
- 248 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Great Jones Street (versione italiana)
Informazioni su questo libro
La rockstar Bucky Wunderlick, all'apice della fama, decide di abbandonare il suo gruppo mentre è in corso una tournée. Si rifugia in un angolo nascosto di New York, in un appartamento di Great Jones Street, per sfuggire al culto della personalità di cui è oggetto e a un successo in cui non crede piú. L'esilio del protagonista, però, è continuamente disturbato dalle visite piú disparate: giornalisti a caccia di scoop, agenti interessati a certe sue incisioni inedite, emissari di una misteriosa comune agricola che tentano di coinvolgerlo nel commercio di una nuova e potente droga carpita ai laboratori federali.
In queste pagine DeLillo mostra tutta la maestria di linguaggio che lo ha reso uno dei protagonisti della letteratura contemporanea.
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Informazioni
Print ISBN
9788806189846eBook ISBN
9788858401903SUPER KIT PRESS
CEREBROCOSTRITTORE
CEREBROCOSTRITTORE
Il caso Bucky Wunderlick
Articoli, testi di canzoni
e interviste psicotiche
e interviste psicotiche
A cura della Esme Taylor Associates
filiale della Transparanoia
page_no="87" filiale della Transparanoia
Capitolo dodicesimo
Quando abitavo nella villa in montagna mi ero fatto costruire una stanza speciale nell’ala riservata allo studio di registrazione. Era una camera anecoica, isolata acusticamente e priva di vibrazioni. L’intera stanza era imbottita e foderata di pannelli acustici in fibra di vetro per assorbire la minima eco. In quella stanza io ascoltavo i nastri delle mie canzoni, sia durante la composizione che allo stadio finale. In quella camera la musica era una presenza liquida, un vino invisibile da assaporare con le orecchie. Lí ascoltavo spesso, ma non sempre, i nastri. A volte mi limitavo a starmene seduto là dentro, incuneato nel silenzio, nel tentativo di allontanare la sensazione che il tempo sia effettivamente estensibile. Quella cameretta mi sembrava un deserto glaciale, delimitata unicamente da materie solide e non soggetta ad alcuna ipotesi guida, di un candore molto piú spaventoso che non negli istanti in cui dai nastri sdrucciolava musica pura. Se si potesse espandere un minuto, cosa ne rivelerebbero i componenti sconnessi? Forse una specie di follia astrale. Una triste comprensione, per quanto vaga, delle dimensioni ultime delle cose. Ovviamente la stanza non rivelava segreti veri, e della natura del silenzio in sé e per sé non forniva piú che un’intuizione. C’era sempre qualcosa da sentire, perfino in quell’aria rarefatta, il fragore della terra che volteggiava, le cellule del corpo che reagivano alla battaglia.
Azarian arrivò da Los Angeles a porgere le condoglianze. Salí le scale, mi strinse la mano e si spostò all’altro capo della stanza rimanendo immobile. Lungo il viaggio gli avevano dato la notizia ufficiale: la morte di Opel era stata naturale, risultato di una trascuratezza cronica. Infezione pancreatica acuta, polmonite virale, occlusione intestinale, una malattia renale non contagiosa localizzata nei vasi sanguigni. Mi domandavo quanto avesse sofferto per riuscire a non deviare dalle proprie regole di comportamento, cosí crudeli. Gli attriti. L’idea di lasciar determinare il modo in cui si deve morire dallo stress che si prova nel cercare di vivere. Tirare avanti nella speranza che non faccia piú male di tanto. L’intransigenza di una bambina ammaliata. Nel mio amare la bambina avevo sempre temuto la donna, almeno in parte, nella consapevolezza della sua determinazione e che a definire quello che lei sperava di guadagnare o perdere era solo un confine impercettibile. Era qualcuno contro cui misurarmi. Azarian disse anche che Globke aveva contattato la famiglia e si era occupato dei preparativi per rispedire a casa la salma, per via aerea.
– Che fai a L.A.? – gli domandai.
– Cose grosse. Forse non dovrei nemmeno parlartene. Cosa che infatti sono deciso a non fare.
– Cioè?
– La nerezza.
– Vuoi dire la musica dei neri?
– Intendo il nero. Tutto – rispose Azarian. – Il nero in quanto tale.
– E come si sta nella nerezza?
– Per ora non ci sono dentro piú di tanto. Ma vado avanti, un pezzetto alla volta. Sul serio, davvero non dovrei parlartene. È una cosa profonda, Bucky. Profonda e tenebrosa. E pesa tanto che mi schiaccia, praticamente mi schianta i polmoni. Fa molta paura. Paura di qualsiasi tipo. Non mi viene in mente neanche un attimo in cui non ho paura.
– E come ci si entra, nella nerezza? Bisogna prima togliersi di dosso il biancore? O basta buttarsi a testa bassa e rischiare ogni pericolo fisico e mentale?
– Che c’entro io con la nerezza? È questo che mi chiedi?
– Riesci a verbalizzarlo? – domandai.
– C’entra con la strada. La nerezza è questione di strada. È identificarsi con le persone di strada. Watts è un mucchio di strade. Idem per Bed-Stuyvesant. A Harlem quello che conta non è tanto l’incrocio di strade, quanto piuttosto la storia e le cattive vibrazioni. Nero è duro, nel senso migliore. Nel senso che è quella la strada se vuoi trovare senso nella magia dell’esistere. Uno attraversa strade e peso e terrore e ne emerge piú dimensionale.
– Ma se non sei nero come entri in relazione con la nerezza?
– Non lo so verbalizzare – rispose lui.
Io gli indicai una sedia, ma lui rispose che preferiva stare in piedi. Sembrava voler evitare il mio sguardo. Gli occhi rabbiosi dei dolenti. Rivoletti di ghiaccio sciolto gli formavano piccole pozzanghere sotto gli stivali.
– Come va la band?
– Stiamo registrando le voci – rispose. – Però ci sono ancora un sacco di problemi contrattuali. Ora come ora non saprei dire per chi stiamo registrando. Ogni cinque minuti entra in sala qualcuno a urlarci addosso. Quando ti fai rivedere?
– Non ancora. Sono rimasto indietro. Devo rimettermi in sesto.
– Bucky, a proposito di questa gente che rappresento. Gli interessa moltissimo mettere le mani sul prodotto di cui abbiamo parlato l’ultima volta che sono passato di qui.
– Parla con la Happy Valley.
– Ho paura, Bucky. E non solo del dolore fisico o di venirne fuori invalido a vita. A farmi paura è proprio l’idea di chi sono.
– E chi sono?
– Lo sai meglio di me. Tu con loro hai avuto contatti. Hanno ingaggiato Opel come mediatrice. Ora come ora tu sai molto piú di me sul loro conto. In altre parole, sei tu che dovresti parlargli. Mi rendo conto che sei in lutto, o qualunque sia l’equivalente del lutto per le celebrità. Per cui è ovvio che hai altro per la testa, e del resto se non ti va di fare affari adesso c’è sempre un dove e un quando. Ma se vado io a parlare con la Happy Valley per conto mio può capitare qualsiasi cosa, soprattutto visto che c’è stata una scissione nei loro ranghi.
page_no="113" – Il che rende tutto piú interessante – dissi. – Si potrebbe mettere una fazione contro l’altra.
– Ma sei impazzito? Non mi passa neanche per l’anticamera del cervello. Sei impazzito?
– E allora perché non ti limiti a suonare?
– Infatti sto suonando, Bucky. Da quando ho il trip della nerezza, mi interessa moltissimo il rock’n’roll delle radici. Sto cominciando a studiarlo molto a fondo. Ma c’è anche un’altra parte di me che sta cercando di trovarsi un posto. Nella società odierna c’è molto di cui avere paura. Voglio stabilire relazioni durature con queste persone della Costa di cui ti ho parlato, fra l’altro anche per studiare e portare alla luce le fonti delle mie paure. Abbiamo elaborato un piano insieme, secondo cui tu, con la tua influenza e il tuo carisma, potresti fare un’offerta alla Comune Agricola di Happy Valley, una fazione o l’altra, decidi tu quale, fai testa o croce, chiunque abbia controllo sul prodotto, e puoi farla senza lasciarti sfuggire che nel progetto sono coinvolto anche io e i miei amici della Costa, senza fare nomi a parte quelli che decidi di fare tu. Vuoi i dettagli?
Io scossi il capo e gli indicai un’altra volta la sedia. Azarian voleva starsene in piedi, fermo all’angolo opposto nel tentativo di evitare il centro della stanza, punto che sembrava considerare pericoloso se non addirittura inavvicinabile, con l’odore di Opel ancora abbarbicato ai mobili e agli oggetti, e a quel punto si mise a parlare dei vecchi tempi, quando la celebrità era priva di complicazioni, e delle donne che entravano e uscivano dal letto, piú di una per notte, donne che andavano e venivano come venditori di popcorn al circo. Ci stringemmo di nuovo la mano. Poi lui se ne andò in città a farsi intervistare per una stazione radio FM stereo.
page_no="114" Capitolo tredicesimo
Nulla cambiava, si alterava o variava. Nella stanza non c’era neanche una pianta, rampicante o morente. Non vedevo insetti di sorta. La neve mista a pioggia batteva alla finestra a colpi irregolari e leggeri, e tutte le opere di demolizione nel quartiere erano sospese a causa del clima. Il tempo sembrava non tanto passare quanto erigersi, acquistare peso gradualmente. Era l’unica cosa che crescesse e contro il tempo era sospeso il silenzio, scorticato a rivelare gli incubi bianchissimi a cui si dava voce al piano di sotto. Cercavo di farmi tornare in mente persone e cose. La pioggia sulla pista di decollo dell’aeroporto internazionale. La pioggia su un villaggio rurale ricostruito in studio. La pioggia nella provincia malata terminale. La pioggia ai vespri sull’eliporto vicino al fiume. La pioggia nel giardino astratto. La pioggia sugli stivali della puttana a Monaco. La pioggia sulla brughiera senza nome.
Tornai alla radio, a guardare la stazione dei vigili del fuoco e a rimanere fermo immobile. L’artista siede immobile, in definitiva, perché la materia con cui opera inizia a plasmargli la vita invece di lasciarsi plasmare, e nella staticità l’artista cerca una forma di autodifesa, che si concluda nella putrefazione, o in un’immobilità a passo uno. Ma non ero ancora arrivato a quel punto del mio percorso. Sognavo il ritorno ai palazzi millenari, alla grande carcassa stremata del rock’n’roll, rattoppata ma sempre in piedi, per quanto ne sapevo, in questa o quell’altra città, sempre viva al limitare dei ghetti comatosi.
Venne a trovarmi un uomo. Era in doppio petto e camicia a colletto rigido. Capelli acconciati alla moda, folti e diritti, fissati con la lacca e che scendevano a frangia sulla fronte, una specie di arte muraria rinascimentale. Era fermo sulla soglia con il soprabito ripiegato sul braccio, la mano tesa nell’ansia di vedersela stringere.
– Tu chi sei?
– Della ABC – rispose.
– Lascia perdere.
– Niente di lungo o elaborato. Un’intervista breve. Una differita televisiva con le tue risposte a certi argomenti d’interesse pubblico. Neanche dieci minuti. Abbiamo preparato tutto da basso. Dieci minuti. Hai la mia parola, Bucky. Parola di ammiratore personale.
– Assolutamente mai.
– Ho un mio spazio al notiziario locale di metà mattina. Nel caso non avessi riconosciuto la faccia. Mi occupo di problemi giovanili e idoli giovanili. Be’, certo, alla fine dei conti si tratta del solito lavaggio del cervello che non piace neanche a noi e a cui ci opponiamo, ma d’altronde l’unico modo che abbiamo per dare spazio a determinate voci è infilarle in piccoli interstizi da una parte o dall’altra del palinsesto. È tutta questione di allentare la pressione che i diversi slot di programmazione esercitano uno sull’altro e poi infilarci dentro i visionari, o i profeti se preferisci, le voci autentiche delle personalità che non se la menano. Dieci minuti di botta e risposta sotto la telecamera. Se vuoi saperlo, mi sono studiato la tua opera a sangue.
– No.
– Da quando mi occupo di celebrità non ho mai fatto ricerche cosí approfondite. Una volta avevo un lavoro di merda. Ma il mercato si è ammorbidito, le facce vecchie cominciano a sgretolarsi e nuovi spazi diventano disponibili. Voglio riempire qualcuno di questi spazi lavorando sul giovanile. Bucky, solo qualche commento a caldo sulle voci, su dove ti trovi, sui tuoi progetti futuri, se ne hai. Ti chiedo solo un minimo del tuo tempo. Anzi, direi che non è neanche una richiesta, se pensi a quelle che faccio di solito.
– Forse fra una decina d’anni.
page_no="116" – Il tuo potere aumenta, Bucky. Piú tempo passi isolato e piú si fa pressione sui mass media perché pubblichino notizie e foto rilevanti. Noi ti domandiamo qualcosa non perché siamo sciacalli mediatici, di qualsiasi media si tratti, ma in tutta sincerità perché, proporzionalmente, è la stessa domanda che fanno a noi. Il pubblico vuole articoli e fotografie. Vuole immagini. Il tuo potere aumenta. Meno dici piú esisti. Ma questa è una verità lapalissiana, nel nostro campo, e non sono qui per mostrarti le mie credenziali di teoreta o spacciatore di idee. Io sono un’entità da diretta televisiva. Faccio quello che devo fare e poi esco in dissolvenza. È complicato vivere cosí. Permettimi di spiegarti in dieci parole o anche meno cosa ho qui da basso.
– Non si può rimandare?
– Ho una telecamera e ho il sonoro – proseguí lui. – Sono giú in strada. Cameraman, tecnico del suono, tutti e due professionisti di prim’ordine, artisti, se preferisci. Vorremmo intervistarti proprio di fronte al condominio. Carrellata verticale su noi due dall’alto del palazzo. Noi due fermi nella neve. Io tengo l’ombrello e intanto parliamo.
Mi guardò le mani e poi in faccia, come per controllare carnagione e colorito in modo da commisurarli alla passione della sua telecamera, alle abili mascelle sbocconcellanti.
– Torna quando non sono in casa – gli dissi. – Sarà molto piú facile. Puoi fare quello che vuoi.
– Ho molta fretta di riempire quegli spazi, Bucky. Davvero. Il tuo potere aumenta. Mi scoccia pensare che questi spazi non vengano riempiti. Che ci infiliamo dentro? Ormai abbiamo trasmesso spezzoni di festival rock ripresi praticamente dappertutto tranne che nelle Okefenokee Swamps, e sicuramente fra poco ci chiederanno di usare anche quelli, con il pubblico che si becca il tifo o si fa divorare dai coccodrilli.
– Interessante, quella camicia che porti.
– Questa camicia? Questa camicia è un’opera di concettualismo sartoriale. Collo piú alto del normale. Gemelli. Colori forti. Taglio attillato. D’importazione scandinava, prezzo ventidue e novantacinque. Guardami in faccia.
page_no="117" – E perché?
– Guardami in faccia. Su, da vicino. Cosa vedi?
– Non saprei – risposi.
– Vedi dei pori in salute. Pori non intasati. Vuoi sapere come faccio, vero? Ho una macchina dermatologica per il viso. Serve a pulire i pori da tutte le sostanze inquinanti. Li spazza via dai pori della pelle. Vuoi sapere perché mi prendo tanta briga, vero? Be’, senti, io vengo ripreso in media per tre minuti ogni giorno della settimana, sei giorni la settimana. Il che dice tutto. Il caldo. I riflettori. La tensione. Il sudore. I primissimi piani. Cominci a capire, vero? La macchina dermatologica. Lo spazzolino per pori. La maschera di gel trasparente. Il sapone detergente ipoallergenico. È nel mio interesse trasmettere un’immagine pulita. Vuoi che ti dica come ho fatto a sapere che eri nascosto qui?
– No.
– Qualcuno ha cantato – disse lui. – C’è qualcuno che spinge. C’è qualcuno che sta cercando di cacciarti fuori da qui. Ma per il momento è ora che me ne torni in città. Un vero peccato buttare via quello spazio libero. Dio ti benedica, nonostante tutto. A presto. Ci si vede. Pace.
– Guerra – dissi.
Accesi la radio. Gli annunciatori recitavano a turno notiziari identici. Ciascuno passava il testimone al successivo, in serie, finché non si completava il ciclo. Le parole cambiavano solo in minima parte, e i toni di voce rimanevano costanti per ore. A un certo punto dal nido di interferenze radio emerse una voce nuova, fantastica e selvaggia, musica per le mie orecchie, una voce che mette in azione energie gastriche.
«S-senti che ti dico baby, qui Doo-Wop, balla e sballa, uau uau uau, senti che ti dico ma non fare cosa faccio, agita il piedino, ay chihuahua, musica mostruosa, buttati giú e gira, senti che consolle, Doo-Wop baby, ascolta qua e vivi, ecco la mostruosa numero otto, Bad Jasper Brown con la sua Mama Mama Mama, rocca e rolla, Doo-Wop boppa la testa tosta, uau uau uau, mostruosa numero otto, mama mama fammi vedere che c’è, Bad Jasper, fammi male».
page_no="118" In quel momento arrivò Hanes. La sua macerazione esemplare lo faceva sembrare ancora piú giovane, ragazzino elegante dei boulevard, intelligente e fragile, sempre pronto a rinunciare perfino alle pallide ombre dei propri piaceri, epicureo che si crogiolava nelle privazioni. Stringeva in mano un sacchetto dei grandi magazzini Macy’s.
– Condoglianze eccetera – disse. – Stava appena cominciando ad accettarmi come persona. Aveva detto addirittura che forse un giorno o l’altro sarei riuscito a piacerle. Non ho motivo per credere che non avrebbe funzionato, intendo il fatto di lavorare insieme a Opel.
– Sei venuto per il pacco?
– C’è un morto stecchito fuori sulle scale.
– Dev’essere recente – risposi.
– Gli hanno spaccato la testa.
– C’è bisogno che torni qui Florence Nightingale a darci consiglio su come risolvere faccende del genere.
– Forse riesco a comprarmi un registratore stereo a otto piste. Tu quale mi consiglieresti? È l’unico pezzo che mi manca all’impianto. Mai lasciare che i soldi interferiscano coi pensieri. Forse sarò presto nella posizione di permettermi il meglio.
– Non sono molto aggiornato – dissi.
– Ti stai perdendo un mucchio di cose. Ne stanno succedendo parecchie. Tutto sommerso, ovviamente. In superficie, non si nota nulla. Però non significa che non stia succedendo niente. Giusto per tua conoscenza, l’altro ieri qualcuno ti ha visto in Inghilterra, in tre città diverse. E pare che ti abbiano sepolto in una tomba anonima nel Montana rurale. Forse nel senso di contrapposto al Montana ur...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Great Jones Street
- Super Kit Press Cerebrocostrittore
- I nastri della montagna