazzato, mentre i gatti mi giravano intorno miagolando per la fame.
L’ufficio di Du Mont era silenzioso. In ginocchio, guardai attraverso il buco della serratura: Jennifer era seduta alla scrivania, davanti a Du Mont. Aveva un’espressione furiosa, mentre leggeva la versione corretta del suo racconto.
– Il mio manoscritto, – annaspò. – Che è successo? – Frugava nella sua borsetta. – Mi dia una sigaretta, per favore.
Du Mont gliela offrí.
– Cosa ha fatto al mio racconto, dottor Du Mont? L’ha distrutto, il mio bel racconto! Come ha potuto farmi una cosa simile?
Du Mont sollevò le mani, come per calmarla. – Io non ho fatto niente, mia cara, – mentí. – Non avevo idea di quel che lui...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Il ragazzo dai capelli bianchi di Gianni Amelio
  4. Storia di Sogni di Bunker Hill
  5. John Fante: la vita, i libri
  6. John Fante in italiano
  7. Sogni di Bunker Hill
  8. Indice