1. La superstizione del monetarismo
Per diversi aspetti risulta scoraggiante la sensazione di avere gettato via una quindicina d’anni di impegno politico e intellettuale nel tentativo di tenere aperta un’alternativa politica e culturale al neoliberismo. Anzi, piú che scoraggiante, disarmante. Ci si irrita, con ragionevolezza, e si diventa insofferenti, anche perché si ha l’impressione che in quasi tutta l’Europa la sinistra, anche dove governa, si trovi al tramonto, in una specie di malinconico autunno del Medioevo «carico di frutti troppo maturi», proprio secondo le immagini di Huizinga, senza idee praticabili né riscatto possibile, e ci si chiede vanamente il perché.
Si intravedono a malapena, nella foschia della «tarda modernità », come l’ha chiamata Alain Touraine, i profili tardogotici di cattedrali del passato, con le socialdemocrazie esauste, il «nuovo» laburismo blairista compromesso dalle menzogne geopolitiche e dalla guerra, mentre vengono tenute vive a forza formule politiche inconsistenti, spesso velleitariamente anacronistiche, e sottoposte alla concorrenza della Linke di Oskar Lafontaine, o all’emergere del nuovo glam-libertarismo, «né di destra né di sinistra», del ministro gay Guido Westerwelle.
In un pamphlet piuttosto desolato, un linguista, vale a dire un intellettuale non specializzato in politica, ha scritto: «Da tempo in Occidente la sinistra nelle sue diverse forme arretra e i suoi principî fondamentali sono ovunque sotto attacco o in declino»1. Ci si domanda quindi come mai i partiti di destra sono riusciti a tenere le mani sul potere2 e il consenso, nonostante la gravità di una crisi economica che pure hanno contribuito largamente a creare, e che non sono stati capaci di fronteggiare se non con rassicurazioni di maniera («Il peggio è passato, la recessione è alle spalle»), incuranti del fatto che la crisi finanziaria si stesse trasformando in crisi industriale e alla fine in conclamata, anche se soffocata mediaticamente, crisi sociale.
Il fatto è che i governi neoconservatori e i movimenti di destra liberalpopulista sono stati in grado di convincere i ceti medi che nella società low cost della Borsa euforizzata e delle public companies la deregulation sarebbe andata a loro favore; mentre era chiaro a tutti, se non agli ingenui, che avrebbe invece favorito, con gravi iniquità , il capitale monopolistico della grande finanza, e accentuato ineguaglianze acute negli assetti sociali: vale a dire, per non cadere nelle astrazioni, fra le persone reali, attive e presenti nella quotidianità .
Ma che importa? Come ha scritto qualche stagione fa Laura Pennacchi:
Da vent’anni domina la scena politica mondiale una potente ideologia ultraortodossa che predica un drastico ridimensionamento della presenza pubblica nelle attività economiche e sociali, sostenendo che l’intervento dello Stato è sempre e comunque negativo per il benessere collettivo, che i governi dilapidano risorse e che ogni tentativo di redistribuire la ricchezza dà vita a forme di perseguimento delle rendite. La predicazione di un ruolo pubblico ristretto e angusto si basa su una visione altrettanto ristretta e angusta del rapporto tra individuo e collettività , volta a soffocare le istanze solidaristiche: l’individuo è un atomo, non esistono responsabilità collettive perché «non esiste la società », secondo il motto di Margaret Thatcher3.
Già : esistono, o esistevano nella nozione piú provocatoria del thatcherismo, soltanto gli individui. E quindi la crescita delle ineguaglianze poteva essere considerata come un semplice effetto collaterale della nuova vitalità economica inglese, cioè la conseguenza del dinamismo di un Paese uscito dal torpore grazie alla sferza delle privatizzazioni e alla flessibilità di un mercato del lavoro che, dopo la de-industrializzazione, metteva a disposizione delle imprese il classico esercito postindustriale di riserva. Sono sufficienti poche sequenze di film come Full Monty o Grazie, signora Thatcher per un riscontro duramente sociologico dei guasti provocati dalla precarietà successiva alla privatizzazione, sullo sfondo di città come Liverpool e Manchester, liberate da catene di montaggio ormai obsolete, a favore degli ipermercati e di un posto sottopagato da guardia giurata, con i figli che si aggirano minacciosi e spaventati negli stessi centri commerciali dove i padri fanno da vigilantes.
Ma esiste anche un’altra risposta per spiegare la persistenza tenace della destra, benché non sia di carattere strettamente economico: guardando a una società vecchia e spaventata come quella europea (nell’ue gli ultrasessantenni sono settanta milioni, una quota equivalente al 20 per cento della popolazione), le forze neoconservatrici si sono fatte imprenditrici della paura, inserendo in un solo tableau ideologico la sicurezza nelle città , l’immigrazione clandestina, la «minaccia» islamica, l’altezza dei minareti, la concorrenza degli immigrati sul lavoro, un preteso ordine sociale attribuito alla volontà delle maggioranze silenziose. L’inganno è riuscito bene, stratificando via via misure di controllo pubblico e legalitario che in genere sono risultate nel complesso inefficaci o persino ridicole (vedi il fallimento delle ronde padane in Italia), ma che sul momento generano consenso politico, in quanto gratificano l’opinione pubblica moderata e i suoi complessi.
Per il momento, comunque, si ha l’impressione che la mobilitazione psicologica a caldo abbia vinto sulla freddezza e sulla staticità della politica tradizionale.
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La dirigenza della sinistra europea non ha grandi progetti, non ha analisi, non ha soluzioni […]. E, in effetti, non ha prodotto neanche un’idea forte dall’epoca del welfare state…4.
ha scritto l’outsider con cui abbiamo aperto queste pagine, il già citato Raffaele Simone. Cosicché i temi collettivi del Novecento, come il lavoro, l’occupazione, la rendita, il risparmio, le pensioni, la sanità , gli investimenti pubblici, l’interesse generale e persino di classe, se è ancora concesso utilizzare questa parola nel solco liberale in cui la usò Ralf Dahrendorf per le società industriali negli anni Settanta, sono sfioriti nella mentalità corrente; e hanno cominciato ad avere successo fenomeni, o meglio ancora exploit politico-culturali, come il berlusconismo; e a sua volta la variante francese del sarkozismo, ancora piú innervato nei poteri duri dello Stato centralista e nei nuclei essenziali dell’autorità e dell’eccellenza politico-economica, come nei club esclusivi degli Enarchistes: sono democrazie coriacee ma in fondo depotenziate, rette da fratellanze e strutture di relazione prepolitiche, ma in cui oggi niente è meglio, sul piano mediatico e mondano, della possibilità di vincere le elezioni come se si trattasse di una gara «celibe» tra le élite; e subito dopo di aggiungere al talamo nuziale dell’Eliseo la silhouette mondiale della top model Carla Bruni. La democrazia dei «fattoidi», che vive di pettegolezzi e sempre nuove trovate televisive, prevale facilmente sulla politica della realtà . Lo stile di La società di corte, vecchio e impareggiabile libro di Norbert Elias, descrive meglio di molti trattati di politica l’epos cortigiano delle nuove Versailles.
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1 R. Simone, Il Mostro Mite, Garzanti, Milano 2008, p. 11.
2 «Ben lungi dal voler ricostituire ordini del passato, le destre postmoderne […] agiscono con spregiudicatezza dall’interno della pluralità e della complessità delle società contemporanee. Su cui intervengono con politiche che assecondano divisioni corporative e paure allarmistiche, risentimenti sociali e frammentazioni culturali, chiusure ed esclusioni (o subordinazione) dei non integrati, xenofobie aperte e mascherate» (C. Galli, Perché ancora destra e sinistra, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 65).
3 L. Pennacchi, Introduzione a J. E. Stiglitz, In un mondo imperfetto. Mercato e democrazia nell’era della globalizzazione, Donzelli, Roma 2001, p. VII.
4 Simone, Il Mostro Mite cit., p. 41.
2. La cattura del lavoro
Ancora Raffaele Simone ha definito «Arcicapitalismo» la manifestazione politica ed economica di questa «Neodestra».
L’Arcicapitalismo è dotato di una specificità che nella storia appare nuova: accumula profitti non piú solo (come nella tradizione) sfruttando i propri lavoratori, bensà catturando e opprimendo la propria clientela mondiale. Questa si è lasciata avvolgere (senza che a sinistra nessuno se ne accorgesse) in una spirale in cui si intrecciano una varietà di fattori che non sono piú solo economici, ma coinvolgono piú dimensioni della vita individuale e associata: pubblicità , prodotto, marketing, credito facile per il piccolo consumo, desiderio di fun e di evasione, speranza di restare giovani a lungo e di trarre prolungati piaceri dalla vita sessuale, una vaga aspirazione a una vita abbondante e disinvolta, una velatura di spiritualità e di pathos…1.
Non una parola, naturalmente, a proposito del lavoro e dell’occupazione: su questo punto, è opportuno non credere mai a nulla, non a un numero, non a una statistica. Quando Margaret Thatcher decise che il tasso di individui senza lavoro nel Regno Unito risultava troppo elevato per un Paese destinato alla endless growth deregolatrice, chiese agli istituti governativi di rilevazione di modificare i parametri d’indagine. Vennero in effetti cambiati. A ripetizione. Una, due, tre volte? No, la bellezza di trentadue volte. Alla fine, come ci si poteva attendere, i risultati diedero ragione alle aspettative. La disoccupazione scese sotto il 6 per cento, con evidente soddisfazione del governo radicalpopulista inglese.
Se ci spostiamo adesso sull’altra sponda dell’Atlantico, durante la crisi attuale i dati parlano di un tasso di disoccupazione superiore al 10 per cento; ma secondo alcune stime piú pessimiste, se si computano i non occupati che per rassegnazione hanno rinunciato a cercare un lavoro, il tasso salirebbe addirittura al 17 per cento.
E allora a quali e quante leggende abbiamo creduto, nel frattempo? Alla crescita, allo sviluppo, ai risultati del mercato unico europeo, che avrebbe dovuto avvicinare i prezzi nei diversi Paesi favorendo i consumatori. All’euro, che avrebbe stabilizzato l’inflazione. Al miracolo irlandese, per cui l’isola in trent’anni aveva raddoppiato il pil pro capite. Al sorpasso greco. Allo spettacolo spagnolo.
Gli irlandesi si è visto che fine hanno fatto, dopo la sbornia liberista che aveva ubriacato un Paese povero. In Grecia rischiano il default dei conti pubblici, dopo avere truccato i dati per anni (davano il deficit sul pil al 3,7 per cento, era in effetti al 12,9; parlavano con orgoglio sofista del superamento ai danni dell’Italia in termini di capacità di potere d’acquisto pro capite, adesso si tratta di vedere se riescono a non fallire). E il contagio del debito sembra diffondersi alla svelta verso l’Europa sudorientale, con nuovi rischi e nuove minacce agli equilibri finanziari di tutta l’Unione Europea.
Quanto alla Spagna, si è capito alla svelta che il Paese era ricco, ma la gente era povera (altro che movida, fiesta esclusiva e permanente della giovane borghesia urbana), con la c...