Sotto la pelle
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Sotto la pelle

Michel Faber, Luca Lamberti

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Sotto la pelle

Michel Faber, Luca Lamberti

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«Un libro fuori dal comune... Nella scrittura di Faber niente è ciò che sembra. La qualità piú significativa di Sotto la pelle è che all'interno di questo incubo, Faber ci costringe a identificarci con la sua protagonista non umana, e, attraverso lei, ad addentrarci in una complessa trama che tocca nel profondo i problemi della condizione umana».

The Times

«Una storia strana e misteriosa come poche, i cui segreti vengono svelati a poco a poco, come stimoli surreali centellinati con trasognata precisione. La scrittura di Faber è di una severa limpidezza».

The Independent

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858402733

XI

Prima ancora di riprendersi completamente Isserley avvertí la presenza di due odori mescolati tra loro in modo surreale: carne cruda e pioggia appena caduta. Aprí gli occhi. Sopra di lei la notte sconfinata si estendeva punteggiata da milioni di stelle distanti.
Era stesa sulla schiena, su un veicolo con il tetto scoperto, parcheggiato in un garage senza soffitto.
Non era la sua auto; lentamente realizzò che non era neppure un’auto. Si trovava all’interno della nave, la parte superiore dello scafo spalancata, sotto un’ampia apertura nel tetto della casa.
– Li ho convinti che l’aria fresca ti avrebbe fatto bene, – disse Amlis Vess, da un punto non lontano.
Isserley provò a girare la testa per individuarlo, ma il suo collo era cosí rigido che le sembrava fosse stretto da una morsa. Respirando appena per paura di far emergere il dolore, restò immobile, chiedendosi che cosa fosse che le teneva il capo sollevato dal pavimento di metallo. Con le dita umide sentí, lungo i fianchi paralizzati, la consistenza di ciò che si trovava sotto di lei: un ruvido tessuto di stuoia, di quelli su cui dormivano piacevolmente tutti gli esseri umani.
– Quando ti hanno tirata fuori dall’ascensore, sembrava che respirassi con difficoltà, o addirittura stessi soffocando, – continuò Amlis. – Volevo portarti fuori, ma gli altri non me lo volevano permettere. E si rifiutavano di portarti loro. Cosí li ho convinti ad accettare questa alternativa.
– Grazie, – mormorò lei freddamente. – Sono sicura che sarei sopravvissuta malgrado tutto.
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– Sí, – accondiscese lui, – senza dubbio ce l’avresti fatta.
Isserley scrutò il cielo piú attentamente. S’intravedeva ancora una traccia di viola, e la luna si scorgeva appena. Dovevano essere le sei, al massimo le sette di sera. Cercò di sollevare la testa. La risposta del suo corpo non fu troppo positiva.
– Posso aiutarti? – disse Amlis.
– Riposo ancora un po’, – gli assicurò. – Ho avuto una giornata davvero molto stancante.
Passarono i minuti. Isserley si sforzò di abituarsi a quella nuova situazione che le sembrava orribile e ridicola al tempo stesso. Mosse le dita dei piedi e cercò di spostare anche i fianchi, delicatamente. Una fitta di dolore le trafisse il coccige.
Amlis Vess si astenne con un certo tatto dal commentare il suo respiro ansimante. Disse invece: – Da quando sono qui non ho smesso un attimo di guardare il cielo.
– Ah, sí? – disse Isserley. Quando cercò di battere le palpebre sentí che aveva gli occhi sgradevolmente appiccicosi. Avrebbe voluto strofinarli.
– Nulla di ciò che avevo immaginato mi ha preparato veramente a questo, – continuò Amlis. La sua sincerità apparve inequivocabile, e Isserley trovò la cosa stranamente toccante.
– Anch’io mi sentivo cosí, all’inizio, – rispose.
– È di un azzurro purissimo durante il giorno, – osservò, come se lei potesse non averlo ancora notato e lui glielo stesse insegnando. Di fronte all’assoluta onestà del suo entusiasmo, Isserley sentí l’improvviso istinto di scoppiare a ridere.
– Sí, – ammise.
– E di molti altri colori, – aggiunse lui.
Rise davvero adesso, ma con un grugnito piú simile a un gemito di sofferenza.
– Sí, parecchi, – disse a denti stretti. Finalmente riuscí ad alzare le mani e le premette sul ventre, e ciò le diede un po’ di sollievo. A poco a poco stava ritornando alla vita.
– Sai, – proseguí Amlis, – poco fa è caduta dell’acqua giú dal cielo –. Il tono della sua voce era un po’ piú alto del solito, piú vulnerabile, come fosse in soggezione. – Cosí, giú dal cielo. In piccole gocce, milioni di gocce vicinissime. Ho guardato in alto, per vedere da dove venissero. Sembrava che si materializzassero dal nulla. Non ci potevo credere. Poi ho aperto la bocca verso il cielo. Ci sono finite dentro delle gocce. È stata un’emozione indescrivibile. Come se la natura stesse cercando di nutrirmi.
Isserley accarezzò il tessuto del top che le copriva la pancia; era leggermente umido, ma non troppo. La pioggia non doveva esser durata a lungo.
– L’acqua ha smesso di cadere di colpo, proprio come ha incominciato, – disse Amlis. – Ma ancora adesso l’odore dell’aria è diverso.
Isserley ora era in grado di voltare lievemente il capo. Constatò di essere distesa di fronte a uno dei frigoriferi della nave. La base del suo cranio stava appoggiata sulla barra del pedale alla base del mobile, la cui funzione era di sollevare il coperchio, se schiacciata. La sua testa non era abbastanza pesante per sollevarlo; bisognava premervi con tutto il proprio peso per riuscirci.
Alla sua destra, sul pavimento di metallo alle sue spalle, erano posati due vassoi di carne coperti da una pellicola trasparente. Uno dei due conteneva bistecche di prima scelta, di uno scuro color rame. L’altro, piú grosso, era pieno di scarti: viscere scolorite, probabilmente, o cervella. L’odore era intenso, anche attraverso la pellicola. Sarebbe davvero stato meglio che gli uomini avessero finito di ritirarli prima di lasciarla lí.
Girò la testa a sinistra. Amlis era seduto poco distante, splendido come sempre, gli arti posteriori ripiegati sotto di sé, le braccia dritte, il capo leggermente sollevato verso l’apertura nel tetto della fattoria. Scorse il luccichio dei suoi denti bianchi e affilati; stava mangiando qualcosa.
– Non c’era bisogno che rimanessi con me, – disse, cercando di sollevare le ginocchia senza che lui notasse lo sforzo.
– Sto seduto qui per la maggior parte del giorno e della notte, – spiegò. – Gli uomini non mi lasciano uscire dall’edificio, ovviamente. Ma riesco comunque a vedere le cose piú incredibili da questo buco nel soffitto –. Poi concentrò la sua attenzione su di lei, e si alzò per avvicinarsi a dove era sdraiata. Isserley sentí il tocco gentile delle sue dita artigliate percorrere il piano di metallo.
Si fermò a una rispettosa distanza, e si sedette di nuovo piegando gli arti posteriori sotto di sé. Le braccia rimasero dritte, schiacciando leggermente il petto coperto di ciuffi di pelo bianco. Aveva dimenticato quanto fosse scuro il pelo sul suo capo e quanto fossero dorati i suoi occhi.
– Tutta questa carne non ti disgusta? – accennò sarcasticamente.
Lui ignorò la frecciata.
– È tutta roba morta adesso, – disse semplicemente. – Non c’è piú nulla che io possa fare, non credi?
– Pensavo che stessi ancora lavorandoti le menti e i cuori degli uomini, sai, – disse Isserley increspando le labbra, rendendosi conto, mentre parlava, di esagerare con il sarcasmo.
– Be’, ho fatto del mio meglio, – disse Amlis, in tono autoironico. – Ma so capire quando una sfida è senza speranza. In ogni caso, non sono le vostre menti che ho bisogno di cambiare –. E con lo sguardo percorse il contenuto della nave, come per alludere alle dimensioni del massacro e al suo valore commerciale.
Isserley guardò il suo collo e le spalle, notò che la sua pelliccia era cosí morbida che ondeggiava alla brezza. La morsa del suo rancore verso di lui si stava progressivamente allentando, ora che con l’immaginazione sentiva quel petto lanuginoso appoggiato dolcemente alla propria schiena e i denti bianchi morderle gentilmente il collo.
– Cosa stai mangiando? – domandò, notando che le sue mascelle sembravano essere continuamente in moto.
– Non sto mangiando niente, – rispose noncurante, e riprese a masticare.
Isserley sentí montare un’ondata di disprezzo: era uguale a tutti i ricchi e potenti – perfettamente a proprio agio nel mentire con aria di sufficienza, sprezzante e indifferente verso ciò che altri potevano provare. Fece una smorfia di disgusto che diceva «facciamo pure a modo tuo». Lui la notò subito, nonostante l’aspetto alieno dei tratti somatici.
– Non sto mangiando, sto masticando, – protestò solennemente, ma i suoi occhi d’ambra vennero attraversati da uno scintillio. – A dire il vero è icpathua.
Isserley ricordò che aveva una certa reputazione a questo proposito e, per quanto incuriosita, ostentò un’espressione altera.
– Pensavo che ormai fossi troppo grande per quella roba, – disse.
Ma Amlis non intendeva abboccare all’amo.
– L’icpathua non è un comportamento, né adolescenziale né altro, – precisò con disinvoltura. – È una pianta dalle proprietà uniche.
– Certo, certo – sospirò Isserley voltandosi per concentrare di nuovo l’attenzione sul cielo stellato. – Finirai per morirne, sappilo.
Lo sentí ridere ma non riuscí a vederlo. Si rammaricò di non esserci riuscita, poi fu irritata da quel rimpianto.
– Dovrei inghiottirne una balla grande come me, – rispose Amlis.
Fu lei a ridere questa volta, a dispetto delle proprie intenzioni; il pensiero di lui intento in un’impresa del genere era esilarante. Provò a mascherare la risata con la mano, ma si irrigidí per il violento dolore alla schiena, e continuò a ridere incapace di nascondere il viso. Piú rideva, piú le veniva da ridere; poteva solo sperare che lui capisse che quel che la divertiva era la ridicola immagine di Amlis Vess gonfio come una mucca incinta.
– L’icpathua è un antidolorifico eccezionalmente efficace, sai, – puntualizzò gentile. – Perché non lo provi?
Quelle parole cancellarono il sorriso dal volto di Isserley.
– Io non sto male, – gli disse freddamente.
– Ma certo che stai male, – fece, con un tono di rimprovero, accentuato dalla pronuncia raffinata e rotonda delle vocali. Adirata, si sollevò appoggiandosi sui gomiti e lo trafisse con uno sguardo tagliente.
– Io non sto male, chiaro? – ripeté, mentre il sudore freddo dell’agonia le solleticava la schiena.
Per un istante gli occhi di Amlis si accesero di una scintilla di antagonismo, poi sbatté le palpebre con languida lentezza, come se un’altra traccia di sedativo si stesse diffondendo nel flusso delle sue vene.
– Come vuoi, Isserley.
A quanto ricordava, lui non l’aveva mai chiamata per nome. Mai prima d’ora. Si chiese che cosa lo avesse spinto a pronunciarlo, e se sarebbe successo di nuovo.
Ma doveva sbarazzarsi di lui in qualche modo. Aveva un gran bisogno di fare i suoi esercizi per tornare in forma, e non aveva nessuna intenzione di farli di fronte a lui.
La soluzione piú ovvia sarebbe stata scusarsi e andare al suo cottage, dove lui non avrebbe potuto seguirla. Ma si sentiva cosí male da non poter affrontare la mezza dozzina di gradini tra lo scafo della nave e il pavimento dell’hangar.
Una volta issata sui gomiti, tentò di flettere un pochino le spalle e la spina dorsale, senza dare nell’occhio. Poteva distrarlo facendo conversazione.
– Cosa pensi che ti farà tuo padre quando torni? – chiese.
– Cosa mi farà? – in un primo momento sembrò che Amlis non capisse il senso della domanda. Ancora una volta, senza volerlo, si confrontava con la sua esperienza da ragazzino viziato. Il concetto che qualcuno potesse fargli qualcosa contro la sua volontà gli risultava assolutamente alieno. La vulnerabilità apparteneva alle classi inferiori.
– In realtà mio padre non sa che sono qui, – disse alla fine, incapace di nascondere una punta di piacere. – Pensa che io sia a Yssiis, o da qualche parte in Medio Oriente. È lí che ho detto che sarei andato, l’ultima volta che abbiamo parlato.
– Ma tu sei arrivato su questa, – gli ricordò Isserley, indicando con un gesto del capo la carne e i frigoriferi intorno a sé. – Una nave delle Vess Industries.
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– Sí, – sogghignò, – ma senza il consenso ufficiale di nessuno. Aveva un sorrisetto da ragazzino, quasi infantile. Guardò in alto, verso il cielo, e la sua pelliccia si mosse come spighe di grano al vento. – Vedi, – disse, – mio padre ha ancora la vana speranza che io possa succedergli negli affari un giorno o l’altro. Dice che «bisogna tenere tutto in famiglia». In realtà intende dire che odierebbe che il prodotto piú prezioso e nuovo del mondo gli venisse rubato dalla concorrenza. Ancora oggi le parole voddissin e Vess sono inseparabili; chiunque desideri assaggiare qualcosa di divino pensa alla parola Vess.
– Comodo per entrambi, – disse Isserley.
– Non ha nulla a che fare con me, o meglio, non da quando sono abbastanza adulto da porre delle domande. Mio padre mi tratta come un sassynil. «Cosa c’è da sapere?» dice. «Questa roba cresce, noi dobbiamo mietere e occuparci del trasporto». Ma con me non è riservato come con tutti gli altri. Basta solo che mostri un barlume di interesse negli affari, e puoi vederlo che abbassa la guardia. Spera ancora che un giorno io veda la luce. Suppongo che sia per questo che mi dà sempre libero accesso ovunque, comprese le banchine d’attracco delle Vess Industries.
– Quindi?
– Quindi quel che sto cercando di dire è che... in questo viaggio io ero un... come si dice? Un clandestino.
Isserley rise di nuovo. Le ossa e i muscoli delle braccia cedettero e lei ricadde sulla schiena.
– Immagino che piú sei ricco, piú lontano devi spingerti per trovare emozioni, – osservò.
A questo punto lui si offese.
– Dovevo verificare di persona che cosa stesse accadendo qui, – ringhiò.
Isserley provò ad alzarsi un’altra volta, e quando non vi riuscí camuffò il gemito di dolore con un sospiro accondiscendente.
– Qui non succede nulla di insolito, – disse. – Solo... domanda e offerta, – pronunciò queste ultime parole cantilenando, quasi fossero una coppia inseparabile come il giorno e la notte, maschio e femmina.
– Bene, le mie peggiori paure sono state confermate, – proseguí Amlis, ignorando l’affermazione. – Tutto questo commercio si basa su una terribile crudeltà.
– Tu non sai cos’è la crudeltà, – disse lei, quasi avvertendo fisicamente tutte le parti del proprio corpo che erano state mutilate.
Quanto era fortunato questo giovane viziato se le sue «peggiori paure» riguardavano il benessere di animali esotici, e non la propria lotta per la sopravvivenza.
– Sei mai stato giú nelle Zone, Amlis? – lo sfidò.
– Sí, – rispose, con la sua dizione esageratamente perfetta. – Naturalmente. Tutti dovrebbero vedere com’è laggiú.
– Ma non abbastanza a lungo perché diventasse sgradevole, no? – Esasperato dalla sua risposta, Amlis drizzò le orecchie.
– Cosa vorresti che facessi? – disse. – Che mi offrissi volontario ai lavori forzati? Che mi facessi spaccare la testa da dei teppisti? Sono ricco, Isserley. Devo farmi uccidere per espiare?
Isserley evitò di rispondere. Le sue dita avevano trovato la crosta attorno agli occhi. Era una leggera pellicola di lacrime secche, versate nel sonno. La tirò via.
– Tu sei venuta qui, – disse Amlis, – per fuggire a una vita dura, non è vero? Io non ho mai dovuto sopportare una vita dura, cosa di cui sono grato, te lo giuro. Nessuno sceglie di soffrire, se può evitarlo. Sicuramente, in quanto esseri umani, vogliamo la stessa cosa.
– Non saprai mai cosa voglio io, – sibilò contro di lui con una veemenza di cui lei stessa si sorprese.
La conversazione si congelò per un istante. Folate di vento freddo soffiarono attraverso il tetto della casa; il cielo si scurí ulteriormente; s...

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APA 6 Citation

Faber, M. (2010). Sotto la pelle ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3425135/sotto-la-pelle-pdf (Original work published 2010)

Chicago Citation

Faber, Michel. (2010) 2010. Sotto La Pelle. [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3425135/sotto-la-pelle-pdf.

Harvard Citation

Faber, M. (2010) Sotto la pelle. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3425135/sotto-la-pelle-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Faber, Michel. Sotto La Pelle. [edition unavailable]. EINAUDI, 2010. Web. 15 Oct. 2022.