1.
– Ma sono merda.
– Eppure allo stesso tempo sono arte. Opere d’arte sopraffina. Sono letteralmente incredibili.
– No, sono letteralmente merda è letteralmente quello che sono.
Atwater stava parlando con il suo condirettore di «Style». Era vicino alla coppia di telefoni pubblici nel corridoio fuori dal ristorante dell’Holiday Inn dove aveva portato i Moltke a mangiare per ricevere ulteriori chiarimenti. Il corridoio conduceva agli ascensori e ai bagni del primo piano e alla cucina sul retro del ristorante.
A «Style», quello di direttore era piú che un titolo dirigenziale. Le vere mansioni di direttore di norma erano svolte dai cosiddetti condirettori. Era una convenzione invalsa in tutta la subindustria del gruppo BSG.
– Se solo tu potessi vederli.
– Non li voglio vedere, – replicò il condirettore. – Non voglio vedere la merda. Nessuno vuole vederla. È questo il punto, Skip: la gente non vuole vedere la merda.
– Eppure se tu…
– Manco la merda sagomata nelle varie fogge o miniature che a quanto dicono assume in questo caso.
La stagista di Skip Atwater, Laurel Manderley, stava con l’orecchio incollato al ricevitore a origliare l’intera conversazione bilaterale. In origine Atwater aveva telefonato a lei perché non era pensabile chiamare il numero interno della capostagista del condirettore di domenica e chiederle di accettare una chiamata a carico del destinatario. L’intera redazione di «Style» quel fine settimana lavorava perché il numero doppio estivo della rivista andava chiuso entro il 2 luglio. Era una fase concitata con lo stress che arrivava alle stelle, come Laurel Manderley non avrebbe mancato di far notare per l’ennesima volta a Skip alla riunione successiva.
– No, no, è che non viene sagomata, è questo il fatto. Non hai… esce cosí. Già pienamente formata. Perciò è incredibile –. Atwater era un bassetto cicciotello con la faccia da ragazzino che a volte chiudeva inconsapevolmente un pugno all’altezza del polso e lo muoveva su e giú a tempo con ogni sillaba che scandiva. Un colletto bianco di «Style», basso e scampanato, grintoso e competente, uno che faceva il gioco di squadra e non difettava mai in gentilezza. Spesso un po’ troppo in ghingheri nelle occasioni sociali – per dirne una, il corridoietto dell’Holiday Inn era caldissimo e soffocante, eppure Atwater non si era tolto la giacca né allentato la cravatta. Tra alcune delle stagiste piú incarognite di «Style» girava voce che Skip Atwater sembrava un fantino che si era ritirato giovane interrompendo gli allenamenti con grande clamore. Alcuni non erano nemmeno tanto sicuri che si facesse la barba. Suscettibile sull’argomento faccia da bambino, come pure su quello dimensioni e vistosità delle orecchie, Atwater non sapeva di essersi fatto una nomea perché portava sempre completi giacca e pantaloni con le pinces blu marina dozzinali pressoché identici, cosa che piú di tutte tradiva le sue origini del Midwest agli occhi delle stagiste che avevano qualche nozione anche minima di geografia culturale.
Il condirettore aveva un telefono a cuffia e mentre parlava con Atwater allo stesso tempo era alle prese con certe altre mansioni direttoriali. Era un finto orso grande e grosso, un cinico da far paura e una compagnia spassosa, come spesso i direttori di giornale, rinomato soprattutto per la capacità di battere a macchina due testi completamente diversi in contemporanea, una tastiera sotto ciascuna mano, che risultavano poi pressoché privi di errori. Le stagiste redazionali di «Style» erano affascinate da quel talento bimanuale, e spesso cercavano di convincere la capostagista del condirettore a farglielo mettere in pratica durante i brevi ma intensissimi festeggiamenti che avevano luogo dopo la chiusura di certi numeri, quando tutti avevano bevuto qualche bicchiere e i normali freni imposti dalle qualifiche e dalla creanza si allentavano un po’. Il condirettore aveva una figlia alla Rye Country Day School, frequentata all’epoca dell’adolescenza anche da numerose stagiste di redazione di «Style». Quel talento con le tastiere era interessante anche perché il condirettore non aveva mai veramente scritto per «Style» né per altri giornali – aveva fatto carriera all’ufficio «Verifica dei fatti», che in senso tecnico era una costola dell’ufficio legale e rispondeva a una sezione completamente diversa della società madre di «Style». Fatto sta che la battitura in due tempi spiegava la sovrabbondanza di ticchettii in sottofondo mentre il condirettore rispondeva a uno sproloquio che trovava irritante e non nello stile di Atwater, che di norma era un professionista consumato, e conosceva alla perfezione il terreno battuto dagli speciali della rubrica CHE SI DICE NEL MONDO di «Style», e in passato non aveva mai avuto problemi a dare uniformità o sostanza ai suoi articoli, che il piú delle volte andavano in stampa senza quasi essere rivisti.
Lo scambio fra i due era veramente molto rapido reciso e succinto. Il condirettore stava dicendo: – Ma che fatto e fatto, e come li rappresenti? Vorresti per caso fotografare quel tizio sul trono, mentre produce? Vorresti descrivere l’operazione?
– Quello che dici è comprensibile e ha una sua validità, ma quello che dico io è che dovresti solo vedere i risultati. Le opere in sé –. I due telefoni pubblici avevano una struttura di impiallacciato con una specie di ombelico di acciaio rigido per l’elenco telefonico. Atwater aveva detto di non poter usare il suo telefono perché una volta che ti spingi abbastanza a sud di Indianapolis e di Richmond non ci sono abbastanza ripetitori cellulari da fornire un segnale decente. Tra le porte di vetro e la mancanza di aria condizionata diretta, in quel corridoietto angusto ci saranno stati 40 gradi, oltre al frastuono – la cucina era sicuramente al di là della parete, perché arrivavano distintamente urla e baccano in quantità industriali. Atwater aveva lavorato in un ristorante aperto 24 ore su 24 a ridosso di un’area di servizio della Union 76 mentre si specializzava in giornalismo alla Ball State, e conosceva bene i rumori di una cucina dove gli ordinativi si susseguono a ripetizione. Il ristorante di Muncie si chiamava semplicemente MANGIA. Atwater dava le spalle al tutto in una posa piú o meno concava, ripiegato su se stesso entro lo spazio del telefono, come spesso quelli che usano i telefoni a pagamento nei luoghi pubblici. Il pugno si muoveva appena sotto la mensolina dov’era poggiato l’esile elenco con la bordatura dorata di Whitcomb-Mount Camel-Scipio e comunità limitrofe. Il nome tecnico del ristorante dell’Holiday Inn, riportato sull’insegna e sui menu, era «Al vecchio buffet di campagna». Subito alla sua sinistra, una coppia di una certa età cercava di far passare una quantità spropositata di bagagli dalle porte a vetri dell’atrio. Prima o poi sarebbero arrivati a capire che uno dei due doveva entrare e tenere le porte aperte all’altro. Era il primo pomeriggio del 1º luglio 2001. Ogni tanto si sentiva il condirettore parlare anche con qualcun altro nell’ufficio, il che non era necessariamente colpa sua o un sistema per tagliare fuori Atwater, perché c’era un continuo viavai di gente che entrava a chiedergli qualcosa.
Poco piú tardi, dopo essersi buttato un po’ d’acqua fredda in faccia e sulle orecchie nel bagno degli uomini, Atwater ricomparve fra le porte imbrattate dell’atrio e si fece strada in mezzo alle orde accalcate intorno al tavolo del buffet del ristorante. Aveva anche usato lo specchio sul lavandino per caricarsi un po’ – di solito i momenti di autoincoraggiamento allo specchio erano gli unici in cui si rendesse pienamente conto di quella cosa che faceva con il polso. C’erano delle lampade rosse a raggi infrarossi sopra molte portate del buffet, e un tizio con un cappello da chef mezzo afflosciato affettava costolette di prima scelta su richiesta dei clienti. La grande sala aveva un odore intenso di corpi e cibo bollente. Avevano tutti la faccia lucida per l’umidità. Atwater aveva la camminata energica, a spalla flessa, del bassetto. Molti degli avventori domenicali erano anziani e portavano speciali occhiali da sole con le alette laterali, il loro inventore era forse un po’ troppo maturo per una recensione su CHE SI DICE NEL MONDO. Né si vede piú in giro la carta moschicida. Il loro tavolo era piú o meno al capo opposto. Anche al di là della sala da pranzo affollata non era difficile scorgerli, grazie alla moglie dell’artista, la signora Moltke, la cui imponente corona di capelli biondi sfiorava in altezza il leggio della direttrice di sala. Atwater usava quella testa come un saliente per orientarsi nella sala, le orecchie e la fronte infiammate dalla velocità vertiginosa dei pensieri. Agli uffici della redazione di «Style» al sedicesimo piano del World Trade Center 1 di New York, nel frattempo, il condirettore parlava con la sua capostagista sulla linea interna e intanto sbrigava delle e-mail interne. Il signor Brint Moltke, autore delle opere in questione, guardava la moglie con un sorriso stampato in faccia, probabilmente in risposta a qualche osservazione. La sua pietanza era praticamente intatta. La signora Moltke si stava levando la maionese o il condimento dall’angolo della bocca con il mignolino quando incrociò lo sguardo di Atwater, che nel frattempo sollevava le braccia:
– Sono molto entusiasti.
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Se Atwater aveva dovuto spruzzarsi l’acqua e autoincoraggiarsi nel bagnetto soffocante degli uomini fuori dal ristorante dell’Holiday Inn, era anche perché l’interurbana in realtà era andata avanti ancora per vari minuti dopo che il giornalista aveva detto «.opere in sé», e si era quasi infervorata pur non andando a parare da nessuna parte né modificando di una virgola le convinzioni di nessuno dei due, se si esclude il fatto che il condirettore aveva osservato a posteriori con la sua capostagista che Skip sembrava prendere quella strana faccenda troppo a cuore per un professionista della sua esperienza.
– Io faccio ottimi pezzi. Li trovo e li faccio.
– Tu non c’entri, né metto in dubbio che ne ricaveresti qualcosa di buono, – aveva detto il condirettore. – Mi limito solo a metterti al corrente su quello che si può e quello che non si può fare.
– Se non ricordo male qualcuno una volta aveva detto che il pappagallo non si poteva assolutamente fare –. Atwater si riferiva a un precedente articolo per «Style».
– La stai mettendo sul piano del confronto fra noi due. Qui invece è di merda che parliamo. Di escrementi. Merda umana. La cosa è molto semplice: «Style» non annovera fra i suoi argomenti la merda umana.
– Ma è anche arte.
– Ma è anche merda. E poi ti abbiamo già dato il permesso di andare a Chicago a dare un’occhiata a quell’altra cosa perché mi hai fatto una testa cosí, e anche quella non mi sembra molto in linea col genere di cose che trattiamo. Correggimi se sbaglio.
– Quella è già combinata. Per domenica. Laurel mi ha già fatto un bel programmino per domani. Sono solo due ore di interstatale. Le due cose sono perfettamente compatibili –. Atwater tirò su col naso e ingoiò rumorosamente. – Lo sai che questa è zona mia.
L’altro articolo per «Style» al quale il condirettore aveva fatto riferimento riguardava «Il canale del dolore», un’ambiziosa impresa su una tv via cavo in cui Atwater aveva coinvolto Laurel Manderley convincendola ad avviare una manovra laterale che portasse direttamente alla capostagista del direttore per inserirla in CHE SI DICE NEL MONDO. Atwater era uno dei tre colletti bianchi che lavoravano a tempo pieno per CSDNM, una rubrica che riceveva 3/4 di pagina di articoli alla settimana, il massimo per un settimanale del gruppo BSG, scavalcato in questo solo dai giornali che si occupavano di scandali o fenomeni da baraccone, e che costituiva il pomo della discordia ai vertici di «Style». Le dimensioni del personale e i grossi caratteri di stampa indicavano che Skip Atwater era ufficialmente sotto contratto per un pezzo di 400 parole ogni tre settimane, se non si tiene conto del fatto che l’ultimo arrivato fra i colletti bianchi di CSDNM lavorava part time da quando la Eckleschafft-Böd aveva costretto la signora Anger a tagliare il budget redazionale su tutti i fronti tranne le notizie sulle celebrità, perciò in realtà era come se consegnasse tre articoli completi ogni otto settimane.
– Stanotte ti mando le foto.
– Non se ne parla.
Come già detto, Atwater raramente si accorgeva di fare su e giú con il polso, cosa che, a quanto ricordava, era cominciata nel periodo stressante in cui faceva il cuoco e lavorava allo «Star» di Indianapolis. Quando si accorgeva di farlo, certe volte abbassava gli occhi sul polso in movimento senza riconoscerlo, come se appartenesse a qualcun altro. Era una delle tante lacune o punti deboli nell’opinione che Atwater aveva di sé, e a sua volta motivava in parte l’affetto e il leggero disprezzo che suscitava negli uffici di «Style». A chi lavorava gomito a gomito con lui, come per esempio Laurel Manderley, sembrava quasi privo di barriere o corazze difensive, e l’atteggiamento che Laurel aveva nei suoi confronti rivelava chiari aspetti materni. La tendenza delle sue stagiste a una devozione incondizionata, per di piú, faceva sí che qualcuno all’interno di «Style» lo vedesse come un manipolatore, uno che approfittava del sostegno altrui invece di sviluppare le proprie risorse interiori. L’ex condirettrice che curava le pagine di attualità della rivista, una volta aveva definito Skip Atwater un tampone emotivo, anche se erano in tanti a poter appurare che lei, da parte sua, aveva un bagaglio di esperienze personali dei piú variegati. Come capita ovunque con la politica istituzionale, la cosa si fece molto ingarbugliata.
Anche qui, come già detto, lo scambio telefonico fu davvero molto rapido e conciso, con l’eccezione di un’unica pausa prolungata mentre il condirettore conferiva con qualcuno del settore grafico a proposito del formato di una citazione di richiamo, che Atwater sentí perfettamente. Le varie battute di silenzio che seguirono, però, potevano significare piú o meno qualsiasi cosa.
– Vediamo se capisci questo, – disse alla fine il condirettore. – Come la mettiamo se ti dico quello che la signora Anger direbbe a me se per assurdo fossi entusiasta quanto te, e ti dessi l’ok, e mi presentassi alla riunione di redazione mettendolo in programma diciamo per il 10 settembre. Sei fuori di testa. Alla gente non interessa la merda. La gente prova schifo e ripugnanza per la merda. Perciò si chiama merda. Per non parlare della percentuale spropositata di pagine pubblicitarie che quest’autunno vertono sul cibo e la bellezza. Sei matto. Chiuse virgolette –. La signora Anger era il direttore responsabile di «Style», nonché uomo di punta della rivista, e fungeva da interlocutrice con la società madre, che era la divisione statunitense della Eckleschafft-Böd Madien.
– Però il risvolto della medaglia è che è anche assolutamente comune e universale, – aveva detto Atwater. – Chiunque ha un’esperienza personale in fatto di merda.
– Ma un’esperienza personale privata –. Benché tecnicamente inserita nella stessa interurbana, quest’ultima replica rientrò in una conversazione separata, successiva, con Laurel Manderley, la stagista che attualmente gestiva il telefono e il fax di Atwater quando lui era in giro, e selezionava ed esaminava i risultati delle ricerche forniti dalle vetrine del settore «Ricerche» per CHE SI DICE NEL MONDO, e gli faceva da interfaccia con le stagiste della redazione. – È una cosa che si fa in privato, in uno speciale posto privato, e poi si tira lo sciacquone. La gente tira lo sciacquone per farla sparire. È una di quelle cose che la gente non vuole sentirsi ricordare. Perciò nessuno ne parla.
Laurel Manderley che, al pari della maggior parte delle stagiste piú quotate della rivista, aveva un abbigliamento professionale scelto e coordinato con estremo gusto, si concedeva un piccolo brillantino in una narice che Atwater trovava leggermente irritante negli scambi faccia a faccia, ma lei era estremamente sagace e pragmatica – in realtà era stata eletta la «piú razionale» dalla classe del ’96 alla scuola della signorina Porter. Era anche totalmente incapace di scrivere una semplice frase affermativa che è una, e pertanto non avrebbe mai potuto, nemmeno per un oscuro volo di fantasia, minacciare la posizione di colletto bianco che Atwater ricopriva all’interno di «Style». Come gli era già successo con non piú di una o due precedenti stagiste, Atwater faceva affidamento su Laurel Manderley, e la consultava continuamente, e accettava di buon grado le sue intromissioni purché richieste, e spesso passava discrete quantità di tempo al telefono con lei, e aveva condiviso con lei alcuni elementi della sua storia personale, incluse le foto degli incroci di schipperke di quattro anni che erano il suo vanto e la sua gioia. Laurel Manderley, il cui padre controllava un gran numero di negozi in franchising di Blockbuster in tutto il Connecticut occidentale, e la cui madre era a un passo dall’ottenere il diploma di «Maestro giardiniere», da parte sua era destinata a sopravvivere, vuoi per caso vuoi per premonizione, alla tragedia che avrebbe fatto passare «Style» alla storia due mesi dopo.
Atwater si sfregò il naso in verticale con due dita. – Be’, c’è chi ne parla. Dov...