Racconti di Natale
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Racconti di Natale

  1. 440 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Racconti di Natale

Informazioni su questo libro

In questo volume, per la prima volta, tutti questi Natali vengono riuniti in una raccolta di racconti straordinari, in cui i piú bei nomi della letteratura di ogni tempo - da Stevenson ad Auster, da Calvino a Buzzati, dalla Alcott a Conan Doyle - fanno a gara per stupire, commuovere, divertire, emozionare, in un coro di voci uniche e ormai classiche che regalano il ritratto piú completo del giorno piú speciale dell'anno.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
Print ISBN
9788806180133
eBook ISBN
9788858401897
Gli spiriti di Natale

Giovannino Guareschi
La favola di Natale

«L’anno venturo non voglio che succeda come quest’anno» si dice ogni volta. «L’anno venturo prepareremo ogni cosa in tempo». Ma ogni volta il Natale ci coglie di sorpresa e noi dobbiamo rimediare a tutto in fretta e furia e alla bell’e meglio.
Ma ogni volta il Natale ci porta una nuova favola da raccontare a noi stessi per consolarci del Natale che ci è sfuggito ed è caduto nell’abisso del tempo assieme a un altro degli anni che Dio ci ha concesso.
* * *
– Sparecchia, – disse Margherita alla Giacometta.
Ma la Pasionaria intervenne:
– No, – affermò, – non si deve sparecchiare.
Margherita la guardò perplessa:
– Che novità sono queste? – domandò.
– Non sono novità, – spiegò la Pasionaria. – Qui usa che, la sera della Vigilia di Natale, non si sparecchia. Nessuno sparecchia in casa delle mie compagne. Lasciano sulla tavola la tovaglia con una micca di pane.
– E a che cosa serve questo? – si stupí Margherita.
– Serve che, di notte, quando tutti dormono, vengono i morti e si siedono a tavola.
Margherita scosse il capo:
– I morti non hanno bisogno di mangiare.
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– Non ho mica detto che i morti mangiano il pane! – replicò risentita la Pasionaria. – Lo toccano soltanto. E allora il pane lo si mette via e dura un anno intero perché non ammuffisce piú.
– Sciocchezze! – commentò Margherita.
– Non sono sciocchezze, – le rispose la Pasionaria gravemente.
Margherita si spazientí:
– È mai possibile, – esclamò, – che i bambini debbano prestar fede soltanto a queste favole sui morti che poi li impressionano?
– Io non mi impressiono, – precisò la Pasionaria. – Non vengono mica dei morti forestieri. Vengono i nonni. Anche loro devono fare festa per Natale.
La Giacometta intanto aveva ripulito la tovaglia dalle briciole assestandola con cura. Poi aveva posto al centro della tavola un piatto con una micca di pane.
Passammo in tinello dove era l’albero di Natale e ci sedemmo davanti al fuoco del caminetto.
I ragazzi davano gli ultimi tocchi al loro Presepe, in attesa della mezzanotte. Allora avrebbero acceso le lampadine e avrebbero messo nella capanna il Bambinello.
Si sentí scoccare la mezzanotte all’orologio del campanile e il Presepe si illuminò e si accesero le cento lampadine dell’albero mentre Alberto dava il via al disco d’una pastorale.
I ragazzi rimasero lí a rimirarsi incantati il loro Presepe; poi, quando non ne poterono piú, andarono a letto a sognarselo.
Margherita ruppe alfine il silenzio:
– Strana usanza, – osservò, – questa di lasciare la tavola apparecchiata.
– Piú che strana è gentile e piena di poesia, – replicai. – Che poi i morti vengano o non vengano non ha importanza: importantissimo è invece il fatto di ricordarsi di loro particolarmente nelle ricorrenze piú liete.
Margherita alzò il capo:
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– Giovannino, dicendo «vengano o non vengano» tu intendi ammettere che i morti possano venire?
– No, Margherita, non solo non lo ammetto, ma lo escludo. Però mi fa piacere pensare che essi possano venire.
Margherita rabbrividí:
– Giovannino, ho paura.
– E perché? Tua figlia te l’ha spiegato chiaramente: si tratta dei nonni, non di morti estranei.
Entrò la Giacometta e domandò se avevamo bisogno di qualcosa.
– No, vai pure a letto, – le rispose Margherita.
Rimanemmo soli e io spensi la luce perché quando si è davanti al fuoco la luce dà fastidio.
Suonò l’una all’orologio del campanile. E poco dopo Amleto abbaiò.
Margherita sbarrò gli occhi:
– Giovannino, – ansimò, – che siano loro?
– Ma no, Margherita. Non senti in che modo abbaia? Si tratta di estranei.
– Non li ha mai visti: sono estranei per lui.
– E cosa vuoi che possa vedere?
Sentimmo passare per la strada gente che chiacchierava e Amleto smise di abbaiare.
– Si vede che s’erano fermati un momentino davanti al cancello, – spiegai.
Margherita si tranquillizzò.
– Ho sete, – disse. E io mi alzai per andare a prendere un po’ d’acqua in cucina.
– Resta, – esclamò Margherita. – Non ho piú sete.
– Il fatto è che adesso ho sete io.
– Da sola non ci rimango neanche un minuto qui, – affermò Margherita.
– In questo caso non ci resta che andare in cucina assieme.
Uscimmo dal tinello semibuio, e ci arrestammo davanti all’uscio di cucina.
Dopo qualche istante d’esitazione lo spalancai. La cucina era illuminata soltanto dalla minuscola lampadina-spia del bruciatore che ronzava in cantina e vedemmo il grande rettangolo candido della tovaglia col piatto del pane nel bel mezzo.
Accendemmo la luce grossa ed entrammo.
Mentre io aprivo la credenza per procurarmi i bicchieri, Margherita seduta al tavolo studiava attentamente la tovaglia e il piatto del pane.
Presi posto vicino a lei.
– Spegni la lampada grossa e lascia solo il lumino della spia, – sussurrò Margherita.
Rimanemmo lí seduti nella penombra e Margherita s’era aggrappata al mio braccio come se stesse per annegare.
– Pensa, – sussurrò d’un tratto, Margherita. – Pensa, Giovannino, se adesso ce li trovassimo lí davanti!
– Pensiamoci, – le risposi.
Margherita ci pensò tanto intensamente che dopo cinque minuti, abbandonato il mio braccio, reclinò il capo sulla tovaglia e si addormentò.
Mi addormentai anch’io e dormii esattamente fino a quando la pendola scoccò le due.
Allora alzai il capo e c’erano tutti, seduti attorno alla tavola.
Stavano guardandoci dormire e sorridevano.
Allungai una mano per svegliare Margherita ed essi mi fecero cenno che la lasciassi dormire.
Levarono gli occhi da noi e si guardarono attorno: mio padre mi indicò le due grosse travi di rovere del soffitto e fece segno di sí con la testa. Roba solida, massiccia: aveva sempre seguito quel concetto, nel fabbricare.
Anche il padre di Margherita, che da vivo era falegname, fece segno di sí con la testa: si trattava di due travi veramente in gamba.
Suonò il quarto d’ora, all’orologio della torre: allora tutti e quattro toccarono il pane, si alzarono e se ne andarono.
Mi rimisi a dormire con la testa appoggiata sulla tavola.
Ci svegliò alle otto del mattino la Giacometta: io subito presi il piatto col pane e lo riposi nella cristalliera del buffet.
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– Adesso puoi sparecchiare, – dissi alla Giacometta.
– Che strani sogni si fanno quando ci si addormenta cosí spiegazzati, – osservò Margherita.
Non era il caso di rispondere e guardai compiaciuto le travi di rovere del soffitto che io avevo voluto cosí grosse e massicce.
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Dino Buzzati
Lo strano Natale di Mr Scrooge

Da bordo della Michelangelo, dicembre 1965.
Allo scopo di evitare il Natale da cui aborriva, il signor Ebenezer W. Scrooge, 62 anni, celibe, ricchissimo, aveva deciso di allontanarsi quanto piú possibile dai fratelli, dai nipoti, dalla propria casa, dalla propria città, ch’era Nuova York, da tutto ciò che costituiva rapporto umano e sociale, non diciamo amicizia perché di veri amici Mr Scrooge non ne aveva avuti mai.
E, astutamente, giovedí scorso 23 dicembre, aveva preso imbarco sulla turbonave Michelangelo diretta in Europa. Cosí, allo scoccare del Natale, egli si sarebbe trovato nel mezzo dell’Atlantico, al riparo dall’esecrato contagio.
Intendiamoci, non era il Natale delle luci, dei negozi, delle compere, delle corone di agrifoglio, degli abeti, dei cosini lucenti, il Natale che Mr Scrooge odiava e temeva. Anzi.
Di anno in anno, quanto piú ingigantiva la frenesia degli auguri e dei regali, Ebenezer W. Scrooge era contento. Perché se aumentavano i lumi, le spese e la furia, aumentavano altresí gli introiti della catena di supermarkets, self-services, cafeterias e automats, di cui era proprietario; ma soprattutto significava che gli uomini e le donne sempre piú sentivano il bisogno di recitare il Natale in quanto avevano sempre meno Natale dentro di loro, cioè diventavano sempre piú simili a lui, Ebenezer W. Scrooge, il quale ne era vuoto nel modo piú integrale e fazioso.
No. Quello che lui detestava era il rimasuglio degli antichi autentici Natali, che ancora affiorava qua e là; e gli procurava la nausea.
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Vale a dire quello speciale intenerimento dell’animo, quella disposizione alla benevolenza e al perdono ch’egli giudicava massimamente nocivi all’efficienza, alla produttività, al guadagno, al successo, alla conquista, al dominio e a tutte le bellissime cose per le quali era sempre vissuto.
Per la verità, Nuova York era un posto dove, relativamente intendiamoci, si poteva sopportare la ricorrenza un po’ meglio che altrove. Non già che a Nuova York il Natale non diventi una festa grande. Anzi, la città è famosa nel mondo per le sue luminarie (gli abeti bianchi della Park Avenue, i festoni sulle cuspidi, le stelle che si accendono e spengono sulle immense pareti, le ghirlande, le cascate, gli zampilli, le corone, i fiori di luce), per la gloria inusitata delle vetrine dove si concentrano le meraviglie del mondo, per gli addobbi natalizi profusi anche nei piú squallidi bar e negozietti, per i babboni natali con la casacca rossa e il barbone bianco che per la via agitano i campanelli, incitando a oblazioni filantropiche, per il delirio complessivo della gente che, incurante del gelo, ribolle pazza nelle strade come un formicaio subito dopo la pedata. Ma non è questo che conta.
In realtà a Nuova York non esisteva quasi il pericolo temuto da Scrooge. A Nuova York, in complesso, Scrooge si trovava a vivere bene. A Nuova York non vige la benevolenza verso il prossimo e l’uomo quando incontra l’uomo non si chiede: «Chi sei? Dove vai? Di che cosa hai bisogno?»; l’uomo, il cameriere, il commesso, il fattorino, il bigliettaio non sorride se non ce n’è un motivo preciso, il sorriso gratuito infatti non corrisponde a una sana business-likeattitude, a forza di sorrisi mai e poi mai sarebbero state elevate le torri, le guglie, i picchi stupendi che al passare delle nuvole bianche spiccano lentamente il volo e vanno, vanno verso gli sconosciuti confini. Ciò piaceva molto a Scrooge il quale dava l’esempio, astenendosi da ogni sorriso ancora piú degli altri.
A Nuova York l’interesse dell’uomo per l’altro uomo è limitato alle esigenze familiari, erotiche, lavorative, sociali e tutt’al piú di amicizia, poi basta, gli altri che stanno fuori non esistono, sono meno di niente e, se non fosse cosí, mai si sarebbero costruiti gli inni d’acciaio comunemente denominati ponti, o le terribili muraglie alate, o i castelli, i supremi pinnacoli, le rudi vette dell’uomo.
A Nuova York le automobili non guardano le altre automobili, non litigano, non fanno loro sberleffi – come per esempio in Italia – bensí vanno ciascuna per la propria strada con sorda determinazione e intensa carica nervosa, facendo chissà perché un baccano del diavolo con i clacson, peggio che a Napoli. E la Cadillac nera di Mr Scrooge era capace di non guardare le automobili altrui piú di tutte, e procedeva nella direzione voluta con una determinazione di gran lunga superiore alle altre.
A Nuova York la gente per la strada non guarda l’altra gente neppure se passa una ragazza favolosa o Dracula il vampiro, neppure se è tempo di Natale, e si ha l’impressione che il passante non veda altri passanti, bensí veda soltanto delle ombre indifferenziate che gli fluttuano intorno. E questo corrispondeva appunto a quel magnifico disinteresse per il prossimo ch’era per Scrooge uno dei cardini morali. Ma, nonostante queste meravigliose caratteristiche, Nuova York procurava a Scrooge dei Natali difficili.
Il fatto è che, da almeno una dozzina d’anni, tutte le notti del 24 dicembre, lo spirito di Natale entrava nella sua camera, lo svegliava bruscamente, lo prendeva per mano e poi se lo trascinava in giro per il mondo, in camicia da notte come si trovava, nonostante il freddo. E purtroppo questo spirito era subdolo e maligno. Ben presto l’insensibile Scrooge non resisteva piú alle cose che quello gli diceva, agli spettacoli che quello gli faceva vedere. Dopo poco, Ebenezer W. Scrooge si sentiva atrocemente intenerire, il cuore cominciava a scaldarsi e perfino a rimbombargli nel petto, gli era capitato anche che delle strane gocce di sapore amaro gli scendessero giú per le guance, improvvisamente aveva provato l’inverosimile quanto stolto desiderio di vedere tutti gli altri contenti anche a costo di un suo grave sacrificio economico. Per fortuna l’aereo spirito di Natale non era qualificato per ricevere un assegno e al termine della scorribanda, quando Scrooge si ritrovava nel suo letto, il pericolo era ormai superato.
Non solo: ogni volta Ebenezer W. Scrooge nel giro di poche ore era riuscito a riaversi, a cacciar via l’orribile tentazione di sorridere, scherzare, compatire, voler bene e fare del bene.
Tuttavia per alcuni giorni gli rimaneva una sorta di groppo molto penoso che gli pesava in corrispondenza dello sterno. Finalmente gli era venuta la geniale idea del mare: in mezzo all’oceano il funesto spirito non si sarebbe fatto vivo, garantito. Su un bastimento italiano, poi, ammesso anche che il personaggio fosse venuto a tormentarlo, sarebbe stato uno spirito di lingua italiana, e lui, Scrooge, non avrebbe capito una parola.
Certo, quando Ebenezer W. Scrooge è salito a bordo, l’impressione è stata abbastanza secca. Maledizione, il Natale si era installato anche qui. Si era anzi installato in modo specialmente pericoloso perché aveva l’aria di essere un Natale perpetuo, come se quegli uomini della nave non diventassero buoni e gentili solo il 25 dicembre per poi tornare ad essere i duri tangheri di sempre, ma fossero umani e gentili anche prima e anche dopo, umani e gentili tutto l’anno, sorridendo di quel sorriso che Scrooge giudicava nefasto. Che per caso l’Italia piú o meno fosse tutta cosí? E si era chiesto come mai, con questo sistema di prendere la vita, si potessero combinare cose importanti e serie, il conto a prima vista non tornava, eppure la nave era forte, grande e bellissima, le macchine funzionavano, gli stabilizzatori funzionavano, l’aria condizionata funzionava, l’acqua del water funzionava previa una pressione del piede sull’apposita leva, la luce funzionava, funzionavano i rubinetti, la radio, la televisione, il radar, nonché quei piccoli dispositivi magnetici che tengono fermi le porte, le ante e i cassetti, tutto era insomma perfetto ed efficiente, neanche gli States onestamente avrebbero potuto fare di piú.
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Ma non è successo niente. La sua preoccupazione del resto non era lí, l’importante era di evitare lo spirito famoso, quella peste lacrimevole.
Senza eccessiva paura Scrooge ha visto cosí gli addobbi d’occasione, gli alberi con le palline e i lumi, ha ascoltato gli auguri, le musiche e gli inni di circostanza, ha assistito ai festeggiamenti in programma. Cosí il comandante Giuseppe Soletti ha invitato a pranzo tutti gli ufficiali del bastimento e il capo commissario Fiorello De Farolfi si è affannato perché i ventuno abeti natalizi disseminati a bordo trasmettessero un po’ di serenità e di poesia ai pochi passeggeri, ce n’erano centoquaranta nella prima classe, cento nella classe cabina e appena novanta nella turistica.
E c’è stata la Santa Messa nella sala feste della prima classe alla presenza dell’intero equipaggio e di tutti quanti i passeggeri, e da dietro una colonna Scrooge sbirciava la gente, forse un po’ strana come lui, chissà come sbalestrata in mezzo all’Atlantico in una notte come quella. Il cappellano, padre Giuseppe Navone, ha parlato, toccando i cuori, tranne quello di Scrooge naturalmente, anzi lui ringraziava la sorte perché era sommamente improbabile che proprio durante la Messa lo spirito del Natale venisse a prelevarlo.
Infatti non è successo niente.
Poi, passeggeri ed equipaggio, fra nuovi inesauribili scambi di auguri, si sono sparpagliati per la immensa nave che a poco a poco si è fatta deserta e pericolosamente patetica. Allora è stato giocoforza per Scrooge risalire in cabina e qui egli ha avuto paura perché poteva darsi benissimo, dato il tipo, che il tremendo spirito nel frattempo si fosse introdotto nella cabina e adesso stesse appostato ad aspettarlo.
Ma aperto l’uscio, è entrato. Niente. Nessuno negli armadi del corridoio, nessuno nel bagno, nessuno nell’altro armadio di fronte al letto, nessuno nello stanzino dei bagagli, nessuno nelle valige e nei cassetti. Non c’era proprio anima viva.
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– Posso essere utile in qualche cosa, signore? – Era un cameriere in giacca bianca, affacciato sulla soglia del corridoio.
– Oh no, grazie.
– Ho visto la porta aperta, signore, ho pensato...
Scrooge ha controllato il cartellino affisso sulla parete coi nomi degli addetti alla cabina: – Lei si chiama Giovanni Canese?
– No, signore. Canese è un mio collega, io faccio il turno di notte –. Parlava in un inglese fluido e aristocratico, aveva una faccia rosea, sui quarant’anni, due occhi azzurri e vivi.
– E cosí è arrivato il Natale.
– Già.
– Peccato trovarsi lontani.
– Lontani da chi?
La nave dondolava lentamente.
– Da casa.
Silenzio.
– La famiglia, signore...
– Io non ho famiglia.
– Solo, signore?
– Solo.
Silenzio ancora, il rombo vago lontano delle macchine, lo scricchiolio delicato delle cose intorno, cosí misterioso.
L’uomo si è soffermato a chiudere un armadio rimasto socchiuso, si è ancora voltato, come avesse dimenticato una cosa.
– Buonanotte, signore.
– Buonanotte.
In quel momento Scrooge ha notato che sopra la testa dello steward tremolava una luce azzurrognola, come un ciuffetto di fiammelle. Oh, l’aureola dello spirito famigerato. Di colpo una quantità di pensieri confusi ed amari è venuta su dal fondo, con movimento di gorgo.
– Dunque... sei ancora tu?
– Sí, signore... Io non potevo abbandonarla... Io sono qui per farle del bene... Vuole che andiamo?
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Ernst Theodor Amadeus Hoffmann
Schiaccianoci e il re dei topi

La sera di Natale.
Durante tutta la giornata del 24 dicembre, i bimbi del consigliere sanitario Stahlbaum non avevano assolutamente avuto il permesso di entrare nella camera di mezzo e meno che mai nel salotto attiguo. Fritz e Maria sedevano rannicchiati in un angolo della cameretta sul retro dell’alloggio e già incominciavano a sentirsi piuttosto impauriti perché stava facendosi buio e nessuno era ancora venuto a portare il lume come tutte le altre sere.
Fritz confidò sottovoce, in gran segreto, alla sorellina (... sette anni appena compiuti...) che già fin dal mattino presto aveva sentito dei rumori, dei fruscii, dei colpetti nelle camere chiuse; e poco prima un omino scuro era sgattaiolato in corridoio con uno scatolone sotto il braccio... Non poteva trattarsi – Fritz lo sapeva bene – che del padrino Drosselmeier. Allora Maria batté le manine esclamando, tutta felice: – Ah!... Chissà che cosa ci avrà fatto di bello il padrino Drosselmeier!...
Il signor Drosselmeier, consigliere alla corte d’appello, non poteva precisamente dirsi un bell’uomo: piccolo, magro, con molte rughe sul viso e al posto dell’occhio destro un grosso cerotto nero; non aveva capelli ma portava, invece, una bellissima parrucca bianca, una parrucca, pensate, di vetro: un vero capolavoro. Non per nulla il padrino era un uomo molto ingegnoso; si intendeva anche di orologi e ne fabbricava perfino qualcuno. Perciò quando una delle belle pendole di casa Stahlbaum era malata e non poteva piú cantare, ecco, arrivava il padrino Drosselmeier: si toglieva la parrucca di vetro, la giacchetta gialla, si infilava un grembiale azzurro e incominciava a stuzzicare l’interno dell’orologio con i suoi ferretti aguzzi, ma senza fargli male, al contrario, perché l’orologio tornava a vivere, riprendeva a ronzare, a fare tic-tac, a cantare allegramente. E tutti erano contentissimi. Drosselmeier non veniva mai senza avere in tasca qualche bella cosina per i bambini: un ometto che girava gli occhi e faceva la riverenza (... a vederlo c’era da morir dal ridere!...), una scatoletta da cui saltava fuori un uccellino o qualcos’altro del genere. Ma per Natale fabbricava sempre certi giocattoli che erano veri capolavori di meccanica e perciò, subito dopo la distribuzione dei doni sotto l’albero, venivano presi in consegna e custoditi gelosamente dai genitori.
– Ah, chissà che cosa ci avrà fatto di bello il padrino Drosselmeier!... – tornò a sospirare Maria. Stavolta, decise Fritz, non poteva essere altro che una fortezza, con tanti bei soldatini di ogni genere che andavano avanti e indietro e facevano le esercitazioni... Poi sarebbero arrivati i nemici per conquistare la fortezza e i soldati, dal di dentro, avrebbero sparato coraggiosamente i cannoni... E che spari, che colpi!... – No, no, – lo interruppe Maria. – Il padrino Drosselmeier mi ha raccontato di un bel giardino con un grande lago e dei magnifici cigni con collari d’oro che nuotano in tondo cantando delle belle canzoncine... Poi una ragazzina si avvicina al lago, chiama i cigni e gli dà da mangiare del marzapane dolce... – I cigni non mangiano il marzapane, – corresse Fritz piuttosto brusco, – e poi il padrino Drosselmeier non può costruire un giardino col lago e tutto... Per dire la verità, dei suoi giocatto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione di Nico Orengo
  5. Racconti di Natale
  6. Inizi
  7. Lo spirito del Natale
  8. Gli spiriti di Natale
  9. Bad Christmas
  10. Sad Christmas
  11. Lieto finale
  12. Notizie sugli autori