Il primo miracolo di George Harrison
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Il primo miracolo di George Harrison

  1. 128 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il primo miracolo di George Harrison

Informazioni su questo libro

«I racconti hanno le spine, come le rose. I letterati ne annusano il profumo, ma l'editoria teme di pungersi. Storici e critici si dannano a lodare i racconti di Oechov e di Maupassant, mentre gli editori - quando un autore propone un libro di racconti - avvizziscono come mele avvelenate. E l'autore può essere chiunque. Dan Brown va dal suo editore e gli dice: "Ehi, sai cosa, avrei una bella raccolta di short stories per te", e l'editore sente la ceramica del suo cuore incrinarsi. Ma il pubblico? Li compra o no?
Io sono pubblico. Sono una componente della conclamata maggioranza dei lettori: le donne. E sono una donna di fantasia, che in cucina brucia i piselli immaginando storie. Insomma, sono un'accanita e felice lettrice di romanzi... Però poi rifletto: gli autori contemporanei che preferisco sono quasi tutti gente che scrive racconti, e nella top ten dei libri che mi hanno cambiato la vita ci stanno i Nove racconti di Sapete Chi.
E allora perché? Perché a fronte di tanti successi, tanto amore, tanta eccellenza, davanti ai racconti gli editori fremono come bisce? Credo di saperlo. Perché i libri di racconti non vanno al primo posto in classifica. Come il simpatico meccanico in pensione che gioca un euro al SuperEnalotto, anche l'editore spera nel jackpot e sa - con ragionevole certezza - che il jackpot non si nasconde nel libro di racconti.
Anche l'autore, naturalmente, sa che con i suoi racconti non si comprerà la sospirata casa al mare. Quando scrive un racconto, l'autore lo fa in maniera del tutto disinteressata.
E in maniera del tutto disinteressata io ho scritto queste storie. Nella speranza che facciano risuonare un'armonia, una vibrazione, un disagio, una piccola felicità o una punta di dolore. Un libro di racconti è il sacco di Natale, e l'autore dà a ciascun lettore il suo personale pacchetto, con il nastro e il bigliettino. Ecco, questo è per te, da parte mia, con rispettoso amore».
Stefania Bertola

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806202606
eBook ISBN
9788858402825

La traversata di Torino

Avete mai fatto la traversata di Torino? Dal suo punto piú lontano al suo punto piú lontano, cioè dal fondo di corso Unione Sovietica quasi Stupinigi all’Auchan di corso Romania, quasi autostrada per Milano? Io sí, l’ho fatta il 9 aprile 2005, con Eric. Era un po’ che ci pensavo. Un giorno, in biblioteca, era una giornata di scarsi prestiti e lenta frequenza, ho preso TuttoCittà, che teniamo sotto il banco, e ho guardato la piantina di Torino. Col righello, che teniamo sopra il banco, ho misurato i due punti piú lontani.
Avrei potuto farla anche da sola, questa traversata, anzi, in generale pensavo di farla da sola, poi durante la pizza di fine laboratorio ne ho parlato a Eric, e lui ha detto che sarebbe venuto volentieri. Durante le pizze di fine laboratorio mi lascio sempre un po’ andare. Non è per la birra, è che mi piace mangiare la pizza in tanti. Eric è un insegnante della Scuola Holden, ha i capelli lunghini, gli occhi azzurri, e una barba che va e viene. Mi rammenta i ragazzi degli anni Sessanta, come aspetto, ma quando parla ti rendi conto di tutta l’evoluzione che c’è stata nel frattempo, in fatto di filosofia, tecnologia e capacità di stare al mondo in generale. Eric avrà trent’anni, trentuno, piú o meno.
Io ne ho cinquantatre, sono bibliotecaria, non sono sposata e mi piace camminare. Abito a San Mauro, un paese nella prima cintura. Essendo la prima, questa cintura si adagia piuttosto stretta attorno alla vita di Torino, e non ci metto molto a raggiungere a piedi gli albori della città vera e propria. Circa mezz’ora. Se cammino all’insú, invece, arrivo fino alla Basilica di Superga, ma camminare all’insú è già un atto volontaristico, non una cosa spontanea come procedere dritta lungo il fiume finché arrivo in corso Belgio.
Oltre a camminare, mi piace leggere, ed ecco perché sono una bibliotecaria, e mi piace scrivere, ed ecco perché frequento i laboratori della Scuola Holden.
La Scuola Holden insegna ai giovani a diventare scrittori. Per fortuna oltre ai corsi per loro organizza anche dei laboratori per noi, persone di mezza età che non vogliono diventare scrittori (anche se dopo Camilleri non si sa mai) però vogliono saperne di piú sui libri e gli autori, e provare a scrivere qualcosa che non sia relegato in fondo a un cassetto. Ogni anno, mi iscrivo. Ci vado con mia cognata, che ha una tintoria a Castiglione, un paese della seconda cintura. Nonostante la cintura sia seconda, mia cognata Maria si fa volentieri il viaggio fino a Torino per seguire i laboratori Holden, specialmente quando li fa Eric con i suoi occhi azzurri e la barba che va e viene. Mia cognata e io siamo accomunate da questa passione per la lettura, iniziata quando eravamo ragazze. L’accomunamento, però, finisce lí, perché come gusti siamo diversissime, basti dire che lei legge Paulo Coelho.
Per la traversata di Torino Eric e io abbiamo scelto sabato 9 aprile perché volevamo una giornata di perfetta primavera, tiepida ma non ancora troppo calda, evitando la domenica, che mette tristezza perché ci sono i negozi chiusi. Non c’è niente di piú frustrante che camminare in una città di domenica. Se volete attraversare qualcosa di domenica, scegliete un bosco, secondo me.
Ci siamo trovati alle 8 in fondo a corso Unione Sovietica. Mi sono organizzata bene, la sera prima sono andata a dormire dalla mia amica Rita, che abita da quelle parti. Eric, invece, l’ho visto arrivare in taxi.
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Appena è sceso dal taxi, è stata subito lampante la differenza fra lui e me, ovvero fra un camminatore professionista e una dilettante. Eric infatti è stato un pellegrino di Santiago de Compostela, e ha fatto quel famoso percorso tale quale a Pierre Clémenti nella Via lattea. Quindi portava degli scarponcini da Sentiero Luminoso con cui avrebbe potuto attraversare Torino varie volte senza sentirsi stanco. Invece io avevo delle Converse di un bel blu, chiaro ma intenso, però molto vecchie, e allacciate a caso. Con quelle non si andava tanto lontano.
Appena partiti siamo passati lungo un circolo del golf. Ci siamo fermati a guardare attraverso il cancello. C’erano molti uomini che prendevano la sacca da golf dal portabagagli.
– Queste persone io le vorrei masticare, – ho detto a Eric.
– Masticare?
– Sí, sentire le ossa che mi si scricchiolano sotto i denti. E la cartilagine. Crac crac. Guarda che macchine.
– Sei di Rifondazione? – si è incuriosito Eric.
– No, però da ragazza ero di Lotta Continua.
Lui sembra stupito, ma non troppo, perché Eric non si stupisce mai troppo di nulla, essendo sí un insegnante della Scuola Holden, ma anche un giovane scrittore, per il quale è perfettamente normale che una ex di Lotta Continua sia adesso una bibliotecaria di mezza età con scarpe blu chiaro. Se, per dire, scoprisse che sono anche un ex uomo operato, non ci sarebbe niente di strano neanche in questo, per lui.
Cosí continuiamo a chiacchierare tranquillamente: lui mi dice che a tredici anni suonava la chitarra, io che mio fratello mi impiccava le bambole.
La prima sosta la facciamo alle 8,40, in corso Unione Sovietica angolo via Onorato Vigliani, in un bar. Notiamo che il barista ha la maglietta nera, con sopra un disegno di tre bottigliette, una rossa, una verde, una arancio. Io lo fotografo, e lui s’incuriosisce, ma non forniamo spiegazioni.
Alle 9,15 passiamo davanti ai Poveri Vecchi, un edificio che ospita le persone molto anziane e non molto ricche, i cui familiari non possono assisterle in casa. Tutti, nella vita, temiamo di finire ai Poveri Vecchi, specialmente chi, come me, non ha figli. Ne parlo a Eric, che avendo appunto trent’anni o trentuno considera la vecchiaia povera un elemento trascurabile.
– Ma figurati. Quando sarai vecchia, potrai fondare una rock band di vecchie. Non credo ne esistano. Avreste la vostra fetta di mercato.
– Non si può fondare una rock band di vecchie. Al massimo lo si può diventare, come i Rolling Stones.
– Allora comincia subito.
Non gli rispondo, perché capisco che Eric non ha voglia di intavolare una discussione sulla vecchiaia solitaria e indigente. Ma nella vita non si possono evitare sempre le cose che non ci piacciono. Quindi, dopo un attimo insisto.
– Se finisco ai Poveri Vecchi, ogni tanto potresti venirmi a trovare. Se riesco a racimolare tre o quattro persone che vengono a trovarmi ogni tanto…
Non finisco la frase, perché notiamo sulla facciata l’effigie di Giuseppe Consul, forse il fondatore dell’edificio, o il primo vecchio che qui si è rifugiato causa povertà. Questa effigie presenta un’escoriazione sulla marsina, sotto il punto vita, a metà strada verso l’orlo. Eric mi tira via.
– Se pensi di finirci da vecchia, è inutile che stai tanto a guardare adesso. Avrai tutto il tempo.
– Oltre a te, potrebbe venire a trovarmi mia nipote.
Ed è qui che sono folgorata da un’idea fantastica: fidanzare Eric e mia nipote. Cosí potrebbero venire a trovarmi insieme, portando anche i loro bambini. Chissà se è libero.
Il momento giusto per indagare si presenta durante la seconda sosta, che avviene presso la Pasticceria Pfatisch in via Sacchi. Ordiniamo un piattino misto di salatini, acqua e caffè. Qui avviene il primo scambio di parole con un essere umano non negoziante nel corso della traversata. Un avventore nota Eric che riprende con la videocamera.
– Ué, quello lí mi sta riprendendo.
Eric sorride e non dice niente, torna al nostro tavolo e prende un salatino. Il tipo lo guarda.
– Belle, quelle macchinette lí.
Se ne va, ma ormai il seme del cinema è gettato, e la padrona della pasticceria si agita. Chi saremo? Un reality? Scherzi a parte? O anche solo il TG Regione? Non osa chiedere, ma commenta: – Peccato che non c’è Giovanna. Quando fotografano prendono sempre lei.
Eric si chiede come sia questa Giovanna, ma non ci vuole molto a immaginarlo: sarà figa. Io invece mi chiedo cosa vuol dire «quando fotografano».
Approfitto della rêverie su Giovanna e chiedo a Eric se è fidanzato.
– No, mi sono sfidanzato da poco.
Mi racconta che sfidanzarsi è stato difficilissimo, che ha richiesto un impegno e un’energia molto maggiori che fidanzarsi, e che nel complesso si tratta di un’operazione assai ardua che lui non consiglierebbe a nessuno. Mi chiede se mi sono mai sfidanzata, gli dico sí, alcune volte, ma mai di mia iniziativa, quindi ho fatto pochissima fatica.
– Beata te, – sospira Eric.
– Eh già, – confermo.
Facciamo una breve deviazione dal nostro percorso per entrare in una libreria, dove io acquisto un volumetto sull’iconografia dei santi e lui si informa sul nuovo Mac mini. Questo è possibile perché si tratta di una libreria multimediale, che vende innumerevoli generi di oggetti rettangolari e quadrati: libri, cd, dvd, computer.
– In generale, c’è poca roba rotonda, – dico a Eric, mentre riprendiamo via XX Settembre, che fa parte del percorso ufficiale. – Cioè, ce n’è meno. È per via dell’impilabilità, secondo te?
– Certo, – mi risponde lui, sicuro. – Pensa che scomodi, i libri rotondi. Infatti per i cd, che sarebbero rotondi di suo, hanno dovuto fare le custodie quadrate.
La mia mente vacilla cercando di dividere fra tondeggiante e quadreggiante tutto quello che vediamo per strada: vetrine di negozi, binari del tram, pacchetti e Tetra Pak versus testoline dei bambini, panini, Chrysler e orologi.
Eric mi chiede se sono stanca, gli dico di no, che sono stupita di me stessa perché data la mancanza di allenamento mi aspettavo di sfinirmi prima, e poi gli chiedo se ha altre fidanzate in vista. Ad esempio, ho notato che una ragazza del laboratorio ci ha provato in tutti i modi, eppure lui niente.
– Non mi piacciono i suoi denti, – mi spiega Eric. – È carina, ma ha i denti marroncini.
– Ma dopo che ti sei sfidanzato, morta lí?
– No, morta lí no, ho avuto un paio di storie, una con una ragazza di Reggio Emilia, e una con una cameriera spagnola.
– Durante il pellegrinaggio a Compostela?
Una sera, Eric e altri pellegrini sono arrivati in una locanda, in un paesino sperduto della Navarra, tra strane nebbie estive e un precoce profumo di legna bruciata. La bella cameriera bruna me la immagino tipo Laura del Sol, una ballerina spagnola che ho visto anni fa nel film Carmen. Provocante ma scorbutica. È evidente che prova interesse per il giovane pellegrino, ma piuttosto che fare una mossa si farebbe macinare. Agli sguardi, però, non può impedire di bruciare. Eric capisce, ma è obbligato dal suo aspetto ad ammantarsi di leggiadra timidezza. Poco importa se dentro uno è un ruvido sdraiatore di ragazze: se l’aspetto è gentile, e i modi di fare garbati, a quelli bisogna attenersi, per non disorientare la preda. Quindi lascia passare la serata senza agire, intorpidito dalla stanchezza per il cammino. Certo, se lei si fosse presentata alla sua porta, l’avrebbe accolta con entusiasmo, ma l’iniziativa era già un impegno eccessivo, in quel momento del suo viaggio. Il giorno dopo avrebbe dovuto ripartire, ma per fortuna pioveva molto, troppo, pioveva cosí torrenzialmente che tutti i pellegrini di Compostela alloggiati nella sperduta locanda della Navarra decisero di restare ancora un giorno lí. E cosí, la seconda notte, Eric si presentò in cucina dicendo di avere fame, e di desiderare molto un piatto di spaghetti. Aveva deciso di puntare sul fascino etnico.
La ragazza aveva gli spaghetti, ma non sapeva cucinarli. Eric preparò un sugo, raccontò cose, e tutto andò come doveva andare.
– Poi è venuta a trovarmi una volta a Torino, ma sai, senza Navarra, senza pellegrinaggio, non era piú la stessa cosa.
Annuisco, ma mi sento un filo scoraggiata. Eric sembra un po’ incontentabile, temo che mia nipote non sia all’altezza, è pallida, spettinata, magra.
In via XX Settembre ci fermiamo davanti a due negozi, per farci le foto. Fotografo Eric davanti allo JuveStore, mentre lui fotografa me davanti a un negozio di santi e madonne.
– Guarda, – gli dico, – vedi quella santa col vestito rosa?
– Ah-ah. Carina. Poche tette, ma carina.
– È santa Lobelia, una delle undicimila vergini di sant’Orsola. Viveva tranquilla nel suo paese vicino a Como, faceva l’acquaiola, e se quel mattino fosse rimasta a casa, non avrebbe visto sant’Orsola e le altre diecimilanovecentonovantanove vergini attraversare il paese, e non si sarebbe unita a loro. È stata l’ultima, ma non meno trucidata delle altre.
Eric si dispiace per santa Lobelia, poi la traversata arriva a Porta Palazzo, e sfioriamo un frammento di mercato periferico ma congestionato, frequentato soprattutto, mi sembra, da bambini abbastanza piccoli, che roteano come aranci caduti da una borsa, e nessuno li raccoglie. Mi guardano, speranzosi forse di potermi rubare il portafoglio, ma purtroppo per loro oggi tengo ben stretto il mio zaino.
– Ti sarebbe piaciuto fidanzarti con una santa? – chiedo a Eric, cercando di intravedere qualche chance per mia nipote, che non è santa ma ha un po’ quel fisico lí, sognante.
– Scherzi? Altroché. Non ci riusciva mai nessuno.
Inseguendo quest’improvviso afflato religioso, entriamo addirittura in una chiesa, nel primo tratto di corso Giulio Cesare. È la chiesa di San Gioacchino. Informo Eric che si tratta del papà della Madonna. La chiesa è molto grande e completamente vuota, tranne un signore anziano che accende candele elettriche a manetta, davanti a una statua di Maria. Ipotizziamo bisbigliando che si tratti di san Gioacchino in persona, venuto a rendere omaggio alla figlia. Mi viene un attimo di tristezza pensando che di sicuro nessuno piú chiama un figlio Gioacchino, e che questo nome sparirà. Torno allegra notando che la Via Crucis è enorme, monumentale, ogni stazione è grande come un film, le statue di legno sono colossali e se si animassero e ci attaccassero ci distruggerebbero senza sforzo. Immagino le persone enormi di legno che, dopo aver massacrato Eric, san Gioacchino e me, escono su corso Giulio Cesare e pestano i passanti.
Uscendo dalla chiesa avviene una cosa straordinaria, che potrebbe cambiare il senso di questa traversata. Che ci crediate o no, sembra inventato ma è vero, incontriamo mia nipote che esce da un portone. Ha anche lei delle scarpe da ginnastica ai piedi, però verde oliva, i capelli legati con un elastico, una giacca a righine e un enorme sacco nero dell’immondizia fra le braccia.
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– Ehi, zia! – urla. – Che ci fai qui?
– La traversata di Torino. Lui è Eric. Eric, lei è Porporina, mia nipote.
Lei neanche lo guarda, lo saluta distratta, scappa col suo enorme sacco nero, pieno di roba sporca che deve portare nella tintoria di sua madre. Lui neanche la guarda, la saluta distratto, tutto preso da uno stormo di mamme e bambine arabe, le mamme avvolte nei chador, le bambine vestite soprattutto di peluche rosa.
Quindi? A cosa è servito che la macchina inaffidabile delle coincidenze si sia messa in moto per me? A niente.
Facciamo tutto corso Giulio Cesare, che è lunghissimo, senza altre soste, tranne quando ci affacciamo al ponte sullo Stura e guardiamo dei ragazzini che fanno il bagno. Eric si sposta per rispondere al telefono, io resto lí, e i ragazzini mi chiamano agitando le braccia.
– Credo che volessero rapinarmi, – spiego a Eric quando torna.
Lui ride: – Sei fissata, prima i bambini del mercato, adesso questi. Perché pensi che tutti vogliano derubarti?
– Perché sono stata derubata moltissime volte, – spiego, un po’ stizzita.
Ecco, dopo l’incontro con Porporina sento che la stizzosità comincia a dominare in me. Sarò anche stanca, ormai è passato mezzogiorno e cammino da piú di quattro ore. Eric non mi è piú tanto simpatico, penso che sia vanitoso e incostante, e sinceramente non lo vorrei per mia nipote neanche se me lo regalassero. Sono stufa di attraversare Torino, non so come farò a tornare a casa quando arriveremo da Auchan, e mi chiedo perché non mi sono sposata, perché non ho vissuto una vita diversa, perché continuo a iscrivermi ai laboratori della Scuola Holden.
– Questo è l’ultimo laboratorio che ho fatto, – annuncio rabbiosa.
– È la fame che ti fa parlare cosí. Guarda, siamo arrivati. C’è Michele.
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Non lo conosco, questo Michele. È un amico di Eric, un po’ piú vecchio di lui.
Mangiamo tutti e tre al Flunch, e il mio umore migliora. Prendo insalatona, patate fritte, millefoglie allo zabaione. Eric fa vedere a Michele le riprese che ha fatto, e mi sembra di capire che vogliono ricavarne un video intitolato La traversata di Torino, in cui però si vedranno solo scarpe.
Sospiro contenta. Mi piace assistere quando i cervelli si mettono in movimento, e poi sembra di capire che Michele ci accompagnerà a casa in macchina. Sto ferma al sole, mangio, ascolto Eric e Michele che parlano e ridono, e le mie poche esigenze sono completamente soddisfatte.
Pazienza, per Porporina.
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Breve e nuova vita di Tigrino

Una sensazione strana della vita è quando ti muore un gatto sullo sterno.
Lo so perché l’ho provata, in settembre. Io mi chiamo Costanza, il gatto si chiamava Tigrino e aveva due mesi, dunque la sua vita è stata brevissima. Non stav...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Fiocco di Neve
  6. Il nostro capitano
  7. For absent friends
  8. L’Inghilterra meridionale aspetta il buio
  9. La traversata di Torino
  10. Breve e nuova vita di Tigrino
  11. Mambo Bar
  12. Arte
  13. Blu imperfetto
  14. Ave Verum
  15. Il primo miracolo di George Harrison
  16. Spigola
  17. La ragazza che piangeva in discoteca
  18. Alexa
  19. La Strega del Bosco va al Circolo dei Lettori
  20. Frescobaldi a Mirafiori Sud
  21. Santa Violetta
  22. Indice