La separazione del maschio
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La separazione del maschio

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La separazione del maschio

Informazioni su questo libro

Il maschio che parla in questo romanzo è un poligamo recidivo e impenitente, ma anche un padre capace di tenerezza e attenzione, un marito allegro e appassionato. Il sistema in apparenza è semplice, basta scomporre le giornate in segmenti, per cercare di vivere molteplici vite: frammenti di tempo, storie parallele, frazioni di felicità possibile. Per non parlare del sesso, che è un pensiero costante: un'ossessione e una consuetudine, un linguaggio, un modo per entrare in contatto con il mondo esterno.
Piú ancora della seduzione e della conquista, piú dell'amore che in forme diverse è parte fondamentale di ciascuna relazione.
Ascoltando il suo racconto ci ritroviamo a ridere, sorridere e pensare, e mentre inorridiamo delle sue malefatte siamo costretti a riconoscere quanta verità ci sia nelle sue parole.
Un romanzo scandaloso e disarmante come una confessione.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806202439
eBook ISBN
9788858401750

Uno

Qualche anno fa, a qualcuno è venuta l’idea di spruzzare della polvere di cacao nel cappuccino. Come se il cappuccino cosí com’era non bastasse piú. L’idea si è diffusa rapidamente. Dopo poco tempo, quando abbiamo ordinato un cappuccino, il barista ha cominciato a chiederci: un po’ di cacao?, con una specie di saliera obesa in mano, già in posizione, e bastava un cenno di assenso per veder ruotare l’angolazione di pochissimo e una spruzzata di cacao sarebbe piovuta sulla schiuma del nostro cappuccino. Io ho sempre risposto: no, grazie. Mi piaceva il cappuccino cosí com’era (mi bastava, appunto). Ma è evidente che siamo stati in pochi a dire no, visto che questa storia della spruzzata di cacao è dilagata come un’epidemia vertiginosa. A tal punto che è diventata un automatismo. Se vai in un bar e chiedi il cappuccino, te lo fanno e ti spruzzano il cacao dentro. Senza piú chiedertelo. Sei tu che devi dire che lo vuoi senza cacao. In poco tempo, l’evoluzione della polvere di cacao nel cappuccino è stata la seguente: prima non la mettevano; poi hanno cominciato a chiederti se potevano metterla; adesso devi essere tu a dire che non la vuoi. Sei costretto a stare in allerta fin dal primo momento, a non parlare piú con nessuno fino a quando il cappuccino non sia stato servito senza cacao, come richiesto – altrimenti vale la legge del silenzio-assenso. Non puoi piú fare colazione un po’ assonnato, perché ti ritrovi la polvere di cacao nel cappuccino.
Quando accade, me lo faccio sostituire; ma non basta. Mi innervosisco, la giornata parte male; mi viene una tensione muscolare dovuta al sopruso che fatico a sciogliere nelle ore successive. Chiedo con aria truce se per caso avevo chiesto il cacao, perché non mi sembrava di averlo chiesto. E vorrei dire: siete andati troppo in fretta, non tenete conto di chi fa qualche resistenza. Non tenete conto di me.
Quando Teresa se n’è andata, ci ho messo poco piú di un minuto a capirlo. Non c’era nessun segno visibile che fosse andata via, la casa era come tutte le volte quando torno dopo essere andato a prendere Beatrice a scuola. Qualche volta Teresa è in casa, qualche volta no. Beatrice ha urlato come sempre dall’ingresso: c’è qualcuno?, e non ha risposto nessuno. Ma il silenzio dopo la domanda di Beatrice, una specie di tensione che era rimasta nella casa vuota, un particolare buio nel corridoio nonostante fosse ancora giorno, ogni segno quotidiano era allo stesso tempo identico agli altri giorni e profondamente diverso. Non so come succede, ma le case mostrano subito una piccola cicatrice se qualcuno che è uscito ha deciso di non tornare. Cosí, ho capito subito. Beatrice no, direi. Capita spesso che torniamo a casa e lei urla: c’è qualcuno? – e non c’è ancora nessuno. Sono tornato in camera sua e con calma le ho chiesto cosa volesse per merenda e ho ottenuto che mangiasse dei biscotti cosí non dovevo prepararle nulla. Le ho dato i biscotti. Poi ho aperto l’armadio per guardare; ma se Teresa non fa come nei film, dove quelli che se ne vanno prendono tutti i vestiti che c’erano e lasciano l’armadio completamente vuoto, io non so se ne ha preso soltanto qualcuno. Eppure, ormai ero sicuro che se ne fosse andata.
La prima cosa che ho fatto, quando ho capito, è stata prendere il telefonino, cercare nella rubrica il nome di Andrea e avvertirlo in tempo per permettergli di trovare un sostituto, altrimenti si sarebbero trovati in campo con uno in meno, una cosa spiacevole nelle partite di calcetto, capace di rovinare la serata, perché stanno un sacco di tempo ad aspettare che arrivi, poi provano a chiamarti, alla fine si arrendono e cercano inutilmente un sostituto sul posto; cosí la tua squadra deve giocare con uno in meno e la partita viene snaturata: tutti giocano in modo svogliato, distratto, malinconico.
Solo dopo ho provato a chiamare Teresa. Ma il telefonino era staccato.
Fino a quando l’infermiera non mi ha allungato Beatrice avvolta in una coperta azzurra, un minuto dopo che era nata, non avevo mai preso un neonato in braccio. Un attimo prima non hai mai fatto un gesto – ed è qualcosa di piú di non saperlo fare; un attimo dopo lo fai e scopri che lo sai fare benissimo. È tua figlia, quindi tu automaticamente sai essere suo padre. Se uno sapesse che tutto ciò che accade ha una sua potenza naturale alla quale ci si adatta senza consapevolezza e senza preparazione, se uno sapesse che senza fare nulla è all’altezza del compito che gli è stato dato, affronterebbe la vita in modo diverso. Forse è per questo motivo che non deve saperlo.
Stavo lí, con Beatrice in braccio, credevo che sarei stato in imbarazzo e invece no. La guardavo e la cosa eccezionale è che non mi sembrava eccezionale. Avevo in braccio mia figlia: del resto, era mia figlia.
La prima notte, abbiamo dormito tutti e tre in una stanza dell’ospedale, spoglia ma accogliente. Io dormivo e mi svegliavo di continuo. Vedevo Teresa che allattava Beatrice e chiedevo: tutto bene? E Teresa, per non disturbarla, mi sorrideva e faceva un cenno di assenso, ma molto convinto, che era un modo per dire: benissimo. Allora io restavo a guardarle e mi chiedevo: di cosa ha bisogno un essere umano appena nato? Di mangiare. Non ha bisogno di altro. E Teresa le stava dando da mangiare, cioè rispondeva immediatamente con la soddisfazione dell’intero bisogno di Beatrice. Quindi stava andando davvero benissimo. Alla fine, infatti, gli occhi socchiusi di Beatrice raccontavano di una beatitudine assoluta che avrei visto ancora poche settimane, poi mai piú. Per poche settimane avrebbe avuto bisogno di mangiare e di dormire e di nient’altro, e avrebbe mangiato e dormito e nient’altro. Sarebbe stata felice al cento per cento. Dopo qualche settimana, sarebbe diventata come tutti noi: molto felice o molto triste, un po’ felice o un po’ triste, ma la felicità assoluta, il riempimento di tutte le caselle della felicità, quello non l’avrebbe ottenuto piú.
Mi addormentavo, poi mi svegliavo. Ogni volta che mi svegliavo, quella notte, ero piú cosciente del fatto di essere diventato padre, di avere una figlia. È stato durante la notte che mi è diventato chiaro di essere molto felice – non felice al cento per cento come si può essere quando si ha solo bisogno di mangiare o di dormire; ma quasi. In quel momento, ero quasi come Beatrice: volevo solo che andasse tutto bene, e la risposta era che stava andando benissimo.
Al mattino, quando avevo già chiesto venti volte a Teresa se era tutto a posto, lei mi ha detto: perché non vai a fare colazione? Ho sceso le scale dell’ospedale e ho camminato per strada cosciente che fosse la prima mattina della mia vita in cui scendevo le scale e camminavo per strada in qualità di essere umano diventato padre. Avevo un sorriso scemo che non avrebbe avuto intenzione di andarsene per molti giorni, e la gente che mi incontrava poteva illuminarsi in sintonia con il mio sorriso o chiedersi che cazzo c’avevo da ridere. In ogni caso lo notava, glielo leggevo negli occhi.
È con questi presupposti che sono entrato nel bar piú vicino all’ospedale e ho ordinato un cappuccino e un cornetto alla crema con gli occhi febbrili di felicità, della voracità verso qualsiasi cosa ci fosse al mondo, anche un cappuccino e un cornetto. Ho ordinato la mia prima colazione in qualità di padre di una figlia a cui tutto andava benissimo e sentivo ogni singola cosa, avevo percezione potente e profonda delle mie mani, del braccio che ha indicato il cornetto alla crema, della voce che ha ordinato il cappuccino; come se tra le mani, le braccia, la voce e me non ci fosse nessuna distanza. Aderivamo alla perfezione.
Il barista ha preparato piattino e cucchiaino, poi mi ha messo davanti il cappuccino. C’era sulla superficie della schiuma una evidente spruzzata di cacao. L’aveva fatto con abilità, addirittura accanto alla macchina del caffè, di spalle, coprendosi col corpo.
Davanti al cappuccino macchiato di granelli marroncini, il neopadre felicissimo di una bambina bellissima e che stava benissimo si è innervosito. Nello stesso modo in cui mi sono innervosito tutte le altre volte che qualcuno mi ha spruzzato il cacao nel cappuccino.
Non di meno, non di piú. Uguale.
Mi è venuta quella tensione muscolare che ho faticato a sciogliere nelle ore successive. Ho serrato le mascelle e ho detto con aria truce se per caso avevo chiesto il cacao, perché non mi sembrava di averlo chiesto.
Era la mattina in cui sono stato piú felice di quanto fossi mai stato da molti anni e di quanto sarei mai stato per molti anni successivi. E ho provato lo stesso identico moto di nervi di tutte le altre colazioni della mia vita, da quando non ti chiedono nemmeno piú se il cacao lo vuoi o no. Però, dopo, mentre mi rassegnavo per sempre a me stesso, ho provato anche sollievo: mi sentivo mostruoso e allo stesso tempo sentivo che non era un segnale soltanto negativo.
Teresa se ne era appena andata, e io me ne rendevo conto in quella ora strana tra il pomeriggio e la sera che, già a prescindere dagli accadimenti, mi debilitava per la malinconia. Da quando ero piccolo fino a oggi, ogni giorno, a quell’ora, continuo a sentire la musichetta straziante dell’Almanacco del giorno dopo, come se il televisore la mandasse in onda ancora, tutte le sere. Non posso farci niente: appare nella testa, come un orologio, a bassissimo volume, come se non ci fosse. Ma c’è. Qualche volta sento una voce di donna che la accompagna, una voce grave, studiata, che scandisce il nome del santo del giorno dopo, dice che domani è san Basilio e Basileo martiri e che il sole sorge alle sei e quarantacinque e tramonta alle diciotto, che la luna si leva alle venti e quattordici e cala alle sette e nove minuti; parla della stella Sirio, la piú brillante del firmamento, che d’estate brilla nel primo mattino e secondo gli astronomi del celeste impero, quando la stella Sirio spargeva i suoi raggi sul mondo, bisognava aspettarsi furti e rapine; poi c’è di nuovo la musichetta e compare la scritta «Domani avvenne» e qualcuno racconta che lo stesso giorno di tanti anni fa nacque un famoso pittore o morí un grande musicista. Alla fine di tutto la voce si congeda con una massima o un proverbio, e mi rimane nella testa quella che ho sentito una volta che ero piccolo ed ero solo in casa e la voce disse in modo definitivo: «Non si vive neppure una volta». E poi partí di nuovo la musichetta, con la scritta: fine.
L’evoluzione del mio rapporto con la musichetta dell’Almanacco del giorno dopo è stata la seguente: un tempo mi chiedevo quando sarebbe sparita; poi se sarebbe sparita; adesso la sento arrivare e aspetto che finisca, intanto che la tristezza mi sovrasta.
Con la musica dell’Almanacco del giorno dopo in sottofondo, mi sono steso sul letto, giusto per cercare di mettere a fuoco cosa dovevo fare. Non posso dire che me l’aspettavo, anche se lo temevo praticamente dal giorno in cui io e Teresa eravamo andati a vivere insieme. Però se l’ho capito subito, mi dicevo, qualcosa significherà. In fondo, da un momento all’altro avrei potuto sentire la chiave girare e Teresa che tornava, come le altre sere. Ma sapevo con certezza che non sarebbe successo. Ho pensato che da quel momento in poi, dalla sigla dell’Almanacco di quella sera, avrei potuto non essere piú un uomo sposato, e la prima risposta che si è materializzata nella mia testa è stata la seguente: posso finalmente scoparmi Alessandra. Lei ne avrebbe voglia, ma ha sempre detto che è amica di Teresa e quindi non si può. Una volta ci siamo baciati, su questo letto, quando non c’era nessuno e credevo che avremmo scopato. Mi ha ficcato in gola una lingua lunga e grossa – che non sembrava cosí lunga e grossa quando la teneva dentro la bocca – e l’ha agitata con frenesia spingendo con le labbra fino a soffocarmi quasi, tanto che io la allontanavo con delicatezza come per volerla guardare negli occhi, ma era solo per avere il tempo di prendere ossigeno. Quando ho cominciato a sbottonarle la camicetta mi ha detto, senza fermarmi e senza smettere di baciarmi ogni tanto, che aveva una grande voglia di fare l’amore con me, che ci pensava da non sai quanto – anche io, dicevo io – ma non poteva, non ce la faceva, si sentiva in colpa. Teresa era la sua migliore amica. Era davvero impossibile. Era cosí sincera, che smisi di sbottonarle la camicetta.
«E se un giorno mi lascio con Teresa?» dissi per sdrammatizzare – so sdrammatizzare qualsiasi situazione (se inventassero questo mestiere, «lo sdrammatizzatore», potrei farlo e lo farei benissimo, potrei essere uno dei migliori, e potrei in seguito insegnarlo).
Lei, alzandosi, rispose: «Scopiamo il giorno dopo».
«Promesso?»
«Promesso».
Era sincera.
Quindi, pensavo adesso, domani potrei già scopare con Alessandra. Questa possibilità mi dava sollievo, anzi in verità mi dava un’ebbrezza e un senso di onnipotenza tali che la musica dell’Almanacco del giorno dopo era sparita – ma forse era semplicemente finita. In ogni caso, l’idea di scoparmi Alessandra mi distraeva ancora da quello che sarebbe successo. E in ogni caso, non si vive neppure una volta.
Le persone danno troppa poca importanza ai mutamenti della vita quotidiana, a come le cose che ci circondano si trasformano o resistono al tempo. Credono che ci si debba distrarre dalle incombenze pratiche, dalle stupidaggini, concentrarsi sulla grandezza dei sentimenti, su ciò che si può valutare in modo piú ampio, che nella sostanza è solo generico. In una storia d’amore lunga, finiscono per contare le somiglianze e le divergenze quotidiane, piú dei grandi principî. All’inizio, i grandi principî sono una saldatura potente, costituiscono il ponte per il passaggio da un innamoramento a un amore serio, meno passionale, casomai, ma concreto, compiuto. Devono esserci delle complicità serie, per vivere un anno intero insieme, anno dopo anno. Però poi sono i piccoli movimenti quotidiani che determinano un logoramento. Se per esempio mi fermavo con la macchina per far scendere Teresa, in mezzo alla strada e con le altre auto dietro, il tempo tra la sua decisione di scendere e l’effettiva discesa dalla macchina era di una lunghezza enorme, un tempo di reazione lentissimo che non riuscivo a comprendere. Se le dicevo: fai presto – si scandalizzava, come se fossi un nevrotico pazzo che andava sempre di fretta. E cominciava con molta calma a recuperare la borsa e a cercare l’apertura dello sportello. Dietro si spazientivano e suonavano il clacson, ma sembrava che lo facessero con un particolare tipo di ultrasuoni, che potevo sentire solo io, non lei. In quei momenti ho sempre pensato: come mi piacerebbe non vivere con lei, non essere costretto ogni volta ad assistere a questa lentezza. Com’è ovvio, avevo anche cominciato a credere, piú esattamente a essere sicuro, che lo facesse apposta a rallentare sempre di piú.
Ecco: se Teresa ci mette troppo tempo a scendere dalla macchina, io provo un rancore che poi se ne va, ma se questo rancore compare tutti i giorni o piú volte al giorno, poi non se ne va piú tanto facilmente, rimane, e le grandi complicità vengono minate dalle fondamenta. La cosa piú spaventosa da immaginare, è che i piccoli movimenti quotidiani rappresentano qualcos’altro, sono la sineddoche della complessità. È come se gli anni interi si sciogliessero prima nei mesi, poi nelle settimane, nei giorni e infine in ogni singola ora, in ogni singolo gesto. So che è il nervosismo, un senso di fastidio, a far uscire fuori un sacco di roba che non ti aspettavi, che non sapevi di avere coltivato.
Piú tardi, ho trovato il telefonino di Teresa in cucina. Era spento. Ho provato ad accenderlo, ma c’era il codice di accesso e non lo conoscevo. L’ho lasciato dove l’avevo trovato. Beatrice mi ha chiesto di giocare, le ho risposto che avevo da fare.
«Allora mi vedo i cartoni».
Se qualcuno non può giocare con lei, pensa di avere immediatamente diritto di guardare la televisione. In qualche modo, la lotta sottile per tenere sotto controllo il rapporto con la televisione, sta finendo per rivoltarcisi contro. Abbiamo costruito centinaia di alternative valide, io e Teresa e tutti gli altri genitori, in fondo non ci siamo quasi occupati di altro; il risultato finale è che un bambino dice sempre: allora datemi una ragione molto buona per non guardarla.
«Mamma è partita», le dico.
«Non me l’ha detto», risponde distratta.
«È dovuta andare all’improvviso».
«E quando torna?»
«Presto».
«Stasera?»
«No. Tra un paio di giorni».
«Allora ci facciamo le uova strapazzate, stasera?»
«Certo», le dico convinto.
E ha acceso la tivú, come se le avessi detto che poteva farlo.
Poi è squillato il telefono. Era la madre di Teresa. La madre di Teresa chiama tutte le sere prima di cena. Tutte le sere, nessuna esclusa. Chiamerà tutte le sere fino a quando morirà. In questo momento, il pensiero che io e Teresa ci stavamo lasciando mi dava sollievo, perché non avrei piú dovuto assistere a questa telefonata puntuale, ogni sera. Oltre al fatto di potermi in teoria scopare Alessandra già domani pomeriggio, allo scadere delle ventiquattro ore.
Le rispondo che è partita, che non so quando torna, che ha dimenticato il telefonino a casa e che di sicuro si farà sentire. Spero che lo faccia, altrimenti sua madre mi sfracasserà le palle chiamandomi piú volte al giorno per chiedere come mai Teresa non la chiama. Lei pensa sempre che sia successo qualcosa di tragico. Quando era vivo suo marito, pensavano tutti e due all’unisono che nel mondo stesse accadendo qualcosa di tragico a tutte le persone a cui volevano bene. Lascerò che il livello di tensione si alzi, se Teresa non torna entro un paio di giorni, cosí quando dirò la verità, e cioè che se n’è andata perché ci stiamo lasciando, lei accoglierà la notizia con sollievo, visto che ormai sarà convinta che l’abbiano assassinata e fatta a pezzettini. Se questa operazione funziona, pensavo, potrei riuscire addirittura a farle dire: tutto qui?
Mi ripassavo a mente tutti gli altri motivi per cui avrei potuto essere sollevato se Teresa se n’era andata per sempre: posso dormire d’estate passando da un cuscino all’altro per trovare sempre una parte del letto piú fresca, e in ogni caso posso divaricare le gambe quanto mi pare; posso leggere il giornale la mattina, senza il timore che se lo prenda lei per prima; posso smettere di chiedermi se devo preparare la macchinetta del caffè piccola o grande, la mattina presto, perché non so se si sveglierà anche lei o se si sveglierà piú tardi – e posso smettere quindi di avere la sensazione che lo faccia apposta a svegliarsi quando faccio il caffè solo per me e a chiedermelo dal letto oppure a non svegliarsi quando lo faccio per tutti e due e piú tardi glielo debbo rifare. Posso avere il telecomando sempre in mano e decidere cosa vedere; posso guardare i dvd che noleggiamo fino alla fine e non continuare il giorno dopo perché lei si è addormentata; può finire la tortura al ristorante quando mi chiede di prendere due pietanze diverse e di fare un po’ per uno; posso smettere di temere che apra il rubinetto della cucina mentre sono sotto la doccia e che non mi senta quando urlo a squarciagola chiudi!; posso smettere di arrivare al cinema e a teatro all’ultimo secondo e sentirla dire per tutta la serata «Vabbe’, quanto sei ansioso, lo vedi che siamo arrivati in tempo?»; posso telefonare quanto mi pare, uscire quando mi pare, e ovviamente scopare con chi voglio e quando voglio senza il timore di essere scoperto.
Quando ho messo la padella sul fuoco e tenevo le uova in mano pronto per romperle, buttarle dentro e strapazzarle, mi sono ricordato di Dustin Hoffman in Kramer contro Kramer. È sempre rassicurante somigliare a qualcuno che alla fine fa tutto nel modo giusto. Il mio lavoro consiste nello stare ore e ore in una sala buia davanti a un monitor e montare le scene di un film, che vuol dire passare quasi tutto il tempo di una giornata ad andare avanti e indietro su una stessa scena, alle volte sugli stessi fotogrammi. Sarà per questo che penso spesso che vorrei fare un sacco di cose che vedo fare nei film e che mi piacciono molto: parlare con la sigaretta tra le labbra e gli occhi semichiusi contro il fumo, oppure mangiare con la stessa golosità la zuppa di fagioli che mangiano nei western; ho provato ogni tanto a fare come nei film francesi, quando una coppia sorseggia un vino prima di cena mentre chiacchiera di molte cose: uno cucina, l’altro versa del vino e stanno lí, in piedi, a parlare. Nei film le persone si comportano in un modo diverso dalla vita vera, piú intenso e preciso; non sono reticenti e si occupano poco di cose pratiche: si parlano, si spiegano, capiscono, riescono a dire che sono cambiati e in che modo, dicono è vero hai ragione e non mi comporterò piú cosí, chiedono se saranno amati per tutta la vita e sono lí non solo a vivere ma anche a riflettere sulla vita, a cercare di capire che vita intendono vivere. Mi piacerebbe molto riuscire a comportarmi cosí, come fanno nei film.
Tornavo a casa e se Teresa stava cucinando, ne approfittavo subito: aprivo il frigo, prendevo il vino ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Uno
  5. Due
  6. Tre
  7. Indice