II.
L’ultimo brandello di giorno si sbriciola come un avanzo di torta tra dita maldestre; scende la sera e la catena degli allievi rallenta il ritmo. Intanto le pause tra una lezione e l’altra si fanno sempre piú frequenti: l’insegnante va in bagno e di nascosto sbocconcella un panino imbottito che rimpacchetta ogni volta accuratamente. Di sera vengono a lezione gli adulti che hanno lavorato sodo tutto il giorno per permettersi il lusso di studiare musica. Quelli che vogliono diventare dei veri professionisti, per lo piú insegnanti della materia che ancora stanno studiando, frequentano i corsi diurni, non hanno altro che la musica, loro. Sono assolutamente decisi ad acquisirne in breve tempo una padronanza perfetta, senza lacune, per poter sostenere con successo l’esame di stato. Di solito si fermano anche dopo la lezione per ascoltare i compagni e criticarli a fondo, d’intesa e a quattr’occhi con la signora prof. Kohut. Sono talmente spudorati da correggere gli errori altrui, quando loro sono i primi a incapparvi. Certo, ascoltano spesso la musica, ma non riescono a sentirla nell’intimo né a imitarla. Di notte, dopo l’ultimo allievo, la catena scorre all’indietro, per rimettersi nuovamente in cammino l’indomani dalle nove in poi, con candidati freschi appesi agli anelli. I denti delle ruote scattano girando, i pistoni si prendono a botte, le dita vengono messe in funzione e poi di nuovo bloccate. Ecco, si sente qualche suono.
Si sono già avvicendati tre Sudcoreani da quando il signor Klemmer, seduto sulla sua sedia a braccioli, tenta con cautela di avvicinarsi alla sua insegnante, millimetro dopo millimetro. Di colpo lei se lo ritroverà dentro, senza essersi accorta di niente. E pensare che fino a pochi minuti prima era ancora alle sue spalle, a una certa distanza. I Coreani capiscono lo stretto necessario del tedesco e vengono subissati di giudizi, pregiudizi e rimproveri in inglese. Il signore Klemmer parla alla sig.na Kohut nella lingua internazionale del cuore. Con la loro tipica aria imperturbabile, gli orientali suonano l’accompagnamento, insensibili all’alternanza tra il piano e il forte dell’insegnante ben temperata e dell’allievo che anela all’assoluto.
Erika parla in una lingua straniera dei peccati commessi contro lo spirito di Schubert – i Coreani devono sentire, non imitare pedissequamente un disco di Alfred Brendel, perché comunque Brendel suonerà sempre molto meglio di loro! Senza esser stato interpellato o invitato a prendere la parola, Klemmer interviene per dissertare sull’anima dell’opera musicale, che non può mai essere completamente fugata! Eppure c’è gente capace anche di questo! Farebbero meglio a starsene a casa, se non sono capaci di sentire. Non troverà certo un’anima in quell’angolo della stanza, cosí l’allievo modello schernisce il Coreano. A poco a poco riacquista la calma e sentenzia assieme a Nietzsche, con cui sa d’essere tutt’uno, di non sentirsi abbastanza felice e sano per la musica romantica (compreso Beethoven, che include nel mazzo). Klemmer scongiura l’insegnante di voler cogliere dal suo meraviglioso modo di suonare tutta l’infelicità, la malattia che lo consuma. Quel che ci vuole è una musica capace di farci dimenticare il dolore. La vita animale! deve sentirsi divinizzata. L’uomo vuol danzare, trionfante. Ritmi semplici, sfrenati, armonie tenere, dorate, niente di piú e niente di meno chiede il filosofo dell’ira che esplode contro tutto quanto è piccolo e meschino, e Walter Klemmer si associa alla richiesta. Quand’è che vive veramente, Erika?, domanda l’allievo, e accenna al fatto che di sera ci sarebbe tempo a sufficienza per la vita, basta saperselo prendere. Metà del tempo spetta a Walter Klemmer, l’altra metà resta a sua disposizione. Invece lei se ne sta sempre rintanata in casa insieme a sua madre. Eppure le due donne non fanno altro che inveire l’una contro l’altra. Klemmer parla della vita come si trattasse dell’uva moscata, color oro, che la padrona di casa dispone sul vassoio perché l’ospite possa mangiarla anche con gli occhi. Timoroso, stacca un chicco, poi un altro, finché resta solo un raspo spennacchiato e sotto, in libera improvvisazione, un mucchietto di acini.
I contatti casuali sono una minaccia per questa donna le cui doti spirituali e artistiche tutti ammirano. Forse la minaccia incombe dall’alto, sopra i capelli, oppure alle spalle, coperte dalla giacchina di lana sbottonata. La poltrona dell’insegnante si sposta in avanti, il punteruolo penetra a fondo e pesca un ultimo rimasuglio di contenuto dal principe viennese dei lieder, che al giorno d’oggi fa sentire la sua voce solo al pianoforte. Il Coreano fissa con gli occhi sgranati lo spartito acquistato in patria. Tutti quei punti neri rappresentano per lui una sfera culturale completamente estranea al suo mondo, di cui potrà far sfoggio una volta tornato a casa. Klemmer ha abbracciato la causa della sensualità, l’ha incontrata persino in musica! L’insegnante, la noia fatta persona, consiglia di acquisire una solida tecnica. La mano sinistra dell’allievo non riesce ancora a stare al passo con la destra. Esiste un esercizio specifico per le cinque dita che serve a portarle allo stesso livello e a raggiungere una completa indipendenza delle due mani. Le sue, invece, sono in eterno conflitto, come il saccente Klemmer è eternamente in contrasto con il mondo. Per oggi il Coreano è congedato.
Erika Kohut avverte un corpo umano alle spalle e rabbrividisce. Che non le venga tanto vicino da sfiorarla! Lui fa qualche passo avanti e indietro, per dimostrare che sta vagando senza meta. Alla fine, tornando sui suoi passi, viene catturato di straforo dal suo sguardo, mentre muove a scatti il capo come un piccione, con occhi maligni, il giovane volto malvagio fermo nel cono di luce della lampada, nel punto piú luminoso – in quel momento Erika diventa piccola piccola e si prosciuga. L’involucro esterno sguiscia privo di peso intorno al suo nucleo terrestre compresso. Il suo corpo cessa d’essere carne e qualcosa si scaglia su di lei divenendo a sua volta concreto. Un tubo cilindrico di metallo. Un apparecchio molto semplice, usato per sfondare e penetrare. E l’immagine sfavillante dell’oggetto Klemmer viene proiettata dentro la cavità del corpo di Erika e riflessa capovolta sulla sua parete interiore. L’immagine è nitida nella sua mente, e nell’istante in cui l’uomo è diventato per lei un corpo che si può toccare con mano, ha conservato tuttavia qualcosa di assolutamente astratto, ha perso la propria carne. Nel momento in cui sono diventati un corpo l’uno per l’altra, hanno rotto tutti i rapporti umani che intercorrevano tra di loro. Non ci sono piú nemmeno messaggeri da inviare con ambasciate, lettere, simboli. Né un corpo afferra l’altro, ma diventa solo un mezzo, l’attributo dell’alterità in cui si vorrebbe dolorosamente penetrare, e quanto piú ci si spinge dentro, tanto piú il tessuto della carne imputridisce, diventa leggero come una piuma, vola via da questi due continenti estranei e ostili che cozzano l’uno contro l’altro e poi sprofondano insieme, ormai ridotti a un’impalcatura cigolante con qualche brandello di schermo ancora attaccato, che al solo sfiorarlo si stacca e si polverizza.
Il volto di Klemmer è liscio come uno specchio, intatto. Quello di Erika comincia a mostrare i segni della futura decomposizione. La pelle si raggrinza in numerose pieghe, le ciglia si curvano appena come un foglio di carta a contatto con una fonte di calore e il delicato tessuto sotto gli occhi diventa rugoso e bluastro. Poco sopra la radice del naso, due solchi che non si potranno mai piú cancellare, nemmeno col ferro da stiro. Esternamente la faccia è diventata troppo grande, un processo destinato a durare ancora molti anni, finché poi la carne sotto la pelle si riassorbe, scompare del tutto e la pelle si abbraccia stretta al teschio che non la scalda piú. I fili bianchi tra i capelli, nutriti da linfe stantie, si moltiplicano incessantemente e formano orribili nidi grigi dove non c’è nulla da proteggere e da racchiudere, nulla da covare; Erika non ha mai racchiuso né riscaldato nulla dentro di sé, neppure il proprio corpo, però si lascerebbe racchiudere volentieri. Lui deve desiderarla con ardore, inseguirla, distendersi ai suoi piedi, deve averla continuamente nei propri pensieri, senza via di scampo. Erika compare di rado in pubblico. Anche per la madre è stato cosí tutta la vita, non si faceva vedere molto spesso in giro. Loro due restano tra le quattro mura domestiche e non desiderano essere importunate da visitatori. Cosí uno evita di consumarsi. Del resto, mai nessuno ha offerto gran che le rare volte in cui le signore Kohut si sono presentate in pubblico.
Il declino bussa alla porta di Erika con dita guizzanti. Malattie del corpo non bene identificate, disturbi di circolazione alle gambe, dolori reumatici, artriti prendono sempre piú il sopravvento dentro di lei. (Sono malattie che i bambini non conoscono. Anche Erika non le conosceva finora). Klemmer, un opuscolo informativo sul canottaggio e i suoi effetti benefici sulla salute, squadra l’insegnante come volesse farla impacchettare e portarla via o, se possibile, mangiarla in piedi dentro il negozio stesso. Forse questo è l’ultimo che mi desidera, pensa Erika furibonda – e ben presto sarò morta, mancano appena trentacinque anni, riflette Erika con rabbia. Presto, meglio saltare sul treno subito perché, una volta morta, non sentirò piú suoni, né odori, né sapori, niente di niente!
I suoi artigli graffiano i tasti, i piedi raspano per terra senza scopo, imbarazzati, le mani tastano e pizzicano il corpo esitanti: l’uomo fa innervosire la donna e la priva del suo sostegno, la musica. A quest’ora la madre l’aspetta di già a casa. Guarda l’orologio della cucina, l’inesorabile pendolo che tra una mezz’ora, al piú tardi, scandirà con il suo ticchettio il ritorno a casa della figlia. La madre, però, che del resto non deve pensare a procacciarsi il cibo, preferisce mettersi sin da ora in attesa di provviste. Magari un giorno Erika potrebbe inaspettatamente arrivare in anticipo, nel caso mancasse un allievo, e allora la madre non sarebbe pronta ad accoglierla.
Erika sta infilzata sullo sgabello del pianoforte e contemporaneamente è attratta verso la porta. La potente spinta della quiete casalinga, intrecciata solo al rumore della televisione, punto d’inerzia e immobilità assolute, si trasforma dentro di lei in un dolore fisico. Klemmer deve sparire una buona volta! Cos’ha da parlare e parlare, mentre a casa l’acqua continua a bollire e presto il vapore farà ammuffire il soffitto della cucina.
page_no="113" Klemmer rovina nervosamente il parquet con la punta della scarpa e soffia via come anelli di fumo le piccole, importantissime verità del tocco pianistico, mentre la donna dentro di sé desidera solo tornare a casa. Lui chiede: cos’è che crea il timbro in realtà? e si risponde da solo: il tocco pianistico. Con un profluvio di parole, dalla sua bocca si scarica l’indistinto e incomprensibile residuo di suoni, colori, luce. No, quella di cui lei parla non è la musica che io conosco, stride Erika, il grillo casalingo che vuole tornarsene una buona volta al caldo focolare domestico. Invece sí, è questo e nient’altro, prorompe il giovanotto. L’imponderabile, l’incommensurabile è per me l’unico criterio artistico, dice Klemmer e con ciò contraddice l’insegnante. Erika chiude il coperchio del pianoforte e riordina le sue cose. Il giovane, dentro uno scomparto del proprio animo, si è appena imbattuto nello spirito di Schubert e sfrutta al volo l’occasione. Quanto piú lo spirito di Schubert si dissolve in fumo, odore, colore, pensiero, tanto piú il suo valore si pone al di là del descrivibile. Diventa qualcosa di titanico, di sublime, che nessuno riesce a comprendere. L’apparenza viene decisamente prima dell’essenza, afferma Klemmer. Sí, la realtà è forse uno degli errori piú grossolani in assoluto. La menzogna, perciò, ha la precedenza sulla verità, deduce il giovanotto dalle sue stesse parole. L’irreale viene prima del reale. E cosí l’arte ci guadagna in qualità.
Il piacere di cenare nell’intimità domestica, questa sera rinviato suo malgrado, è il buco nero per la stella Erika. Lo sa, quest’abbraccio materno la divorerà completamente e la digerirà, eppure l’attrae quasi per magia. Le sue guance si imporporano e l’uomo si sente rafforzato nella propria postazione. Klemmer deve mollarla e schiodarsi da lí. Neppure un granello di polvere delle sue scarpe dovrà ricordarle la sua persona. Sogna di stringerlo a sé in un lungo, ardente amplesso, e una volta concluso quell’amplesso, di respingerlo con gesto regale, degno di una donna grandiosa e formidabile come è lei. Klemmer non è mai stato cosí deciso come adesso a non lasciarla andare, prima deve assolutamente spiegarle che può apprezzare le sonate di Beethoven solo a partire dall’op. 101. Perché solo allora si sciolgono, va farneticando, fluiscono l’una nell’altra; i singoli movimenti si appianano, sfumano ai margini, non sono piú rigorosamente contrapposti – Klemmer continua a inventare. Spreme fino all’ultimo i suoi pensieri e le sue sensazioni e tiene ben stretta l’estremità perché la carne insaccata non trabocchi dalla salsiccia.
Per dare una nuova piega al discorso, signora professoressa, devo dire inoltre, e lo preciserò meglio tra un istante, che l’uomo raggiunge la sua dimensione piú alta quando si lascia alle spalle la realtà per entrare nel regno dei sensi, cosa che dovrebbe valere anche per lei. Proprio come per Beethoven e Schubert, i miei maestri preferiti, ai quali mi sento personalmente legato... per cui, non so bene, ma sento che vale anche per me: dobbiamo disprezzare la realtà e fare dell’arte e dei sensi la nostra unica ed esclusiva realtà. Ormai per Beethoven e Schubert è finita, ma io, Klemmer, io mi sto facendo adesso. Lui accusa Erika Kohut di difettare proprio in questo. Si attacca a cose superficiali, l’uomo invece astrae e separa l’essenziale dal superfluo. Con questo, ha già dato la sua risposta d’alunno impertinente, insomma ci ha provato.
Nella mente di Erika, un’unica fonte di luce illumina tutto a giorno, ma soprattutto il cartello su cui si legge la scritta: uscita. La comoda poltrona davanti al televisore apre le braccia, il segnale orario risuona dallo schermo e l’annunciatore del telegiornale si agita timidamente sopra la cravatta. Sul tavolino componibile, in esemplare spiegamento variopinto, un vassoio pieno di leccornie assortite, da cui le signore si servono a turno o insieme. Quando è vuoto, viene subito riempito di nuovo, come nel paese della Cuccagna dove niente finisce e niente incomincia.
Erika riordina le sue cose da un capo all’altro della stanza; guarda insistentemente l’orologio lanciando dall’alto del suo albero maestro un segnale invisibile, con il quale comunica com’è stanca dopo una dura giornata di lavoro in cui ha assistito a dilettanti che strapazzavano l’arte per soddisfare l’ambizione dei genitori.
page_no="115" Klemmer resta lí a guardarla.
Erika teme il silenzio piú d’ogni altra cosa e dice una banalità qualunque. L’arte è per lei il pane quotidiano di cui si nutre. Quant’è piú facile per l’artista, afferma la donna, sfogare i propri sentimenti e le proprie passioni! Il ricorso all’elemento drammatico che lei apprezza tanto significa per l’artista far uso di mezzi fittizi e trascurare di conseguenza quelli autentici. Parla perché non scenda il silenzio tra loro. Come insegnante, sono per un’arte non drammatica, per esempio Schumann; il dramma è sempre piú facile! Sentimenti e passioni non sono altro che un ripiego, un surrogato di ciò che è spirituale. L’insegnante invoca un terremoto, un fragore assordante che si abbatta su di lei con furia implacabile. Dalla rabbia, il feroce Klemmer per poco non sfonda il muro con la testa; gli allievi dell’attigua classe di clarinetto, dove ultimamente anche lui frequenta due volte la settimana le lezioni per il suo secondo strumento, sarebbero davvero sorpresi se, all’improvviso, dalla parete spuntasse fuori la sua testa incollerita a fianco della maschera mortuaria di Beethoven. Quella Erika... Quella Erika non sente che in verità sta solo parlando di lei e naturalmente di se stesso! La unisce a sé sotto il segno della sensualità e cosí scaccia lo spirito, nemico dei sensi, nemico acerrimo della carne. Lei crede che stia parlando di Schubert e invece intende solo se stesso, come sempre in ogni suo discorso.
Di punto in bianco le propone di darsi del tu, ma lei gli suggerisce di restare ai fatti. La bocca si deforma in una rosetta grinzosa, indipendente dalla sua volontà e dal suo agire; ormai non è piú in suo potere. Se le parole che pronuncia sono ancora sotto il suo controllo, non lo è però il modo in cui la sua bocca si mostra all’esterno. Le viene la pelle d’oca per tutto il corpo.
Klemmer si spaventa di se stesso e si voltola, grugnendo con piacere, nella calda vasca dei suoi pensieri e delle sue parole. Si slancia con impeto sul pianoforte, compiacendosi del proprio gesto, e suona a velocità eccessiva una lunga frase imparata per caso a memoria. Certo vuol dimostrare qualcosa con questa frase, il problema è che cosa. Erika Kohut, ben contenta di quel se pur lieve diversivo, si scaglia contro l’allievo per bloccare il direttissimo prima che prenda velocità. Suona troppo in fretta e anche troppo forte, signor Klemmer, la qual cosa sta solo a dimostrare quali lacune possa ingenerare nell’interpretazione musicale la completa assenza dello spirito.
L’uomo si catapulta all’indietro su una poltrona. Sembra un cavallo da corsa scalpitante che abbia già riportato numerose vittorie e, come ricompensa per i suoi successi nonché per prevenire le sconfitte, pretende un trattamento di prim’ordine e cure intensive, pari almeno a quelle riservate a un servizio d’argento per dodici persone.
Erika vuole andare a casa. Erika vuole andare a casa. Erika vuole andare casa. Gli dà un buon consiglio: vada in giro per Vienna e respiri profondamente. E poi suoni Schubert, ma nel modo giusto!
Me ne vado anch’io, Walter Klemmer riordina con gesto risoluto il massiccio pacco degli spartiti e fa un’uscita alla Joseph Kainz*, solo che non c’è una gran folla ad assisterlo. Poco importa, lui recita anche il ruolo di spettatore, star e pubblico in una persona sola e fuori programma un applauso tonante.
Klemmer si precipita al gabinetto degli uomini, facendo ondeggiare i biondi capelli dietro di sé. Trangugia d’un fiato direttamente dal rubinetto un mezzo litro d’acqua, che nel suo corpo a tenuta stagna di certo non provocherà grossi danni. Si bagna la faccia con sciabordanti ondate d’acqua sorgiva, defluita fin qui limpida e pura dal Hochschwabgebiet. L’acqua va proprio a morire sulla sua faccia. Tutto quel che è bello io lo trascino sempre nel fango, pensa tra sé e sé. Ecco come si spreca la famosa acqua viennese, piuttosto inquinata negli ultimi tempi. Klemmer si strofina con energia, con quell’energia che non ha potuto impiegare diversamente. Si serve senza lesinare dal distributore del sapone liquido verde, al pino silvestre, spruzza acqua ovunque, fa gargarismi e ripete l’abluzione a piacere. Gesticola fendendo l’aria e si inumidisce anche i capelli. Fa dei versi strani con la bocca, lui è un artista in queste cose, che oltre all’arte non significano nulla di concreto. E tutto questo perché soffre per amore. Sempre per la stessa ragione fa schioccare le dita e crocchiare le articolazioni. Con la punta di una scarpa maltratta il muro sotto la finestrella cieca del cortile, ma nonostante tutto il suo agitarsi non riesce a liberare quel che sta imprigionato dentro di lui. Qualche goccia schizza via, in aria, ma il resto rimane nel contenitore e pian piano irrancidisce non potendo far scalo nel suo porto di destinazione, la donna. Sí, non c’è dubbio, Walter Klemmer è davvero innamorato. Certo non è la prima volta e sicuramente nemmeno l’ultima. Il fatto è che in questo caso lei non contraccambia. I suoi sentimenti non sono corrisposti. Si sente disgustato e lo dimostra sputando rumorosamente del catarro proprio dentro il lavandino: la sua placenta d’amore. Chiude il rubinetto con una forza tale che chiunque dopo di lui cercherà d’aprirlo, non ci riuscirà di certo, a meno che non sia un pianista con articolazioni e dita d’acciaio come le sue. Non avendo fatto scorrere l’acqua, i resti del catarro espettorato da Klemmer rimangono attaccati alla bocca dello scarico: guardando con attenzione, si vedono distintamente.
In quell’istante, un suo compagno di studi, un allievo di pianoforte o di qualche altro strumento, entra sfrecciando come un bolide proiettato direttamente dalla stanza in cui si svolge l’esame di ammissione al livello superiore; si precipita dentro un WC e vomita nella tazza del cesso: una vera forza della natura. Il suo corpo sembra sconquassato da un terremoto che ha già fatto crollare molte cose, compresa la speranza di sostenere tra breve l’esame finale di diploma. L’esaminando ha dovuto soffocare a lungo la propria agitazione, in fin dei conti era presente anche il signor direttore, alla prova. Ora tutta quell’agitazione rivendica energicamente il diritto a fare la sua comparsa per finire dritta dritta nella tazza del cesso. L’esercizio sui tasti neri gli è andato male: l’ha suonato sin dall’inizio a una velocità doppia rispetto a quella normale, una velocità che nessuno riuscirebbe a sostenere, neppure Chopin. Klemmer disprezza quella porta di gabinetto chiusa, dietro la quale il suo collega lotta contro la diarrea. Un pianista che si lascia dominare in quel modo dalle esigenze corporali non può certo dare alcun contributo decisivo quando suona. Sicuramente considera la musica solo come mestiere e se la prende troppo a cuore quando uno dei suoi dieci arnesi manuali fa cilecca. Klemmer ha già superato quella fase, ormai bada soltanto al contenuto profondo di verità che è in ogni pezzo. Per lui, ad esempio, non c’è piú niente da discutere sugli sforzando nelle sonate per pianoforte di Beethoven, perché, piú che suonarli, bisogna sentirli e suggerirli all’ascoltatore. Klemmer potrebbe tenere banco per ore a discutere del plusvalore di un pezzo musicale che, se pur costantemente a portata di mano, solo i piú audaci riescono ad afferrare. Quel che conta sono il messaggio e il sentimento, non la mera struttura formale. Klemmer alza la borsa degli spartiti e a conferma di tale tesi la sbatte piú volte con furia sul lavandino di porcellana, per spremersi fino all’ultima goccia di energia, nel caso ne avesse ancora. Ormai però è interiormente svuotato, come può constatare. Ha dato tutto se stesso per questa donna, dice citando un famoso romanzo. Per lei ha fatto quel che poteva. Ora sono costretto a passare, dichiara Klemmer. Le ha offerto il meglio di sé, cioè tutto se stesso. Ha persino interpretato la propria parte, piú d’una volta! Ora desidera solo una cosa: un intenso fine settimana in canoa, per ritrovare le proprie coordinate. Forse Erika Kohut è già troppo inaridita per poterlo capire. Sí, magari in parte lo capisce, ma non può comprendere l’uomo nella sua interezza.
L’allievo che ha fatto fiasco nello studio sui tasti neri esce dalla cabina camminando a fatica e giunto davanti allo specchio, confortato dalla sua immagine splendente, si ravvia i capelli con un ultimo tocco magistrale, per compensare quel che le sue mani non sono state in grado di compiere. Walter Klemmer si consola pensando al fallimento professionale della sua insegnante e senza alcun ritegno sputa in terra la bava prodotta nell’ultimo impeto d’ira, cosí forte che il rumore si può sentire anche da lontano. L’altro pianista guarda lo sputo con aria di riprovazione, abituato com’è all’ordine in casa sua. Arte e ordine, i due fratelli nemici. Klemmer strappa con foga qualche dozzina di asciugamani di carta dal contenitore, li accartoccia in una grossa palla e li lancia nel cestino dei rifiuti, mancandolo per un pelo, mentre il collega fallito li soppesa di lato giudicandoli troppo leggeri. Rimane inorridito per la seconda volta davanti a quello scempio di beni che appartengono al Municipio di Vienna. Proviene da una famiglia piccolo borghese di negozianti e dovrà farvi ritorno se non supera l’esame al prossimo tentativo. I genitori allora non lo manterranno piú e cosí sarà costretto a passare da una professione «art.» a un’attività «comm.», con evidenti ripercussioni sulle partecipazioni di nozze da inviare agli invitati. La moglie e i bambini pagheranno caro il suo insuccesso, ma il commercio e l’industria non ne verranno minimamente intaccati. Le dita a salsicciotto, arrossate dal gelo e spesso costrette ad aiutare in negozio, si curvano come artigli di rapace se solo il loro padrone pensa a tutto questo.
Walter Klemmer, da uomo di buon senso, fa tacere il cuore e lascia parlare la mente; riesamina a fondo le donne che ha già posseduto e svenduto per pochi danari, fornendo loro una spiegazione esaustiva del proprio agire, senza risparmiare alcun dettaglio: dovevano imparare a prendere coscienza, a costo di soffrirne. L’uomo può anche andarsene senza dire una parola, a seconda del capriccio. Le antenne della donna si agitano nervosamente in aria come fossero sensori e infatti...