Capitolo trentunesimo
Il mattino dopo telefonai a Hass in ufficio. La segretaria mi mise in attesa per un bel pezzo, poi tornò e disse: – Spiacente, la farò richiamare appena possibile –. Restai accanto al telefono. Il mio battito accelerava ogni volta che sentivo squillare il telefono al piano di sotto e l’impiegato alla reception che diceva: «Hôtel Eden, bonjour». Richiamò dopo venti minuti. Attesi tre squilli prima di rispondere.
– Dobbiamo parlare, le devo una spiegazione. Verrò io da lei. Possiamo vederci tra dieci minuti?
Un quarto d’ora dopo attraversava la hall dell’albergo.
– Dopo di lei, – disse, posandomi una mano fra le scapole mentre entravamo insieme dalla porta girevole.
Dopo qualche passo mi fermai.
– Da quanto tempo la conosce?
Mi prese delicatamente per il gomito. – Venga, – disse.
– Prima o dopo la scomparsa? – domandai, rifiutando di muovermi.
– Prima, – disse piano, con dispiacere. – La prego, andiamo, le spiegherò tutto.
Mi portò al caffè dove avevo notato Béatrice la prima volta. Il cameriere lo salutò e poi mi guardò un secondo di troppo, prima di condurci a un tavolo accanto alla vetrata che dava sulla strada. Hass fece scorrere un lungo dito affusolato dentro il colletto.
– Non volevo che la conoscesse in quel modo.
Scivolò sull’orlo della sedia e si guardò le mani.
– Ci ha mentito, – dissi.
Anziché protestare, ammise: – SÃ, è vero. Ma l’ho fatto a fin di bene. Sarebbe stato troppo.
– Non capisco. E cosa intendeva ieri quando ha detto che si era fatta un’idea sbagliata? Chi è quella donna? E come fa a conoscerla? E se la conosceva, perché non l’ha detto a me o a Mona?
– In realtà , anch’io mi ero fatto l’idea sbagliata. Avevo completamente frainteso la situazione. Vede, negli ultimi due giorni mi sono preoccupato, da quando lei è passata a dirmi che al caffè c’era un tipo sospetto, un uomo che sembrava arabo e che fingeva di leggere il giornale. «Ti ha seguita?», le ho chiesto. Mi ha risposto di sÃ, e il giorno dopo, le aveva detto il cameriere, l’arabo era tornato e sembrava che aspettasse lei. Un episodio del genere era già successo, capisce, e l’esperienza l’aveva lasciata… Be’, era sconvolta, del tutto sconvolta, ovviamente. Come non capirla? E io mi sono preoccupato per lei e anche per me stesso; a quanto pare le persone che hanno rapito suo padre non si fermano davanti a niente. Non ho fatto due piú due nemmeno dopo che lei è venuto a trovarmi in ufficio ieri. Ma come facevo a sapere che era lei l’uomo del caffè? Cosà le ho detto di non andarci piú. E ieri sera, quando ci ha visti insieme, la stavo accompagnando a casa.
Poi Hass si guardò le mani e sorrise, un sorriso sincero, pieno d’affetto.
– Quando l’abbiamo vista, Béatrice si è aggrappata forte al mio braccio e mi ha detto: «È lui». Io mi sono messo a ridere. «Ma quello è il figlio di Kamal», ho risposto, e lei non riusciva a smettere di guardarla. Voleva che vi presentassi là sul momento, ma, come ho detto, non volevo che vi conosceste cosÃ. Allora ha insistito perché la seguissimo da lontano. A un certo punto eravamo cosà vicini che l’abbiamo sentita parlare sottovoce tra sé. Ma poi, evidentemente, si è ricordato all’improvviso di qualcosa. Ha allungato il passo e, dopo qualche via, l’abbiamo persa di vista. L’abbiamo incontrata di nuovo per puro caso. Era fermo in mezzo alla strada deserta, che guardava in alto verso gli edifici. Mi sono accorto che a Béatrice erano venute le lacrime agli occhi. «Sta piangendo», ha detto, e mi ha trascinato verso di lei.
Sentire quel racconto mi provocò un senso di disagio. Cercai di rivolgere lo sguardo oltre la vetrata.
– Mi dispiace che l’abbia conosciuta in quel modo, – disse con una risatina nervosa. – Ma se penso che credeva che lei fosse…
– Chi credeva che fossi?
Si passò bruscamente la mano sulla bocca.
– Monsieur Nuri, sono certo che sono venuti anche da lei.
– Chi?
– Non mi dirà che in tutti questi anni nessuno è venuto a trovarla.
– Per l’amor di Dio, si può sapere di chi sta parlando e che cosa hanno detto a Béatrice?
Hass esitò prima di rispondere, perché il cameriere si era avvicinato al nostro tavolo. Mentre posava le tazze di caffè non mi toglieva gli occhi di dosso.
– Lo sa chi è questo? – gli chiese Hass.
Il cameriere assunse un’aria preoccupata.
Hass continuò: – È il figlio di Kamal Pasha.
L’espressione dell’uomo cambiò. Guardò Hass in cerca di conferma, e Hass alzò le sopracciglia e annuÃ. Il cameriere tese la mano, e io la strinsi.
– Che piacere, – disse.
– Il suo unico figlio, – disse Hass, come rammentandolo a se stesso.
– Strano che lei sia venuto allo stesso caffè, – disse il cameriere. – L’ha sentito, monsieur, ha sentito la sua presenza nell’aria.
Guardai Hass, e lui spiegò: – Suo padre veniva qui spesso.
– Davvero?
– SÃ, – confermò il cameriere. – Tutte le mattine. Abitava qui vicino, e…
– Basta cosÃ, – lo interruppe Hass.
– Be’, lei è il benvenuto, monsieur, davvero, – disse, e mi strinse di nuovo la mano.
Dopo un breve silenzio Monsieur Hass riprese a parlare.
– Conosco da sempre Béatrice Benameur. E, sÃ, ve l’ho nascosto. Ma sarebbe stato troppo complicato allora, per lei e per voi, in particolare per Madame Mona, incontrarvi.
Si appoggiò allo schienale.
– Vede, la maggior parte degli uomini passa tutta la vita a cercare di comprendere il proprio padre.
Ero sicuro che quell’ultima battuta se l’era preparata; sembrò uscire dal nulla.
– Nel mio caso, non ci fu mai un uomo piú misterioso di mio padre. Era uno all’antica. Affettuoso, ma formale. Morà quando ero giovane. Ma non penso che sarebbe diverso se fosse ancora vivo.
– Io e mio padre eravamo molto vicini.
– Certo che lo eravate.
Com’eravamo arrivati a quel punto, mi chiesi, con lui che fingeva di tollerare le mie illusioni?
– Ma i fatti della vita di un uomo – proseguà – dicono molto piú della sua presenza. Devo raccontarle di Béatrice. Lei non sa chi è veramente né cosa significasse per suo padre. E quando lo saprà , comprenderà le mie azioni.
– Ma che ci faceva là con lui? È una cosa molto sospetta. E il fatto che lei ci abbia mentito la rende ancora piú sospetta.
Hass mi guardò con un’espressione grave.
– Deve parlare con lei. È passato abbastanza tempo. Béatrice significava molto per suo padre e non ha nulla a che fare con la sua scomparsa. Ha sofferto moltissimo, e in silenzio, da quando è successo.
Poi, dopo un bel po’, aggiunse: – Cos’è che rende certi uomini inadatti alla vita coniugale? Per alcuni è un conforto, per altri una prigione. E perché alcuni si accontentano di una donna mentre altri no? Sono domande stupide.
– È un sollievo che lei la pensi cosÃ.
– La verità è che suo padre aveva delle amanti. Tuttavia, con Béatrice, le cose erano piú complesse. Posso dire, senza alcun dubbio, che suo padre la amava. Se è ancora vivo, mi sorprenderebbe che non fosse piú innamorato di lei. Era un sentimento molto forte. E avevano una vita insieme qui, capisce, in questa città , che assomigliava a una vita normale, una vita come quella di qualunque coppia sposata, una vita, credo, non molto diversa da quella che lei e sua madre condividevate con lui al Cairo.
Sentivo un formicolio in tutto il corpo adesso. Avevo voglia di andarmene. Ma lui riprese a parlare.
– Tra un uomo e una donna accade qualcosa che nessuno può sondare –. Guardò la strada. – Un segreto che persino loro potrebbero non conoscere mai. Eccola, – disse, ed entrambi vedemmo Béatrice che attraversava. – Sia delicato con lei, – sussurrò, e io mi sorpresi a rispondere: – Non si preoccupi.
Béatrice Benameur entrò nel caffè e si sedette accanto a Hass.
– Vi lascio soli, – disse lui, alzandosi.
– Non puoi restare anche tu? – chiese lei.
Lui le sorrise in un modo che probabilmente riservava a quelli con cui era piú in intimità .
Lo guardammo mentre si allontanava. Superandoci, ci salutò con la mano.
– È una brava persona. Può essere persino troppo protettivo. È sempre stato cosÃ, fin da quando eravamo bambini. Gliel’ha detto? Siamo cugini.
– Capisco.
C’è un momento in cui il cervo vede il suo predatore e lo riconosce. Era cosà che Béatrice Benameur mi guardava, adesso. Riconobbi in lei qualcosa di me stesso. Eravamo i sopravvissuti, quelli destinati a rimanere indietro. Lei distolse lo sguardo e io studiai i suoi lineamenti. Il tempo aveva inciso delle rughe in un viso ancora indubbiamente attraente. Cercai di immaginare che aspetto potessero avere lei e papà seduti uno di fianco all’altra, invecchiando in una città nella quale si potevano dare molte cose per scontate.
– Non passa giorno che non pensi a lui, – disse. – Mi è scivolato fra le dita. Mi sento responsabile. Come se me lo fossi lasciato cadere di mano.
Serrai la mandibola per fermare il tremito ai denti. Era stata lei la prima persona a cui papà aveva telefonato il giorno della morte della mamma? L’avrei perdonato. Mi domandai che cosa rappresentasse lui per lei, come lo chiamasse, se avessero avuto dei soprannomi l’uno per l’altra.
– Nella mia mente, – dissi, – non lo comprendo mai del tutto. Gli sono troppo vicino per capirlo fino in fondo.
Poi ci fu un lungo silenzio, ed ebbi la sensazione di aver detto troppo.
– Sono entrati cosà silenziosamente mentre dormivamo. Ancora non so come siano potuti entrare senza fare il minimo rumore. Io ho un sonno cosà leggero. Suo padre mi prendeva sempre in giro; diceva che per svegliarmi sarebbe bastata una nuvola di passaggio sopra la luna piena. Quando mi sono svegliata erano lÃ, fermi ai piedi del letto, una coppia. Non riuscivo a vedere le facce perché il chiarore della luna filtrava dalla finestra alle loro spalle. È successo tutto molto lentamente. Mi sono girata per svegliare Kamal, ma lui era già sveglio. Come faceva a sapere che sarebbero venuti?, ricordo di aver pensato. Era seduto nel letto e sembrava che li aspettasse. Ho cercato di gridare ma non ce l’ho fatta. A quel punto riuscivo a distinguerli: un uomo in abito intero, quasi sorridente, e al suo fianco una donna. Lei sembrava tesissima, addirittura in preda al panico, e gridava qualcosa al suo compagno; lui, invece, aveva l’aria di averlo fatto molte altre volte. L’uomo ha detto qualcosa in arabo, e Kamal ha cominciato a vestirsi. Io mi sono messa a urlare, ma nessuno di loro, nemmeno Kamal, ha battuto ciglio. La donna ha estratto una pistola col silenziatore, e io ho smesso. Le tremavano le mani, me lo ricordo. Lo hanno preso ciascuno per un braccio e l’hanno portato fuori. Lui non mi staccava gli occhi di dosso. Vedo ancora la sua faccia, girata verso di me. La vedo in sogno, e la vedo quando sono sveglia. Mi sono messa a camminare per la stanza. Non sapevo cosa fare. Poi ho chiamato Charlie; Kamal diceva che se fosse successo qualcosa prima di tutto avrei dovuto telefonare a Charlie. Lui mi ha detto di aspettare venti minuti prima di chiamare la polizia. Quando gli ho chiesto perché, mi ha ripetuto soltanto che dovevo aspettare almeno venti minuti. Il motivo l’ho capito quando un suo amico giornalista è arrivato cinque minuti prima della polizia. L’idea di Charlie era che piú attenzione avesse ricevuto il rapimento, con la dovuta enfasi sulle implicazioni politiche – il fatto che un ex ministro e leader dissidente fosse stato prelevato sul suolo svizzero –, piú c’erano possibilità di ritrovare Kamal. Naturalmente non avevo nessuna voglia di finire in pasto ai tabloid, ma mi sono prestata di buon grado, perché se la polizia fosse arrivata per prima, tutto sarebbe stato messo a tacere nel giro di un minuto –. Dopo un breve silenzio, disse: – Cosa pensa che sia accaduto a suo padre?
Non sapevo cosa rispondere. La verità è che non credo che papà sia morto. Ma non credo nemmeno che sia vivo.
Tirò fuori dalla borsetta una fotografia e me la mise davanti. Papà in piedi all’angolo di un marciapiedi, l’acciottolato che digrada ripido alle sue spalle e poi fa una curva a gomito sulla destra. Ha le braccia leggermente scostate dal torso, le maniche rimboccate. Gli occhi sono un po’ disorientati. Lo sanno. E anche le guance lo sanno: scavate e di un tono piú scure. E nella tasca della camicia si intravede il tappo di una biro economica. Sembra un maestro di scuola. Ha un aspetto guardingo, pronto.
– Place du Bourg-de-Four, il giorno prima che succedesse, – disse lei, e mi guardò. – Stavamo passeggiando, e ho pensato che dovevo scattare una foto. Strano, perché non mi è mai piaciuto particolarmente fare fotografie. Ma c’era qualcosa di speciale quel giorno. Lo si sentiva nell’aria. Può tenerla, – disse, poi le vennero le lacrime agli occhi.
Ritirai la mano.
– Non dovrei piangere. Lei ha perso molto di piú.
Avrei voluto chiederle del sangue sul cuscino, del paralume in frantumi, dei segni di colluttazione descritti sulla «Tribune de Genève». Ma poi, guardando fuori dalla vetrata, lei disse: – Odio questa città , tutto il sudiciume che raccoglie.
Capitolo trentaduesimo
Quel pomeriggio localizzai il punto esatto in place du Bourg-de-Four e mi ci piazzai guardando nella stessa direzione in cui era rivolto papà , verso le persiane ammiccanti di rue Saint-Léger. Forse avrei dovuto chiedere a un passante di farmi una foto in quel punto. Non avrebbe avuto ragione di sospettare nulla di strano. Dopo un quarto d’ora, misi via la macchina fotografica e proseguii.
Béatrice mi aveva dato il suo numero, ma mi chiedevo se un’altra conversazione, solo un paio d’ore dopo il nostro incontro al caffè, non sarebbe stata troppo per tutti e due. Mi fermai a un telefono pubblico e, senza sapere cosa avrei detto, composi il numero. Rispose lei.
– Posso venire a casa sua? – Non ottenendo risposta, aggiunsi: – Voglio vedere dove è successo.
– Certo.
Suonai il citofono e lei rispose immediatamente. Di fronte all’appartamento, udii i suoi passi leggeri avvicinarsi quasi di corsa alla porta. L’aprà e si mise di lato. Sentii un profumo nell’aria. Indicò la cucina, dove su un tavolo rettangolare appoggiato contro il muro c’era un giornale aperto, con accanto una tazza fumante. Chiazze di sole filtravano tra le foglie ingiallite di un albero che si allungava sopra la finestra. Quando vide che esitavo, disse: – È sicuro di volere?
– SÃ.
La seguii in camera da letto. La stessa finestra. Girai intorno al letto fermandomi dove avevo sempre immaginato che si trovasse lui quando era successo. Premetti le mani sul materasso. Mi sedetti, dandole le spalle. Il comodino era sgombro. Su una mensola appesa alla parete, isolate, c’erano una biografia del nostro re e la Storia degli arabi di Philip K. Hitti. Mi sdraiai, ancora con addosso il cappotto e le scarpe. Solo allora mi resi conto che lei era uscita dalla stanza. Sentii il mio corpo sprofondare nel letto. Il soffitto era perfettamente bianco. Non c’era una crepa, né una macchia, né un insetto, né una ragnatela. Chiusi gli occhi.
Trovai Béatrice in cucina, con le palpebre arrossate. Quando mi vide si alzò e aprà una mano in direzione della sedia di fronte. Mi sedetti e osservai la luce scialba filtrare attraverso le foglie alle sue spalle. Non ci fu bisogno di dire nulla.
Qualche minuto dopo parlò.
– Tutto quello che vede l’abbiamo scelto insieme. Quando ci siamo trasferiti, lui ha insistito persino perché dipingessimo noi le pareti.
Non riuscivo a immaginare mio padre che faceva una cosa del genere.
– Era cosà entusiasta: scegliere i colori, imparare a usare il rullo. Mi faceva ridere.
Mi guardai intorno, guardai le pareti della stanza.
– Con lui ho passato alcuni dei momenti piú belli e dolci della mia vita. Avrei voluto che durassero per sempre.
Dopo un lungo silenzio, sentii ...