Un uomo siede alla mia scrivania, nel mio ufficio dietro il tribunale. Non l’ho mai visto prima, ma i gradi sulla camicia azzurra mi dicono che è della Terza Divisione della Guardia civile. Accanto al gomito ha una pila di cartelle marroni chiuse da nastri rosa, ne tiene una aperta davanti. Riconosco quelle cartelle, sono i registri di cinquant’anni di tasse e tributi. È mai possibile che le stia esaminando? Che cosa cerca? Parlo: – Posso esserle di aiuto?
Mi ignora, e quanto ai due rigidi soldati che mi scortano, potrebbero anche essere di legno. Non penso nemmeno a protestare. Dopo le settimane passate nel deserto non mi riesce difficile tacere. E poi provo una vaga esultanza all’idea che la falsa amicizia tra me e la Terza Divisione stia per concludersi.
– Posso parlare con il colonnello Joll? – La butto lÃ. Non ho idea se Joll sia tornato.
Non mi risponde, continua a fare finta di leggere i documenti. È un bell’uomo, coi denti bianchi e regolari e grandi occhi celesti. Ma è vanitoso, penso. Me lo immagino seduto sul letto accanto a una donna: gonfia i muscoli e gode della sua ammirazione. Insomma, il tipo d’uomo che usa il suo corpo come una macchina, ignorandone i ritmi naturali. Quando, tra un attimo, mi guarderà , lo farà da dietro quella sua bella faccia impassibile, con quei suoi occhi chiari, come un attore dietro una maschera.
Alza lo sguardo dalla pagina. Proprio come pensavo. – Dov’è stato? – mi chiede.
– Sono stato via per un lungo viaggio. Mi spiace non essermi trovato qui quando lei è arrivato, per offrirle ospitalità . Ma ora che sono rientrato, quel che è mio è suo.
Dai gradi sulla camicia azzurra, vedo che è sottufficiale. Un sottufficiale della Terza Divisione. Che vuol dire? Cosà a naso: cinque anni passati a prendere a calci e a botte la gente, disprezzo per la polizia regolare e per i regolari processi di legge, odio per i modi civili come i miei. Ma forse lo sto giudicando ingiustamente; è tanto che manco dalla capitale.
– Lei ha proditoriamente complottato col nemico, – mi dice.
Finalmente! «Proditoriamente complottato»: parla come un libro stampato.
– Siamo in tempo di pace, qui, – dico, – non abbiamo nemici –. Una pausa. – A meno che non mi sbagli, – dico, – a meno che non siamo noi il nemico.
Non sono sicuro che mi capisca. – Gli indigeni sono in guerra con noi, – mi dice. Dubito che abbia mai visto un barbaro in vita sua. – Perché ha complottato con loro? Chi l’ha autorizzata a lasciare il suo posto?
Scrollo le spalle di fronte alla provocazione. – È una faccenda personale, – dico, – su questo deve fidarsi della mia parola. Non ho intenzione di discuterne. Riconosco solo che il posto di magistrato di un distretto non può essere abbandonato come quello di un portiere.
Cammino con una certa baldanza mentre le due guardie mi scortano in prigione. – Spero che mi permetterete di lavarmi, – dico. Mi ignorano. Non importa.
Conosco la ragione della mia esultanza: la mia alleanza con i custodi dell’Impero è finita. Mi sono messo contro, il legame è spezzato, sono un uomo libero. Chi non sorriderebbe? E tuttavia, che pericolosa allegria! Non dev’essere tanto facile la salvezza. E poi su che principio si basa la mia opposizione? Non sarà forse solo una reazione alla vista di uno dei nuovi barbari che usurpa la mia scrivania e fruga tra le mie carte? E quanto alla libertà che sto per buttare via, che valore ha per me? Mi sono davvero goduto la libertà totale di quest’ultimo anno, in cui, come non mai in passato, la mia vita è stata solo mia, da decidere momento per momento? Per esempio, la libertà di fare quello che volevo della ragazza, di farne una moglie, una concubina, una figlia, una schiava, o tutte queste cose insieme, o niente di tutto ciò, a mio piacimento, perché non avevo nessun dovere nei suoi confronti se non quello che di volta in volta sentivo? Chi non accoglierebbe con gioia la reclusione come liberazione da quella opprimente libertà ? Nella mia opposizione non c’è niente di eroico, questo non devo dimenticarlo neppure per un momento.
È la stanza della caserma che l’anno scorso hanno usato per gli interrogatori. Resto da una parte mentre portano via i materassi e le coperte dei soldati che ci dormivano e li ammucchiano sulla porta. I miei tre uomini, ancora sporchi e tutti stracciati, emergono dalla cucina e mi fissano. – Che state mangiando? – grido. – Portatemi qualcosa prima che mi chiudano dentro! – Uno di loro viene di corsa con la sua farinata di miglio macinato. – La prenda, – mi dice. Le guardie mi fanno cenno di entrare. – Un momento solo, – dico, – lasciate che mi porti le coperte, poi non vi darò piú noia –. Aspettano mentre io, godendomi un raggio di sole, divoro la farinata come un morto di fame. Il ragazzo col piede ferito mi si avvicina con una tazza di tè, sorridendo. – Grazie, – dico. – Non preoccuparti, non ti faranno niente, tu eseguivi solo gli ordini –. Con le mie coperte e la mia vecchia pelle d’orso sotto il braccio entro nella cella. Le macchie di fuliggine sono ancora sul muro dove prima c’era il braciere. La porta si chiude e piomba il buio.
Dormo tutto il giorno e tutta la notte, a malapena disturbato dal rumore dei picconi dall’altra parte del muro, dietro la mia testa, dal lontano sferragliare delle carriole e dalle grida degli operai. Nel sogno sono di nuovo nel deserto e arranco faticosamente nello spazio infinito verso una meta oscura. Sospiro e mi inumidisco le labbra: – Cos’è questo rumore? – chiedo alla guardia che mi porta da mangiare. Stanno buttando giú le case costruite lungo il muro meridionale della caserma, mi dice: amplieranno la caserma e costruiranno delle vere e proprie celle. – Ah, giusto, – dico, – era ora che il nero fiore della civiltà sbocciasse –. Non capisce.
Non ci sono finestre, solo un buco in alto sulla parete. Ma dopo un giorno o due i miei occhi si sono adattati all’oscurità e debbo schermarli con la mano, mattina e sera, quando spalancano la porta per darmi da mangiare. L’ora migliore è la mattina presto, quando mi sveglio e resto steso ad ascoltare il canto dei primi uccelli e guardo il quadrato in alto sulla parete, in attesa dell’istante in cui l’oscurità cederà il posto alla prima luce grigio tortora.
Mi danno le stesse razioni che danno ai soldati comuni. Ogni due giorni il cancello della caserma viene chiuso per un’ora e io posso uscire per lavarmi e camminare. Dall’altra parte del cancello ci sono sempre tante facce assiepate a bocca aperta di fronte allo spettacolo della caduta di uno che è stato potente. Tante di quelle facce le riconosco, ma nessuno mi saluta.
Di notte, quando tutto si ferma, escono gli scarafaggi in perlustrazione. Sento, o forse l’immagino, lo scatto corneo delle loro ali, lo zampettio veloce sul pavimento. Sono attratti dall’odore del secchio nell’angolo, dalle briciole di cibo sparse a terra e certamente anche da questa montagna di carne che emana i suoi diversi odori di vita e disfacimento. Una notte mi sveglia il passaggio leggero, come di una piuma, di uno di loro sulla gola. Da quel momento in poi mi sveglio spesso di scatto durante la notte, con la sensazione di un solletico, cerco di liberarmi dalle loro antenne che mi saggiano le labbra, gli occhi. È cosà che cominciano le ossessioni: attenzione.
Fisso tutto il giorno le pareti spoglie, incapace di credere che l’impronta di tutto il dolore, di tutta la degradazione che hanno racchiuso non si materializzi a uno sguardo attento. Oppure chiudo gli occhi e cerco di affinare l’udito per captare il suono lievissimo delle grida di tutti quelli che hanno sofferto qui e che ancora devono riecheggiare tra queste mura. Prego che un giorno queste mura vengano finalmente abbattute e l’inquieta eco possa essere finalmente liberata, anche se è difficile ignorare il suono cosà vicino dei mattoni messi uno sull’altro.
Aspetto con ansia l’ora della passeggiata, quando posso sentire il vento sul viso e la terra sotto i piedi, vedere altre facce e ascoltare la conversazione degli uomini. Dopo due giorni di solitudine le mie labbra sono flosce e inutili e la mia voce risuona strana alle mie stesse orecchie. Davvero l’uomo non è stato fatto per vivere solo! Costruisco le mie giornate assurdamente attorno alle ore del pasto. M’ingozzo come un cane. Una vita bestiale mi sta trasformando in una bestia.
E tuttavia è solo nei giorni vuoti, quando sono abbandonato completamente a me stesso, che riesco a concentrarmi profondamente sull’evocazione dei fantasmi racchiusi tra queste mura, fantasmi di uomini e donne che, dopo essere stati qui dentro, non volevano piú mangiare e non erano piú in grado di camminare senza aiuto.
Da qualche parte c’è sempre un bambino che viene picchiato. Penso a una che malgrado la sua età era ancora bambina, una che è stata portata qui dentro e torturata davanti agli occhi del padre, che ha assistito all’umiliazione del padre e ha visto che lui sapeva che lei vedeva.
O forse, arrivati a quel punto, lei già non ci vedeva piú bene e doveva aiutarsi a capire con altri mezzi: il tono che aveva preso la voce del padre quando li implorava di smettere, per esempio.
Arrivo sempre a un punto in cui mi rifiuto di immaginare i particolari di quello che è successo qui dentro.
Da quel momento lei non ha piú avuto padre. Suo padre era annichilito, era un uomo morto. Dev’essere stato allora, quando lei si è staccata da lui, che lui si è avventato addosso ai suoi aguzzini, se c’è qualcosa di vero nella storia che raccontano, e li ha graffiati come una bestia selvaggia, finché non l’hanno bastonato a morte.
Per ore, a occhi chiusi, sto seduto per terra al centro della stanza, nella tenue luce del giorno, e cerco di evocare l’immagine di quell’uomo che ricordo a malapena. Tutto quello che riesco a vedere è una figura di nome padre che potrebbe essere la figura di qualunque padre conscio che sua figlia viene picchiata e non la può proteggere. Non può fare il suo dovere nei confronti di una persona amata. E sa che per questo non sarà mai perdonato. Questa consapevolezza di padre, questa consapevolezza della condanna è troppo per lui, non la può sopportare. Non meraviglia allora che abbia desiderato morire.
Ho dato alla ragazza la mia protezione, offrendomi, nel mio modo equivoco, di farle da padre. Ma sono arrivato troppo tardi, quando lei aveva smesso di credere nei padri. Volevo fare quel che era giusto, riparare al male che le era stato fatto, non negherò questo dignitoso impulso, sia pure mescolato ad altre, piú discutibili motivazioni: ci dev’essere sempre uno spazio per fare penitenza e offrire riparazione. E però questo non toglie che non avrei mai dovuto permettere di aprire le porte della città per far entrare gente convinta che esistano considerazioni piú importanti di quelle dettate dalla dignità . Le hanno mostrato il padre nudo e l’hanno fatto farfugliare davanti a lei per il dolore. L’hanno torturata di fronte a lui e lui non ha potuto fare niente per impedirlo (quel giorno l’ho passato a sfogliare le mie pratiche in ufficio). Dopo, lei non è stata piú pienamente umana, sorella di tutti noi. Certi affetti erano morti, certi moti del cuore non erano piú possibili. Anch’io, se resto abbastanza tra queste mura con i fantasmi non solo della ragazza e di suo padre, ma anche dell’uomo che perfino sotto la lampada non si toglieva quei cerchietti scuri dagli occhi e di quel suo scagnozzo che aveva il compito di tenere acceso il braciere, anch’io sarò contagiato e mi trasformerò in un essere che non crede in niente.
Cosà continuo a volteggiare e a girare intorno alla figura irriducibile della ragazza, gettandole addosso una rete di significati dopo l’altra. Lei, appoggiata ai suoi due bastoni, guarda vagamente verso l’alto. Cosa vede? Le ali protettrici di un albatro custode, o la sagoma nera di un corvo vigliacco, che ha paura di colpire finché la sua preda ancora respira?
Anche se le guardie hanno l’ordine di non rivolgermi la parola, non è difficile mettere insieme una storia coerente dai brani di conversazione che sento quando esco in cortile. Ultimamente non si parla d’altro che dell’incendio lungo il fiume. Cinque giorni fa era solo una macchia piú scura sulla nebbia, a nord-ovest. Da allora ha camminato lungo il corso del fiume, spegnendosi a tratti ma poi riaccendendosi sempre e ora è ben visibile dalla città come un cupo sudario sul delta, laddove il fiume si butta nel lago.
Posso immaginare quel che è successo. Qualcuno deve aver deciso che le rive del fiume offrivano troppo riparo ai barbari e che il fronte fluviale sarebbe stato molto piú facile da difendere eliminando la vegetazione sulle dune. Cosà hanno appiccato il fuoco. Col vento che soffiava da nord le fiamme si sono propagate per tutta la bassa valle. Ne ho visti altri di incendi cosÃ. Il fuoco corre tra le canne e i pioppi bruciano come torce. Gli animali abbastanza veloci, come l’antilope, le lepri, i gatti, scappano. Stormi di uccelli volano via terrorizzati. Tutto il resto muore. Ma sono talmente tanti i tratti spogli lungo il fiume che il fuoco raramente si propaga. Dunque in questo caso è chiaro che ci dev’essere stata una squadra di uomini a seguire il fuoco, a controllarne l’avanzata. Non si preoccupano del fatto che una volta bruciata la vegetazione il vento comincia a corrodere il suolo e il deserto avanza. È cosà che la forza di spedizione contro i barbari si prepara alla sua campagna: distrugge la terra, devasta il nostro patrimonio.
Gli scaffali sono stati svuotati, spolverati e lucidati. Il piano della scrivania brilla per quant’è lucido ed è tutto sgombro, salvo per un piattino con dentro biglie di vari colori. La stanza è immacolata. In un angolo, su un tavolino, un vaso di fiori di ibisco profuma l’aria. Per terra c’è un tappeto nuovo. Il mio ufficio non è mai stato cosà bello.
Sto là ad aspettare con la guardia accanto, indosso gli stessi vestiti con cui ho viaggiato e la biancheria che ho lavato un paio di volte; ma la giacca ancora puzza di fumo per i fuochi di campo. Guardo il gioco della luce sui fiori di mandorlo fuori dalla finestra e sono contento.
Dopo una lunga attesa arriva, butta un fascio di fogli sulla scrivania e si siede. Mi fissa senza parlare. Sta cercando, anche se in modo un po’ troppo teatrale, di intimidirmi. L’attenta riorganizzazione del mio ufficio dal disordine e dalla polvere a questo perfetto e spoglio nitore, la lenta disinvoltura con cui attraversa la stanza, la contenuta insolenza con cui mi fissa, tutto questo ha un senso: non solo farmi capire che è lui che comanda (e come potrei contestarlo?) ma anche che sa come ci si comporta in un ufficio, sa perfino introdurvi una nota di funzionale eleganza. Perché mi ritiene degno di tanto sfoggio? Perché, malgrado i miei abiti sporchi e la barba incolta, sono pur sempre uno di una vecchia famiglia, per quanto caduto in basso e spregevolmente degradato? Ha paura forse che gli rida in faccia se non si arma di un certo decoro, scopiazzato, non ne dubito, dall’attenta osservazione degli uffici dei suoi superiori della Terza Divisione? Non mi crederà se gli dico che non importa. Devo stare attento a non sorridere.
Si schiarisce la gola. – Le leggerò qualcosa dalle deposizioni che abbiamo raccolto, magistrato, – dice, – cosà potrà rendersi conto della gravità delle accuse contro di lei –. Fa un cenno e la guardia lascia la stanza.
– Leggo da una: «La sua condotta in ufficio lasciava molto a desiderare. Le sue decisioni erano arbitrarie e chi faceva richiesta di udienza a volte doveva aspettare mesi prima di essere ascoltato. Non teneva una regolare contabilità » –. Posa il fascicolo. – Potrei aggiungere che è stato fatto un controllo dei registri contabili, controllo che ha confermato una serie di irregolarità . «Pur essendo il piú importante funzionario dell’amministrazione distrettuale, aveva contratto una relazione con una donna di strada, cui dedicava la maggior parte delle sue energie a discapito del suo lavoro. Quella relazione si ripercuoteva in modo negativo sul prestigio dell’amministrazione imperiale poiché la donna in questione era andata con i soldati comuni e figurava in parecchie storielle oscene». Non ripeterò le storielle in questione.
Ma mi lasci leggere qualche riga da un’altra deposizione. «Il primo di marzo, due settimane prima dell’arrivo del corpo di spedizione, diede ordine a me e ad altri due uomini (nominati) di prepararci per un lungo viaggio. Allora non ci disse dove dovevamo andare. Fummo sorpresi di scoprire che anche la donna barbara avrebbe viaggiato con noi, ma non facemmo domande. Eravamo sorpresi anche dai preparativi precipitosi, non capivamo perché non si potesse aspettare il primo disgelo per mettersi in viaggio. È stato solo al nostro ritorno che abbiamo capito che lo scopo del viaggio era quello di avvisare i barbari della campagna imminente… il primo contatto con i barbari avvenne verso il 18 di marzo. Lui si intrattenne in lunghe consultazioni con loro, consultazioni dalle quali noi fummo esclusi. Ci furono anche scambi di doni. A quel punto ci eravamo chiesti cosa avremmo fatto se ci avesse ordinato di passare dalla parte dei barbari ed eravamo arrivati alla conclusione che ci saremmo rifiutati e saremmo tornati per conto nostro… la ragazza è ritornata con la sua gente. Era pazzo di lei, ma a lei di lui non importava niente».
Ecco –. Posa i fogli con precisione, ne spiana gli angoli. Io resto in silenzio. – Le ho letto solo degli estratti, perché si potesse rendere conto dell’entità del problema. Non è molto edificante quando dobbiamo intervenire noi a sistemare le cose dell’amministrazione locale. Non sarebbe neppure compito nostro.
– Mi difenderò davanti a un tribunale.
– Davvero?
Non mi stupisce quello che fanno. So bene il peso che si può far assumere alle insinuazioni o alle sfumature e come sia facile porre le domande in modo da dettare le risposte. Finc...