Parte prima
Fuori dal gregge
Fra tutte quelle che sono
non preferisco certo
l’ape lavoratrice nel suo andirivieni,
né la cicala schiacciata dall’estate,
e neanche quella zebra assorta lassú in alto
che sono da me cosí diverse
sempre.
Fra tutte loro una sola mi sconvolge:
la selvaggia
che attraversa il fango,
la pecora smarrita
folle di te e perduta.
Quella vicino al focolare coprirei
di carezze e con asciutto manto per il freddo.
Solo a causa sua direi a te in ginocchio:
Ora basta, Signore!
Lascia pure la tua rabbia
che nulla hai capito, mio Signore,
mio irraggiungibile
mio adirato
patriarca.
MÁRGARA RUSSOTTO
da Il diario intimo di Suor Juana.
Uno
1928-30
È una vita da poveri sculati per la famiglia di un becchino in un paesino di montagna. Nella valle di ***, infatti, si muore o da piccolini o da vecchioni. E il morire della gente dipende dalle annate. Se il raccolto di patate è cattivo, i casi possono anche essere molti. Se invece è buono, non crepa nessuno. Nessuno è cosí scemo da morire proprio nell’epoca di un buon raccolto. Certo, qualcuno ogni tanto finisce schiacciato da un tronco durante il taglio del bosco o precipita col carro in un fosso; oppure qualcun altro viene mandato all’altro mondo dal calcio di un mulo. C’è anche chi annega nel torrente: la mattina la riàle ha un’acqua cosí scarsa che una capra la berrebbe in un sorso, ma a mezzogiorno è capace di diventare schiumosa e furibonda; per cui capita sempre qualche imprudente che ci finisce travolto... Negli anni che il Marziano definisce «migliori», si arriva perfino a otto nove casi di morte. Che però mica tutti vanno a vantaggio del becchino, purtroppo. Se un pastore, presèmpio, finisce in uno degli orridi dalle parti della cascata, chi lo trova piú? Non ne resta da seppellire neanche un ossicino. Senza contare che c’è anche chi emigra, magari in Germania o addirittura in Mérica, e a quel punto chi s’è visto s’è visto; al massimo di lui ritorna al paese il lusso di un telegramma su una carta rigida che non serve neanche nel ritré. Comunque pochi sono quelli che i becchini chiamano «morti grassi», su cui cresce l’erba baiocchèlla... Certo il Falciatore bussa anche alla porta dei ricconi quando l’è ora: nel qual caso si fa un funerale in pompa, con suono di campane, lettere dorate sulla bara e una mancia speciale per il becchino. Ma è rarità. Di regola si tratta di cerimonie da due soldi. Ché in questa valle di fame baiòsa la vita è sempre stata grama: sette cacciatori, sette pastori e sette boscaioli fanno ventun poverettini a culinfuori. Cosí nella famiglia di un sotterramorti c’è poco da sfogliare verze.
Fenísia C. nasce nel novembre del 1928 nella casa del custode del cimitero del Paese Piccolo, come la gente della valle chiama l’abitato che sta in cima al pendio, per distinguerlo dal Paese Grande a fondovalle. La casa è proprio a ridosso delle tombe: ché un tempo la cappella delle Anime Purganti faceva corpo a sé, poi il Marziano e suo fratello Biâs hanno costruito un’aggiunta al deposito degli attrezzi, perché la famiglia si era ingrandita di due spose, cosicché la piccola sacrestia e la casa del guardiano adesso risultano unite.
Tutti gli uomini della famiglia C. han sempre lavorato al cimitero. Perciò la Fenísia viene grande tra le lapidi, senza trovarci niente di strano. Sotterramorti è sopà Marziano e prima ancora lo è stato il nonno e lo sbinonno. Quando ancora è piccola cosí, le volte che somà Ghitín non si sente bene, il Marziano porta la bambina con sé al cimitero, per non lasciarla sola: mette la figlia in una cassetta all’ombra del cipresso e la lascia lí, infasciata stretta come un salame, col suo pistunín di latte tra le mani.
Fin dove vanno indietro i suoi ricordi, la cosa piú lontana che la Fenísia vede è questa: sopà e i tre zii – Biâs, Pietro e Martino – chini a scavare per preparare una nuova fossa. Oppure la casa dei nonni materni, sulla piazzetta del Paese Piccolo, con il vecchio Remigio che cuce scarpe borbottando: «L’uomo è nato libero e ovunque è in catene...»
e con la nonna Malvina che a volte interrompe il suo lavoro di bordeusa per farla saltare sulle ginocchia, canticchiandole la canzoncina del barba Toce:
La storia del barba Toce,
ché ’l fíco l’è mica la noce,
né ’l fromént l’è mica la terra,
né la pace l’è mica la guerra...
E se poi con la mente vede somà Ghitín, è cosí: un orticello di pomidoro e zucche, proprio affianco al cimitero, con tante dannate gramigne da strappare, la siepe di bosso, il pozzo e lei, la Ghitín, a schiena piegata per far banche adatte ai piantamenti o per spargere letame da ingrasso, ché poi la sera regolarmente le viene la dranéra... E se infine vede il mondo e la vita, è cosí: un volo di corvi gracchianti, il cipresso, le lapidi, i cataletti, il deposito delle casse da morto disposte in fila lungo le pareti, i vermi grassi che fanno un po’ schifo, le larve ballerine del legno muffo, gli incroci dei vialetti che quando piove si trasformano in laghi in fondo ai quali dorme sempre un volto.
La Fenísia appena comincia a camminare imita i grandi come può: zappetta sulle tombe come se volesse aiutare a tenerle pulite, strappa l’erbamatta intorno alle croci, cambia l’acqua nei vasi, getta via i fiori quando marciscono. Alla finfine non trova la cosa molto diversa di quando sta con somà nell’orticello o nel pollaio.
La madre della Fenísia spesso non è in grado di occuparsi della bambina: ha la febbre, molta tosse, violenti mal di testa. Una sera, mentre l’accompagna a dormire, la Ghitín stringe a sé la figlia in modo passionato; la stretta trasmette alla bambina una tale tensione che ne prova i brividi.
«Certe persone sono segnate: si ammalano, poi muoiono» sussurra somà; gli occhi le brillano, il fiato caldo; il tocco delle sue mani è piú febbrile del consueto. E, guidando la mano della figlia verso il proprio petto, chiede:
«Senti?»
La piccola vorrebbe ritrarsi, confusa: cosa mai dovrebbe sentire? Alza gli occhi verso il viso della madre: uno sguardo colmo d’angoscia.
La Ghitín tossisce, porta un fazzoletto alla bocca; quando lo ritira è macchiato di sangue. Fa segno alla bambina di non dir niente, ponendosi un dito davanti alle labbra:
«Solo a te lo dico... È un segreto. Non parlarne a nessuno...»
La mano sul petto di somà, la Fenísia sente qualcosa di misterioso prender forma e passare attraverso la pelle dalla madre fino a lei.
Dalla cucina al piano di sotto viene la voce del Marziano che reclama:
«Ghitín, hai finito? Scendi subito!»
La donna digrigna i denti, ché a comando di fiele non si può rispondere col miele. Come l’è cattifà servire... Quell’ordine gridato a distanza le fa battere il cuore. La Ghitín di nuovo posa un dito sulle labbra della Fenísia:
«Non bisogna dirlo a nessuno, sennò...»
Quando la Ghitín parte per il Sanatorio di ***, abbraccia la Fenísia, strucandola forte come se non potesse lasciarla. Promette:
«Tornerò presto, guarita. Staremo sempre insieme. Intanto però fa’ la brava. Obbedisci alla zia Terésia».
E la Fenísia – il visetto premuto contro il petto di somà a respirare l’odore rassicurante della sua pelle e dei suoi vestiti – la Fenísia le crede.
Due
«Ma lei, Fenísia, sta proprio qui di casa?»
Lei abita qui.
«Cosí vicino a questo vecchio cimitero abbandonato?»
Sí, la sua casa è questa. Il lavoro della sua famiglia è sempre stato quello del sotterramorti. Una tradizione da padre in figlio.
«Io mi chiamo Laura. Sono lombarda...»
Ahah, milanese.
«Be’, non proprio... Comunque... Sto raccogliendo materiali per un libro. Di mestiere scrivo... Mi interessano le tradizioni, le leggende della montagna, le storie di una volta. Volevo conoscere la parte alta della valle... Al Paese Grande, al bar della Alda, mi hanno detto di consegnarle queste tre lettere».
Ahah, questa è la posta per lei? Che brava a portargliela. Grazie di cuore. Sí, il postino fin quassú non viene, non si degna. Troppa fatica. No, lei non scende mai al fondovalle. E che ci andrebbe a fare? La pensione, quella minima neh, la ritira una sua parente, l’Alda e, ogni tre mesi a seconda della stagione, le porta su qualche provvista, insieme alle pile per la radiolina a transistor e a un pacco di vecchi giornali, ché a lei piace ancora leggere per passare il tempo... No, di che cos’altro mai dovrebbe aver bisogno? Ha l’orto, due capre, tre galline, le patate, le mele... Se ha voglia di riposarsi un attimo, sciura Laura, può fermarsi... Qui è un posto tranquillo: si sta belli freschi d’estate, ché il cipresso fa ombra; e nella brutta stagione ripara dal vento che scende giú dal nevaio. Adesso lei fa strada, se la sciura ha piacere di seguirla.
«Ci contavo. Come le ho accennato, sto ricercando le tradizioni della montagna piemontese: è da un po’ di tempo che giro per la valle facendo interviste col mio registratore».
Che metta pure qui sul tavolo quel suo baracchino. Dietro la piatta delle mele. Le ha fatto già un po’ di posto, ché sapeva che stava arrivando qualcuno. Come faceva a saperlo? Le bestie sanno sempre le novità prima che succedano. E lei a furia di star sola è un po’ come una selvatica che sente da lontano, tende l’orecchio, indovina l’avvisaglia di chi sale lungo il sentiero... Eccosí a fondovalle le han detto di venire quassòpra?
«Sí, ho tanto sentito parlare di lei, per cui ero curiosa di conoscerla: mi hanno detto che lei è la persona giusta a cui rivolgermi, perché è “la memoria” di questi posti...»
Effettivamente lei sa tutto degli abitanti di questa valle, fin quale latte ha succhiato ciascuno. Ché lei è l’ultima. La sola che è rimasta. Il Paese Piccolo, di sicuro la sciura se n’è accorta traversandolo, è vuoto da tempo. Se la vista delle tombe non le dà fastidio, si può accomodare qui in cucina: la stufa è accesa e si sta piú al caldo.
«Certo è un panorama fuori dal comune. Ma non la disturba mai affacciarsi alla finestra e contemplare sto vecchio cimitero?»
Macché disturbo. Gli uomini della sò famiglia, quando l’alta valle era ancora popolata, al cimitero ci lavoravano. Niente di strano o di che vergognarsi: quello del sotterramorti è un mestiere onesto, per non dire indispensabile... E adesso, se la sciura vuole sedersi, c’è il divano: attenzione che ha le molle un po’ sfondate.
Tre
1931-33
Non passa giorno senza che la Fenísia si svegli col ricordo di quello che le ha detto somà:
«Tornerò presto, guarita. Staremo sempre insieme».
Ma si sa: nelle lunghe promesse ci pisciano i cani. Eccosí somà non torna.
Succede invece che, siccome la Fenísia ha una tosse stizzosa, la portano al Preventorio antitubercolare, in una valle vicina che si affaccia su un lago. Qui le levano tutti gli abiti, anche la giacca di lana rossa che le ha confezionato la nonna Malvina, le radono i capelli e la rivestono di un brutto grembiulino grigio, uguale a quello degli altri piccoli ricoverati. Ogni settimana la dottoressa le esamina la gola per eseguire un tampone. Di giorno, insieme agli altri «ospiti» della sua età, viene portata a fare lunghe passeggiate in pineta, coperta da una mantellina scura. Se il tempo è bello, le «signorine» la mettono su una brandina in terrazza per i «bagni di sole». Per mesi non vede nessuno della famiglia.
Quando sopà la viene a riprendere, è smagrito, con le ploréuse bianche che gli spuntano dalla giacca nera; e soprattutto ha un viso piú duro del solito. La Fenísia chiede della mamma. Il Marziano le risponde che non la vedrà piú, che se n’è andata; dove, non lo dice.
La Fenísia ha tre anni, quando la zia Terésia partorisce due gemelle, la Griselda e la Tilde. Magroline, malaticce, soprattutto la Tilde che ha i capelli bianchissimi e gli occhi rossi come i coniglietti. Anche le nuove nate imparano presto a prendere confidenza coi vialetti del cimitero. Giocare a nascondersi tra le lapidi per le tre bambine è normale.
A un fotografo ambulante che passa di qui e trova inconsueta tale familiarità con il cimitero, il Marziano ribatte che sottoterra sta la gente della valle, quelli del loro stesso sangue. Niente da averci paura. Ché possono fare male solo i vivi, mica i morti.
Sono molte le fotografie scattate nel ’33 in valle, tutte recano la dicitura:
Premiata Ditta Giovanni Miglietto
Matrimoni Battesimi e Anniversari
Prezzi ragionevoli
Ritratti somigliantissimi.
L’ambulante che le esegue gira tutti i paesi in occasione della festività dell’Assunta, trascinando sul sò sciarabàn l’apparecchio di legno col treppiedi e un armamentario di fondali di vario tipo, in modo di organizzare sulla strada in quattro e quattr’otto un vero e proprio studio fotografico. Chiunque lo desideri viene messo in posa: bambini, vecchi, sposi, famiglie intere. Davanti a chi è restio, il signor Miglietto insiste:
«Non aspettate il vostro funerale per farvi fare la fotografia. Ché da morti non ve la potrete godere. È adesso l’ora di farvi un bel ritratto, per dimostrare che siete anche voi parte della Storia e del Progresso della nostra bella Patria... Se poi la fotografia non vi piace, potete anche non comprarla, ma sono sicuro che vi piacerà».
Eccosí, di fronte a questo argomento risolutivo, molti capítolano, scegliendo perfino di farsi immortalare davanti a un fondale che raffigura le piramidi d’Egitto o addirittura un aeroplanino che sorvola la Tour Eiffel. C’è l’Agustín «Privativo» – soprannome che gli deriva dal fatto che la sua famiglia gestisce da anni un negozio di Sale e Tabacchi – rigido in un profilo numismatico in modo che non si noti la guancia destra trapuntata dal vaiolo; il Dionigi che ha studiato da prete e ha un occhio di vetro – o meglio, una «pupilla artificiale», come preferisce dire pomposamente – si fa ritrarre in panciotto a righe, con un libro in mano; il curato – don Abelardo, che tutti chiamano don Lardo – con le mani congiunte sopra la panza adiposa, affianco alla sò perpetua in ghingheri con la mantellina bordata di pilúscio; il Vittorio «So-anca-mè», dirigente locale del Fascio a braccio teso davanti al ritratto labbruto del Duce; la proprietaria della segheria «Eredi Faccioli» con una gonna a gonfiaculo e una specie di turbante in testa, che pare un’ebrea baruccabà; il capraio Nesio, di solito bragasciòne nel vestire, indossa una cacciatora di velluto imprestata per l’occasione; il Reto «Reuccio», che di statura non è piú alto del nano Tampús, seduto in cima a una scala sta proprio sul quamquàm e non sembra neanche tanto mignonetto... Eppoi le comari, con le mani callose abbandonate sulle sottane nere, i volti induriti dal lavoro e dalle gravidanze; adolescenti dalle spalle gracili, ragazze con facciotte da mela poppina, bambini corrucciati in divisa da balilla, neonati costretti come mummiette nella fasciatura. Per le donne e i piccinàja i fondali prescelti sono drappi scuri con ricami di fiori, che però non riescono del tutto a cancellare la rusticità dei cortili: con una gallina che spunta da dietro la banca o l’erba che affiora dal selciato.
Nella foto che ritrae tutta la famiglia C., la Fenísia, la Tilde e la Griselda – che tutti chiamano Grisa – stanno sedute su un banchetto. In piedi dietro di loro ci sono i quattro becchini in calzoni di velluto sostenuti dalle tiracche di cuoio: il Marziano, che è il maggiore, il Biâs affiancato da sua moglie Terésia; poi il Pietro e per ultimo il Martino che è ancora un ragazzo con la braghetta al ginocchio. Sorridono tutti all’obiettivo del fotografo. Colpisce la grande somiglianza dei visi nei quattro fratelli: stessa sbèssola lunga e ossuta, occhi chiarissimi; spicca comunque il Biâs, magro scaramèlla, col cappello di feltro di traverso a cercare di coprire la lunga cicatrice sulla fronte, ricordo di una brutta ferita della Prima guerra mondiale; con la bocca storta in un mezzoghigno di sbieco e all’angolo delle labbra il muccio di un toscano.
La Ghitín è morta di tisi; l’hanno sepolta lontano, nella valle dove sta il Sanatorio. Se ne parla a bassa voce in casa, come se si trattasse di un segreto.
Ma in questo paese – forse in tutti i paesi – per mantenere un segreto bisognerebbe essere dispari e meno di tre. Eccosí lo sanno tutti, presèmpio le sorelle Ferretto, Prudenza e Speranza, che insieme alla loro cagna spelacchiata passano il dí sedute con le mani in grembo sul banchetto di pietra fuori dall’uscio, come su un tronetto: quarant’anni malportati, tutte e due hanno lo sguardo velato da una malattia che hanno patito da bambine, ma è come se avessero gli occhi balchi, tal quale, perché il loro orecchio fino riesce a captare ogni informativa del Paese Piccolo: dal fatto che il sacrista Leonildo munge la cassetta delle offerte ai trucchi con cui il Reto «Reuccio» nasconde la sua tapinità, fino ai particolari con cui la vedova Delfina concede le sue grazie carnose al capraio Nesio. Eccosí in una boccatina di parole commentano che su quella povera Ghitín pesavano i peccati di famiglia: ché somà Malvina, come tutte le sò ave, non ha mai avuto buona nomea in valle. Perciò quando la piccola Fenísia passa davanti a loro, accompagnata dalla zia Terésia, le due sorelle le pongono la mano sulla testa, cercandole con le dita le fattezze delle guance, e la compatiscono risci’ando la bocca a culo di gallina:
«Povera orfanella! Chissà se la scamperai...»
Poi sorridono storto, fissandola senza vederla.
La bambina ha un brivido, non sa se per la carezza di quelle mani nodose o per il muso freddo della cagna che si è avvicinata a leccarle le gambette nude.
Il primo cadavere che la Fenísia vede da vicino è quello della Tilde. Succede in una settimana di pioggia, coi passi della Terésia che vanno su e giú per la scala di legno portando alla piccola malata scodelle di brodo che però la Tildina neanche si dà la pena di assaggiare: serra le labbra arse dalla febbre, i lineamenti distorti dalla fatica di respirare, e volta la testa verso il muro. Cosí per giorni interi, tentando tutti i toccasana della vecchia Malvina: somministrare quattr’once di neve, legarle il braccio con un nastrino azzurro perché l’anima non le scappi via...
Un mattino mandano la Fenísia con la Grisa al Paese Piccolo presso un parente, il barba Tersilio. Quando verso sera le due cuginette tornano al cimitero trotterellando, sorprendono il Biâs nel portico che ha l’affaccio sull’orto: martella chiodi su una piccola cassa ed è cosí concentrato nel suo lavoro che non si accorge del ritorno delle bambine. Di casse come quella la Fenísia ne ha già viste tante, data la professione della famiglia. Ma stavolta prova una sensazione di vertigine. Sale...