
- 248 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La strada per Los Angeles
Informazioni su questo libro
«Attenzione: colui che entrerà in scena all'inizio di questo romanzo, in qualità di umile spalatore di fossi, è uno dei personaggi piú leggendari prodotti dalla letteratura moderna. Attenzione ad Arturo Bandini, il possente scrittore, lo spietato condottiero, l'invincibile mezzofondista, l'amante irresistibile, il tenero figlio che dà sangue e sudore per mantenere una famiglia di femmine parassite. Bandini l'immortale, orgoglio d'Italia e d'America; l'astuto Bandini che nessuno mette nel sacco; egli sta per fare la propria comparsa e conquisterà il mondo...
Che romanzo formidabile è questo».
Sandro Veronesi
Domande frequenti
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Informazioni
Print ISBN
9788806168865eBook ISBN
9788858401743Quindici
Passò un mese, con quattro paghe. Quindici dollari la settimana.
Non riuscii mai ad abituarmi a Shorty Naylor. Shorty Naylor, peraltro, non riuscà mai ad abituarsi a me. Non potevo parlargli, e nemmeno lui poteva parlarmi. Non era uomo da dirgli: Salve, come va? Annuiva e basta, lui. E non era uomo da discuterci sulla situazione del comparto conserviero o sulla politica mondiale. Era troppo freddo. Mi teneva a distanza. Mi faceva sentire come se fossi un dipendente. Già lo sapevo che ero un dipendente. Non vedevo perché mai dovesse rivoltare il coltello nella piaga.
La fine della stagione degli sgombri era prossima. Arrivò un pomeriggio che avevamo finito di etichettarne un’infornata da duecento tonnellate. Shorty Naylor apparve con una matita e un blocnotes. Gli sgombri erano stati inscatolati, etichettati, ed erano pronti per andar via. Una nave da carico era ormeggiata ai docks, in attesa di trasportare il tutto in Germania, a un grossista di Berlino.
Shorty ci diede l’ordine di portare il carico ai docks. Mi asciugai il sudore sul viso mentre la macchina si fermava, e con fare amichevole e cordiale mi avvicinai a Shorty e gli diedi una pacca sulla schiena.
– Come vanno le cose nel comparto conserviero, Naylor? – dissi. – Come va la concorrenza norvegese?
Lui si scrollò la mano dalla spalla.
– Trovati un carrello e va’ a lavorare.
– È un capo piuttosto duretto lei, Naylor, – dissi. – Un capo piuttosto duretto.
Feci una dozzina di passi e lui mi chiamò per nome. Tornai indietro.
– Sai com’è che funziona un carrello?
Non ne avevo idea. Non sapevo nemmeno che i carrelli si chiamassero cosÃ. Ovvio che non sapevo come funziona un carrello. Ero uno scrittore. Ovvio che non lo sapevo. Risi e mi sfilai la tuta di tela.
– Molto divertente! Se so com’è che funziona un carrello! E me lo chiede? Ha! Se so com’è che funziona un carrello!
– Se non lo sai, dillo. Non devi prendermi in giro.
Scossi il capo e guardai il pavimento.
– Se so com’è che funziona un carrello! E me lo chiede!
– Be’, lo sai?
– La sua domanda è patentemente assurda a prima vista. Se so com’è che funziona un carrello! Certo che so com’è che funziona un carrello. Naturalmente!
Le labbra gli s’arricciarono come la coda di un topo.
– Dov’è che hai imparato come funziona un carrello?
Mi rivolsi all’intero capannone. – Ora vuole sapere dov’è che ho lavorato con un carrello! Figuriamoci! Vuole sapere dov’è che ho imparato come funziona un carrello.
– D’accordo, stiamo perdendo tempo. Dove? Te lo sto chiedendo: dove?
Risposi sparato.
– Ai docks. Ai docks petroliferi. Facevo il cambusiere.
I suoi occhi mi strisciarono addosso dalla testa ai piedi, e le sue labbra assunsero vari riccioli di stanchezza, l’uomo era sommamente disgustato e sprezzante.
– Un cambusiere! Tu!
Rise.
Lo odiavo. L’imbecille. Lo scemo. Quel cane, quel topo, quel furfante. Quel topo con la faccia da furfante. Che ne sapeva lui? Era una bugia, certo. Ma che ne sapeva lui? Eccolo lÃ, quel topo, privo di un solo grammo di cultura, uno che probabilmente non aveva mai letto un libro in vita sua. Mio Dio! Che poteva saperne lui di qualsiasi cosa? E poi. Non era nemmeno cosà grosso, con quella bocca sdentata e tabaccosa e con quegli occhi da topo lesso.
– Be’, – dissi. – È un po’ che ti tengo d’occhio, Saylor o Taylor, o Naylor, o come diavolo ti chiamano quaggiú in questo buco fetente, e non me ne frega un accidenti; e a meno che la mia prospettiva non sia del tutto distorta, non sei proprio cosà dannatamente grosso, Saylor, o Baylor, o Taylor, o Naylor, o come diavolo ti chiami.
Una parola infame, troppo infame per essere ripetuta, gli colò da un angolo della bocca. Raspò sul bloc-notes, facendo finta di fare qualcosa che non mi risultò chiaro, e che peraltro non era che un fatto di pura ipocrisia, un trucco di quella sua anima vile; raspava come un topo, un topo incolto, e lo odiavo cosà fortemente che avrei potuto tranciargli un dito con un morso per poi sputarglielo in faccia. Guardatelo! Il topo che raspetta topesco su quel pezzo di carta come fosse un pezzo di formaggio, con quelle sue piccole zampette topesche, il roditore, il maiale, il topo di cantina, il topo di fondaco. Ma perché non diceva nulla? Ah! Perché alla fine aveva trovato pane per i suoi denti, ed era disarmato di fronte a un uomo superiore.
Mi voltai verso la catasta di pesce già cartonato.
– Vedo che questa roba va in Germania.
– Niente scherzi? – disse, continuando a raspare.
Non arretrai di fronte a questo suo stentato tentativo di essere sarcastico. Le spiritosaggini con me non attaccavano. Per contro, sprofondai in un severo silenzio.
– Di’ un po’ Naylor, o Baylor, insomma quel che è: che ne pensi della Germania moderna? Ti ritrovi nella Weltanschauung hitleriana?
Nessuna risposta. Non una parola, soltanto un raspio. E perché? Perché Weltanschauung era troppo per lui! Troppo per qualunque topo. Lo confuse, lo fece rimanere di stucco. Era la prima volta, e sarebbe stata l’ultima, che sentiva pronunciare quella parola. Infilò la matita in tasca e scrutò al di sopra della mia spalla. Per farlo dovette sollevarsi sulle punte dei piedi: era un omuncolo affetto da un tale ridicolo nanismo!
– Manuel! – chiamò. – Oh, Manuel! Vieni qui un minuto.
Manuel si fece avanti, impaurito, esitante, perché non era frequente che Naylor si rivolgesse a qualcuno per nome, a meno che non si trattasse di licenziarlo. Manuel aveva trent’anni, una faccia da affamato e zigomi sporgenti come uova. Lavorava davanti a me allo scarico delle scatole. Certe volte restavo a guardarlo a lungo per via dei suoi denti enormi. Erano bianchi come il latte, ma troppo grossi per quella sua faccia, e il suo labbro superiore non era abbastanza lungo da poterli coprire. Il vederlo mi faceva venire in mente i denti, e nient’altro.
– Manuel, mostra a questo qua come funziona un carrello.
Lo interruppi. – Dubito che sia necessario, Manuel. Comunque, viste le circostanze, è lui che dà gli ordini da queste parti e, come si dice, un ordine è un ordine.
Manuel, però, stava dalla parte di Shorty. – Vieni, – disse, – che te mostro.
Mi fece strada, mentre quella parola infame colava nuovamente dalla bocca di Shorty, e si poteva sentirla distintamente.
– Tutto ciò mi diverte – dissi. – È buffo, sai. Mi viene da ridere. Che vigliacco.
– Te mostro. Vieni. Ordine del capo.
– Il capo è un fesso. Un caso di dementia praecox.
– No no! Ordine del capo. Vieni.
– Assai divertente, e sia pure in un modo un po’ macabro. Un caso per Krafft-Ebing.
– Ordine del capo. No puedo farci niente.
Andammo nella stanza in cui erano custoditi, e tirammo fuori un carrello per uno. Manuel spinse il suo all’aperto. Io lo seguivo. Era abbastanza facile. Dunque si chiamavano carrelli. Quand’ero bambino li chiamavamo birocci. Chiunque, purché fornito di un paio di mani, avrebbe potuto far funzionare un carrello. Vista da dietro, la testa di Manuel era come la pelliccia di un gatto nero tosata con un coltellaccio da macellaio arrugginito. L’attaccatura ricordava una scogliera. Era un taglio di capelli fatto in casa. Sulla tuta, all’altezza del sedere, aveva una toppa di tela bianca. Era cucita malamente, come se avesse usato uno spillone per capelli e un pezzo di spago. I tacchi erano consumati fino alla base, fradici, le suole risuolate con il cartone, fradicio, tenute insieme da grossi chiodi. Aveva un’aria cosà povera che mi faceva impazzire. Conoscevo un sacco di gente povera, ma Manuel non poteva essere cosà povero.
– Di’ un po’, – dissi. – Quant’è che guadagni, per amor di Dio?
Uguale a me. Venticinque cents all’ora.
Mi guardava fisso negli occhi: era uno spilungone smilzo che guardava in basso, sul punto di crollare, coi suoi profondi occhi scuri e onesti, ma molto sospettosi. C’era in essi quella malinconia rassegnata tipica della maggior parte di quei peónes.
Disse: – Te gusta el lavoro ?
– Mi diverte. In certi momenti.
– A mi me gusta. Molto.
– Perché non ti fai un paio di scarpe nuove?
– No me lo puedo permettere.
– Sei sposato?
Annuà rapidamente e con forza, lusingato da quel suo matrimonio.
– Hai figli?
Fu lusingato pure da quello. Aveva tre figli, in quanto alzò tre dita tutte storte e un sorriso lo illuminò.
– Come diavolo fai a vivere a un quarto di dollaro l’ora?
Non sapeva. Signore, non sapeva, ma ce la faceva. Si mise una mano in fronte con un gesto di disperazione. Ci vivevano, sÃ; certo non era molto, ma passava un giorno e il giorno dopo erano ancora vivi.
– Perché non chiedi un aumento?
Scosse il capo con violenza.
– Magari me buttano fuori.
– Lo sai che cosa sei? – dissi.
No. Non lo sapeva.
– Sei un pazzo. Un pazzo fottuto, completo, scatenato. Ma guardati! Appartieni a una prosapia di schiavi. I tacchi delle classi dominanti ti schiacciano le costole. Perché non fai l’uomo? Perché non scioperi?
– No sciopero. No no. Me buttano fuori.
– Sei un pazzo. Un pazzo fottuto. Guardati! Non hai neanche un paio di scarpe decenti. E guarda la tua tuta! E perdio, mi sembri perfino affamato. Hai fame? – Non voleva parlare.
– Rispondi, pazzo che sei! Hai fame?
– No fame.
– Sporco bugiardo.
Si guardò i piedi senza smettere di ciabattare. Stava esaminandosi le scarpe. Quindi diede un’occhiata alle mie, che erano migliori delle sue sotto ogni profilo. Parve contento del fatto che avevo le scarpe migliori. Mi guardò in faccia e sorrise. Mi fece andare in bestia. Che senso aveva rallegrarsi per una cosa cos� Avrei voluto prenderlo a pugni.
– Che carine, – disse. – Quanto le pagaste?
– Chiudi il becco.
Proseguimmo, io dietro di lui. Tutt’a un tratto fui cosà furioso da non poter tenere la bocca chiusa. – Tu sei un pazzo! Tu e il tuo laissez faire! Perché non butti giú questa fabbrica e non esigi il rispetto dei tuoi diritti? Esigi le scarpe! Esigi il latte! Guardati! Babbione di uno schiavo! E il latte dov’è? Perché non ti metti a gridare?
Le braccia gli si tesero sopra il manubrio. La sua gola scura fu percorsa da una scarica di collera. Temetti di essermi spinto un po’ troppo in là . Forse ci sarebbe stata una zuffa. Ma non fu cosÃ.
– Sta’ zitto, – sibilò. – Magari ci buttano fuori.
Ma in quel posto c’era troppo rumore, uno stridere di ruote, un abbattersi di scatole, con Shorty Naylor a trenta metri di distanza sulla porta, occupato a controllare cifre e senza la possibilità di sentirci. Quando ebbi appurato che non c’erano problemi, decisi che non avevo ancora finito.
– Che mi dici di tua moglie e dei bambini? Quelle care piccole creature? Esigi il latte! Pensa a loro che muoiono di fame mentre i figli dei ricchi possono nuotarci, nel latte! Nuotarci! E perché mai le cose devono andare in questo modo? Forse che tu non sei un uomo come gli altri? Oppure sei un pazzo, un ebete, una mostruosa parodia della dignità ovvero l’antecedente primordiale dell’uomo? Mi senti? Oppure ti tappi le orecchie perché la verità ti fa male e sei troppo debole e pauroso per essere altro da un ablativo assoluto, da una prosapia di schiavi? Prosapia di schiavi! Prosapia di schiavi! Vuoi essere di una prosapia di schiavi! Tu ami l’imperativo categorico! Tu non vuoi latte, vuoi ipocondria! Sei una puttana, una troia, un magnaccia, una puttana del capitalismo moderno! Mi fai stare cosà male che mi viene da vomitare.
– Già , – disse. – Tu vomiti bene. Tu no scrittore. Tu vomito.
– Io scrivo un sacco. La mia mente nuota in una fantasmagoria d’espressioni rovesciate.
– Bah. Tu me fai vomitar, anche.
– Scemenze! Bifolco brobdingnagiano!
Cominciò ad accatastare scatole. A ognuna grugniva: erano molto in alto, difficili da raggiungere. Era inteso che doveva mostrarmi come farlo. Forse che il capo non aveva detto di stare a guardare? Bene, e io guardavo. Non era Shorty il capo? Bene, io rispettavo gli ordini. I suoi occhi lampeggiarono d’ira.
– Vieni! Lavora!
– Non rivolgermi la parola, borghese di un proletario capitalista.
Le scatole pesavano venti chili ciascuna. Lui ne impilò dieci, una sopra l’altra. Quindi diresse il muso del carrello al di sotto della pila e con le ganasce assicurò la scatola di sotto alla base del carrello. Non avevo mai visto carrelli di quel tipo. Ne avevo visti carrelli, ma non carrelli con le ganasce.
– Ancora una volta il Progresso drizza il capo. Le nuove tecniche si impongono perfino sull’umile carrello.
– Sta’ zitto e guarda.
Con uno strattone sollevò il carico dal pavimento e lo bilanciò sulle ruote, con il manubrio all’altezza delle spalle. Era un trucco. Sapevo che non ci sarei riuscito. Lui spinse via il carico. Per quanto, se poteva farlo lui – lui, un messicano, uno che senza dubbio non aveva mai letto un libro in vita sua, uno che nemmeno l’aveva mai sentito nominare, il rovesciamento dei valori – allora potevo anch’io. Lui, questo povero peón, aveva trasportato dieci casse.
E tu allora che cosa farai, Arturo? È mai possibile che tu venga superato da lui? No, mille volte no! Dieci casse. Bene. Io ne trasporterò dodici. Presi quindi il mio carrello. In quel momento Manuel ritornava per un secondo carico.
– Troppe, – disse.
– Taci.
Spinsi il carrello verso la pila e aprii le ganasce. Doveva succedere. Troppo dura. Sapevo che sarebbe successo. Non aveva senso cercare di superarlo, l’avevo sempre saputo, eppure lo feci. Ci fu uno sbilanciarsi e poi un tonfo. La catasta di casse crollò come una torre. Finirono dappertutto. La cassa pi...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Prefazione di sandro veronesi
- Storia di la strada per los angeles
- John fante: la vita, i libri
- John fante in italiano
- La strada per los angeles
- Uno
- Due
- Tre
- Quattro
- Cinque
- Sei
- Sette
- Otto
- Nove
- Dieci
- Undici
- Dodici
- Tredici
- Quattordici
- Quindici
- Sedici
- Diciassette
- Diciotto
- Diciannove
- Venti
- Ventuno
- Ventidue
- Ventitre
- Ventiquattro
- Venticinque
- Indice