
- 128 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Punto omega
Informazioni su questo libro
In una casa isolata nel deserto due uomini discutono della natura del tempo e del significato dell'agire umano nella storia. Discutono e aspettano. Uno, Richard Elster, è un anziano intellettuale per niente pentito dell'appoggio che ha dato al governo nella guerra in Iraq, l'altro è un giovane regista che vorrebbe girare un documentario su di lui. L'improvvisa scomparsa della figlia di Elster li costringe a interrompere discussioni e attese e a cercare altre risposte per altre domande: che cosa è capitato alla ragazza? Scelta, fatalità oppure orrendo crimine? L'intensità della scrittura di DeLillo al servizio di una straordinaria riflessione sull'enigma del tempo, il tempo in cui ogni momento perduto è la vita, la nuda vita.
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Informazioni
Print ISBN
9788806240523eBook ISBN
9788858401262Anonimato
3 settembre
C’era un uomo appoggiato alla parete nord, appena visibile. Le persone entravano a coppie o in tre, stavano là al buio, guardavano lo schermo e se ne andavano. A volte quasi non varcavano la soglia, alla spicciolata arrivavano gruppi piú numerosi, turisti imbambolati, guardavano, spostavano il peso da una gamba all’altra e poi se ne andavano.
Non c’erano posti per sedersi nella galleria. Lo schermo stava su senza supporti, tre metri per quattro, non rialzato da terra, sistemato al centro della stanza. Era semitrasparente e alcune persone, non molte, indugiavano nella sala e lentamente ci giravano attorno per vederne il retro. Rimanevano qualche altro istante e poi se ne andavano.
La galleria era fredda e illuminata solo dal debole riverbero grigio dello schermo. All’altezza della parete nord il buio era quasi completo e l’uomo che stava là da solo si portò una mano verso la faccia, copiando lentissimamente il gesto di una figura sullo schermo. Quando la porta scorrevole della galleria si apriva per far entrare la gente, filtrava uno sprazzo di luce dalla zona retrostante dove, a una certa distanza, altre persone sfogliavano libri d’arte e cartoline.
Il film scorreva senza dialoghi né musica, nessuna colonna sonora. Il custode del museo stava subito al di qua della soglia, e la gente che usciva a volte lo scrutava, cercando di coglierne lo sguardo, un possibile cenno di mutua intesa che desse conferma al loro sconcerto. C’erano altre gallerie, piani interi, non aveva senso perdere tempo in una sala appartata dove quello che succedeva, qualsiasi cosa fosse, ci metteva un’eternità a succedere.
L’uomo alla parete guardava le immagini e a un certo punto cominciò a muoversi lungo il muro adiacente verso l’altro lato dello schermo, in modo da poter osservare la stessa scena rovesciata. Guardò Anthony Perkins che allungava una mano, la destra, verso la portiera di una macchina. Sapeva che Anthony Perkins avrebbe usato la mano destra da questa parte dello schermo e la sinistra dall’altra. Lo sapeva ma aveva bisogno di vederlo e si spostò nel buio lungo la parete laterale allontanandosene poi di qualche decina di centimetri per vedere Anthony Perkins dall’altra parte dello schermo, il rovescio, Anthony Perkins che usava la mano sinistra, quella sbagliata, per afferrare la maniglia di una portiera e aprirla.
Ma poteva definire sbagliata la mano sinistra? Perché in fondo cos’era che rendeva questo lato dello schermo meno esatto dell’altro?
Il custode fu raggiunto da un altro custode, i due si scambiarono qualche parola sottovoce mentre la porta automatica si apriva lasciando entrare delle persone, con bambini, senza, e l’uomo tornò al suo posto contro la parete, dove ora stava immobile, a guardare Anthony Perkins che girava la testa.
Il minimo movimento della cinepresa rappresentava un cambiamento profondo in termini di spazio e di tempo, ma la cinepresa in quell’istante era ferma. Anthony Perkins che gira la testa. Erano come numeri interi. L’uomo poteva contare le gradazioni nei movimenti della testa di Anthony Perkins. Anthony Perkins gira la testa in una serie di cinque movimenti progressivi e non in un solo movimento continuo. Erano come i mattoni di un muro, facili da contare, non come il volo di una freccia o di un uccello. Anche se poi non era uguale a niente né diverso da niente. La testa di Anthony Perkins che gira un istante dopo l’altro sul collo lungo e sottile.
Una simile percezione era possibile solo grazie alla piú attenta visione. Scoprà che per diversi minuti non era stato distratto dal viavai delle altre persone, riuscendo a guardare il film con il necessario grado di intensità . La natura del film permetteva una concentrazione totale, e su quella faceva affidamento. Il suo ritmo inesorabile non aveva senso senza una corrispondente attenzione, senza l’individuo la cui assoluta vigilanza era all’altezza di ciò che si pretendeva. Lui stava là e guardava. Nel tempo che Anthony Perkins impiegava a girare la testa ci fu come uno sciamare di idee riguardanti la scienza e la filosofia e una serie di altre cose imprecisate, o forse lui ci vedeva troppo dietro tutto questo. Ma vedere troppo era impossibile. Meno c’era da vedere piú lui guardava intensamente, e piú vedeva. Era questo il senso. Vedere quello che c’è, finalmente guardare e sapere che stai guardando, sentire il tempo che passa, essere sensibile a ciò che accade nei piú piccoli registri di movimento.
Tutti ricordano il nome dell’assassino, Norman Bates, ma nessuno ricorda il nome della vittima. Anthony Perkins è Norman Bates, Janet Leigh è Janet Leigh. Dalla vittima ci si aspetta che condivida il nome dell’attrice che la interpreta. È Janet Leigh che entra nello sperduto motel gestito da Norman Bates.
Era in piedi da piú di tre ore e guardava. Andava là da cinque giorni di fila e quello era il penultimo in programma, dopodiché l’installazione sarebbe stata trasferita in un’altra città o sistemata in qualche oscuro magazzino chissà dove.
Pareva che nessuno di quelli che entravano sapesse cosa aspettarsi e senz’altro nessuno si aspettava una cosa del genere.
Il film originale era stato rallentato in modo da durare ventiquattro ore. Quello che stava guardando sembrava cinema allo stato puro, tempo allo stato puro. L’orrore potente di quel vecchio film dalle atmosfere gotiche era incorporato nel tempo. Quanto doveva rimanere lÃ, quante settimane o mesi, prima che lo schema temporale del film finisse per assorbire il suo; o forse questo processo era già in corso? Si avvicinò allo schermo fermandosi a una trentina di centimetri; vedeva schegge e frammenti disturbati, luce confusa e tremolante. Fece il giro dello schermo diverse volte. Adesso la galleria era vuota e lui poteva posizionarsi a distanze e angolazioni diverse. Camminò all’indietro, con gli occhi fissi, sempre, sullo schermo. Capiva perfettamente perché il film fosse proiettato senza sonoro. Non poteva che essere muto. Non poteva che assorbire l’individuo a una profondità al di là delle solite supposizioni, al di là delle cose che l’individuo ipotizza, presume e dà per scontate.
Tornò verso la parete nord, passando davanti al custode sulla soglia. Il custode era là ma non contava come presenza nella sala. Il custode era là per non essere visto. Era il suo lavoro. Se ne stava rivolto verso il margine dello schermo, ma non guardava niente di preciso, guardava quello che guardano i custodi dei musei quando le sale sono vuote. L’uomo contro la parete era lÃ, ma forse il custode non lo considerava una presenza piú di quanto l’uomo facesse con lui. Tornava da diversi giorni, e ogni giorno rimaneva a lungo e comunque eccolo di nuovo vicino alla parete, al buio, immobile.
Guardava gli occhi dell’attore che transitavano nelle loro orbite ossute. Stava immaginando di guardare con gli occhi dell’attore? O aveva l’impressione che gli occhi dell’attore lo stessero scrutando?
Sapeva che sarebbe rimasto fino alla chiusura del museo, di là a due ore e mezza, e che la mattina successiva sarebbe tornato. Guardò due uomini che entravano, il piú anziano con un bastone e un completo nel quale sembrava aver fatto un lungo viaggio, i capelli bianchi, lunghi, intrecciati all’altezza della nuca, forse un professore emerito, forse uno studioso di cinema, e il piú giovane con una camicia casual, jeans e scarpe da jogging, l’assistente, smilzo, un po’ nervoso. Si allontanarono dall’entrata inoltrandosi nella parziale oscurità lungo il muro adiacente. Li guardò ancora per qualche istante, i due accademici, esperti di cinema, teoria del cinema, sintassi del cinema, cinema e mito, dialettica del cinema, metafisica del cinema, mentre Janet Leigh cominciava a spogliarsi per l’imminente doccia di sangue.
Ogni volta che un attore muoveva un muscolo, ogni battito di ciglia, era una rivelazione. Ciascuna azione veniva scomposta in parti cosà distinte dall’entità originaria che l’osservatore si ritrovava scollegato da qualsiasi aspettativa.
Tutti guardavano qualcosa. Lui guardava i due uomini, i due uomini guardavano lo schermo, Anthony Perkins dallo spioncino guardava Janet Leigh che si spogliava.
Nessuno guardava lui. Era proprio il mondo ideale, come se lo sarebbe fatto lui su misura. Non aveva idea di come appariva agli occhi degli altri. Non sapeva nemmeno come appariva ai suoi stessi occhi. Appariva come ciò che vedeva sua madre quando lo guardava. Ma sua madre era morta. Ecco allora un quesito per gli studenti piú avanzati. Cos’era rimasto di lui che gli altri riuscivano ancora a vedere?
Per la prima volta non gli dispiaceva non stare là da solo. I due uomini avevano delle forti motivazioni per trovarsi in quel posto e si chiese se loro vedessero ciò che vedeva lui. Se anche fosse stato, avrebbero comunque tratto conclusioni diverse, trovato riferimenti che spaziavano lungo una serie di filmografie e discipline. Filmografia. Un tempo quella parola gli faceva tirare indietro il capo quasi a voler frapporre un’antisettica distanza.
Pensò che forse era il caso di cronometrare la scena della doccia. Poi pensò che era l’ultima cosa che gli andava di fare. Sapeva che nel film originale si trattava di una scena molto breve, meno di un minuto, notoriamente meno, e qualche giorno prima là nella galleria aveva guardato quella scena in forma prolungata, tutta fatta di movimenti spezzati, senza suspense né terrore né quella musica pulsante simile all’urlo di una civetta. Gli anelli della tenda, ecco cosa ricordava con maggior chiarezza, gli anelli della tenda della doccia che girano sull’asta quando la tenda viene strappata, un momento che va perso alla velocità normale, quattro anelli che girano lentamente lassú, sopra il corpo accasciato a terra di Janet Leigh, una poesia estemporanea sopra quella morte infernale, e poi l’acqua insanguinata che scorre serpeggiando e increspandosi nello scolo, minuto dopo minuto, e che infine sparisce in un vortice.
Era ansioso di rivederla. Voleva contare gli anelli della tenda, quattro, forse, o cinque o di piú o di meno. Sapeva che anche i due uomini addossati alla parete adiacente avrebbero guardato la scena con attenzione. Sentiva che condividevano qualcosa, noi tre, ecco cosa sentiva. Era quel genere di rara comunanza provocata da eventi singolari, anche se gli altri non sapevano che lui era lÃ.
Quasi nessuno entrava in quella sala da solo. Venivano in squadre, in plotoni, entravano con passo strascicato, gironzolavano per un po’ vicino all’entrata e poi se ne andavano. Capitava che uno o due si voltassero per uscire e gli altri seguivano a ruota, dimenticando, nei pochi secondi necessari all’atto di girarsi e raggiungere la porta, quanto avevano appena visto. Lui li vedeva piú come tipi da teatro. Il cinema, a suo avviso, è qualcosa di solitario.
Janet Leigh nel lungo intervallo della sua inconsapevolezza. La guardava mentre cominciava a lasciar cadere la vestaglia. Capà per la prima volta che il bianco e nero era l’unico veicolo possibile per il cinema in quanto concetto, il cinema nella mente. Arrivava quasi a capire il perché, ma non del tutto. Gli uomini vicino a lui senz’altro capivano il perché. Per quel film, in quello spazio freddo e buio, era assolutamente necessario, il bianco e nero, un ulteriore elemento neutralizzante, un modo per fare dell’azione una cosa affine alla vita primordiale, una cosa che piano piano si riduce alle sue componenti narcotizzate. Janet Leigh nel minuzioso processo del suo non sapere cosa sta per succederle.
A un certo punto se ne andarono, di colpo, s’incamminarono verso l’uscita. Non sapeva come prenderla. La prese male. L’alta porta scorrevole si aprà lasciando passare l’uomo col bastone e poi l’assistente. Uscirono dalla sala. Cos’era, si stavano annoiando? Passarono davanti al custode e sparirono. Erano stati costretti a pensare in parole. Era questo il loro problema. L’azione procedeva troppo lentamente per adeguarsi al lessico cinematografico. Sempre che questo avesse un qualche senso. Non sentivano le pulsazioni delle immagini proiettate a quella velocità . Il loro lessico cinematografico, pensò, non poteva adattarsi alle aste, agli anelli per tende, alle asole. Cos’era, dovevano prendere l’aereo? Credevano di essere seri, ma non lo erano. E se non sei serio questo posto non fa per te.
Poi pensò: Serio riguardo a cosa?
Entrò una persona che si fermò in un punto della sala da cui proiettava un’ombra sullo schermo.
Questa esperienza aveva a che fare in qualche modo col dimenticare. Lui voleva dimenticare il film originale o perlomeno limitarne il ricordo a un riferimento remoto, non invadente. C’era anche il ricordo di questa versione, vista e rivista per tutta la settimana. Anthony Perkins nei panni di Norman Bates, collo da trampoliere, testa di uccello visto di profilo.
Quel film lo faceva sentire come qualcuno che guarda un film. Il senso della cosa gli sfuggiva. Continuava a provare sensazioni il cui significato gli sfuggiva. Ma se per film s’intende pellicola, quello non era veramente un film. Era una videocassetta. Che però è sempre un film. Nel senso piú ampio del termine, lui stava guardando un film, un lungometraggio, delle immagini piú o meno in movimento.
Ecco la vestaglia che finalmente si posa sul coperchio del water.
Gli era sembrato che il piú giovane, con le sue scarpe da jogging consumate, volesse rimanere. Ma poi aveva dovuto seguire il teorico tradizionale con i capelli intrecciati, altrimenti avrebbe rischiato di mettere a repentaglio il suo futuro accademico.
O la caduta per le scale, ancora lontanissima, ore, forse, prima che Arbogast, l’investigatore privato, vada giú per le scale, di schiena, con la faccia tutta sfregiata, gli occhi sbarrati, le braccia che roteano, una scena che aveva visto all’inizio della settimana, o forse solo il giorno prima, ormai era impossibile distinguere i giorni e le immagini. Arbogast. Quel nome annidato in qualche oscuro meandro dell’emisfero cerebrale sinistro. Norman Bates e l’investigatore Arbogast. Questi erano i nomi che ricordava dopo tutti gli anni che erano passati da quando aveva visto il film originale. Arbogast sulle scale, in un’eterna caduta.
Ventiquattro ore. Il museo chiudeva quasi ogni giorno alle cinque e mezza. La situazione ideale per lui sarebbe stata che il museo chiudesse e la galleria no. Voleva vedere il film dall’inizio alla fine, per ventiquattro ore consecutive. Ingresso vietato dopo l’inizio della proiezione.
In un certo senso stava guardando qualcosa di storico, un film che tutti, ovunque, conoscevano. Cominciò a trastullarsi con l’idea che la galleria fosse un luogo protetto, il cottage o la tomba silenziosa di un poeta defunto, una cappella medievale. Eccolo, il Bates Motel. Ma non è questo che la gente vede. La gente vede movimenti spezzati, dei fermo immagine sull’orlo di una vita semiparalizzata. Lui capisce cos’è che vede la gente. Vede una sala dall’encefalogramma piatto in mezzo a sei piani scintillanti pieni di opere d’arte. Alla gente importa solo del film originale, un’esperienza comune da rivivere sul piccolo schermo, a casa, con i piatti da lavare in cucina.
La stanchezza se la sentiva nelle gambe, ore e giorni in piedi, il peso del corpo eretto. Ventiquattro ore. Chi potrebbe sopravvivere, dal punto di vista fisico e non solo? Sarebbe stato in grado di uscire per strada dopo un giorno e una notte passati ininterrottamente a vivere in quel piano temporale cosà radicalmente diverso? In piedi al buio a guardare uno schermo. A guardare in questo momento l’acqua che danza davanti al viso di lei che si muove lentamente lungo le piastrelle e allunga una mano verso la tenda della doccia per afferrarsi a qualcosa e fermare il corpo per accogliere l’ultimo respiro.
Lo sfarfallio dell’acqua che cade dalla doccia, un’illusione di ondeggiamento o fluttuazione.
Sarebbe uscito in strada dimenticando chi era e dove viveva, dopo ventiquattro ore di fila? O anche ai ritmi attuali, se avessero prorogato i tempi di permanenza dell’installazione e lui avesse continuato ad andare lÃ, cinque, sei, sette ore al giorno, settimana dopo settimana, sarebbe riuscito poi a vivere nel mondo? Voleva viverci? Ma dov’era, in realtà , il mondo?
Contò sei anelli. Gli anelli che girano sull’asta della tenda quando lei se la trascina dietro. Il coltello, il silenzio, gli anelli che girano.
Ci vuole un’attenzione estrema per vedere cosa succede davanti a te. Ci vuole impegno, pio sforzo, per vedere cosa stai guardando. Era incantato da tutto questo, dalle profondità che si schiudevano nel movimento rallentato, le cose che c’erano da vedere, le profondità delle cose che cosà facilmente vanno perse nella superficiale abitudine a vedere.
Gente e poi ombre proiettate sullo schermo.
Cominciò a pensare alla relazione fra una cosa e l’altra. Quel film e la pellicola originale avevano la stessa relazione che c’era fra la pellicola originale e l’esperienza vissuta realmente. Quello era lo scosta...
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