Americana (versione italiana)
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Americana (versione italiana)

  1. 408 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Americana (versione italiana)

Informazioni su questo libro

L'affascinante David Bell incarna la realizzazione del sogno americano. Nonostante sia poco piú che ventenne è già manager di una grande rete televisiva. All'apice del successo il giovane trova però davanti a sé un vuoto insopportabile che lo spinge ad allontanarsi da Manhattan per intraprendere un viaggio nel cuore dell'America, a bordo di un vecchio camper e con la cinepresa sempre a disposizione, accompagnato da tre stravaganti soggetti. Scopo del viaggio è riprendere la vita della gente comune nelle piccole città di provincia, catturando i volti veri, la rabbia, i conflitti che intessono il paese, tutto quello che la televisione ignora o mimetizza, cioè la realtà. È il film della sua vita, il tentativo folle, e commovente al tempo stesso, di scrivere un pezzo di storia americana.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806189877

Terza parte

7.

Nell’oltrepassarli lungo le strade su cui viaggiavano diretti verso i propri confini interiori, veniva la tentazione di parafrasare un noto incipit. Erano i tempi peggiori, erano i tempi peggiori. Viaggiavano a piedi, su automobili vecchie e nuove, in gruppi di motociclette, su autobus e autocarri e camper, i giovani e i giovanissimi in fuga dalle città medievali, metropoli cintate di mura traboccanti pestilenze e corruzione, non ancora disperati nella fuga e non ancora frenetici nella ricerca: i perduti, i ritrovati, gli innominati, i brillanti, gli sballati, i confusi e i semplicemente esausti, tutti a gridare il sincero amore per il paese lungo la linea bianca spezzata, facce sperdute nell’incredulità e nella massa dei capelli: il batterista, il mistico, il fascista, di tanto in tanto un occhio di donna che sbirciava dal lunotto, il rumore dietro di lei, un breve canto di pace.
Stavamo arrivando al termine della prima settimana, decisi a non avventurarci neppure per un istante oltre i confini della nostra terra natia, evitando con cura i laghi che sembravano grandi orme e lo spettro innocente del Canada. Sullivan dormiva davanti, nella cuccetta sopra la cabina di guida. Era quasi sempre Pike a cucinare. E quasi sempre Brand a guidare. Io urlavo e leggevo ad alta voce le cartine stradali.
Per tutto il viaggio ci aveva accompagnato la radio portatile hi-fi di Sullivan a tre bande di frequenza e tre antenne, con il suo strepito incessante di disc-jockey infantili, spot che reclamizzavano la morte e Gesú country nel Nord dello Stato. Oltrepassando le baraonde di trifogli e le città grige e morbose, sentivo che tutto era in armonia: la terra stordita alimentava la radio convulsa, ogni ettaro della notte che deflagrava in accordi cinetici, la logica oltre il delirio.
Quando pioveva, Sullivan si infilava il trench senza bottoni sebbene fossimo all’interno del camper. Viaggio denso di misteri e sacralità, pensavo io, che quasi sempre non avevo idea di dove ci trovassimo e dipendevo da Pike per trovare la strada da un posto all’altro. Tutte le volte che vedevo un fiume, ero convinto che fosse il Mississippi. Tutti i benzinai che incontravamo si chiamavano Earl.
Registravo gran parte delle nostre conversazioni.
– Questo grande paese azzurro che sbadiglia – disse Brand una sera presto, mentre cenavamo a tramezzini. – Mi viene voglia di pisciare contro ogni albero, rotolare giú dalle colline, rincorrere i conigli, arrampicarmi sui tetti, crocifiggermi alle antenne televisive. Mi viene voglia di dire buongiorno a chiunque incontriamo. È una meraviglia. È troppo. Baby, è mitico. È il paese piú strano, favoloso e pazzesco della storia. Davy, cerca di frenarmi un po’.
– Raccontaci qualcosa del tuo romanzo – disse Sullivan.
– Gli scrittori non parlano mai dei lavori in corso – replicai. – Vero, Bobby? Rovina quella tensione necessaria. Se ne parlassero, non sentirebbero piú il bisogno di scrivere. Sostanzialmente, si scrive per spezzare la tensione. Giusto, Brand? E se la tensione creativa si rompe prima del dovuto, si perde la spinta. Mi sorprende sentirti fare una domanda del genere, Sully. Proprio tu.
– Parla di un uomo che diventa donna – disse Brand. – L’ex presidente degli Stati Uniti. È alla fine del secondo mandato, ma la sua gloria non tramonta. Lo invitano sempre a parlare ai grandi banchetti. E intanto si trasforma in donna. Cominciano a crescergli i seni e a rimpicciolirsi i genitali. La voce gli diventa stridula, da checca. Comincia a portare sempre una giarrettiera,per il brivido segreto che gli dà. È un WASP, l’ex presidente. Ma il nuovo bresidende è nero. Si ispira a Sonny Liston. Uno alla moda, magico. Si sballa tutte le sere, se la fa con mogli e figlie di tutti i senatori sudisti e anche con qualche senatore.
Sarà lungo oltre mille pagine. Si intitola Coitus Interruptus. La trama sarà quella che pare a voi, perché conta solo l’apparenza, amici. Il paese intero sputerà sangue, quando lo leggerà.
– Voglio parlarvi di un’idea che mi è venuta per un film – dissi.
– Siamo tutto orecchi – disse Pike.
– Ho una mezza idea di girare uno di quei film lunghi e incasinati, sul genere autobiografico, e mi piacerebbe girarne una parte qui nel Midwest, sempre ammesso che siamo nel Midwest. Un film lungo e incomprensibile pieno di frammenti di qualsiasi cosa abbia fatto parte della mia vita, che ci vorranno due o tre o anche piú giorni per farlo vedere, e in piccolissima parte vorrei girarlo qui. Troviamo un paesino sonnolento e giriamo un po’ di pellicola.
– Quanto ci vorrà? – domandò Sullivan. – Nel giro di un paio di settimane dovrai riprendere gli indiani.
– Abbiamo tempo. Per la parte che voglio sistemare subito basteranno due o tre giorni. Tre giorni, o diciassette anni. Userò la luce che troverò. Non mi importa quanto primitivo risulterà tecnicamente. Del resto, non sarò io in persona a riprendere gli indiani. Non terrò io fisicamente in mano la cinepresa. Farò da supervisore e da supervisionato. Il film che voglio girare sarà una cosa totalmente diversa. Me lo sto organizzando mentalmente. È strano come mi sia venuta l’idea. Ho visto una donna che potava una siepe. Quasi subito la scena si è trasformata in qualcos’altro. E sta mutando ancora adesso.
– Non avevo ancora finito di parlare del mio romanzo – disse Brand.
Pike si scandagliava l’orecchio con uno stuzzicadenti avvolto nella carta igienica. Finita l’operazione, passò davanti per guidare. Era calata la sera, il cielo a ovest incipriato di ruggine sbiadita, motel efflorescenti, il bagliore sulfureo dei lampioni, una vecchia carretta abbandonata in un campo con il cofano sollevato come la visiera di un berretto da baseball, una scena rurale degli anni trenta. Sullivan canticchiava un miscuglio di quelle che sembravano canzoni antimilitariste. Brand era curvo sul sedile con la sua macchinetta inglese per rollare le sigarette e un pacchetto di cartine Zig-Zag. A quanto pareva, stavamo oltrepassando una zona residenziale. Villini bianchi simili a case di bambola, con le imposte rosa come nella favola di Hansel e Gretel, le stazioni di servizio nascoste nelle stradine dei paesi di provincia, con un’unica pompa ormai decrepita e un cane addormentato in una pozza d’olio. Decisi di spegnere il registratore. Poi accesi la radio. Ali Akbar Khan suonava un raga notturno e dalle corde del suo sarod si riversava un’estasi triste e liquida. Mi venne in mente un bengalese cieco che cammina su una fune sopra il nulla. Avevo iniziato al buio e non c’era dubbio che avrei terminato nello stesso modo. Ma da qualche parte fra l’inizio e la fine doveva per forza esserci un tentativo di spiegare l’oscurità, quantomeno a me stesso, senza preoccuparmi di che forma bizzarra potesse mai assumere una spiegazione del genere e senza riguardo per le eventuali conseguenze. Forse il segreto era nei capelli della donna. Forse nei suoi movimenti per potare la siepe, con il bel portamento stilizzato tipico di una bambina che sa di essere guardata. Sullivan continuava a canticchiare. Sopra le cime degli alberi comparve un elicottero della polizia, che ci sorvolò proseguendo lungo l’autostrada. Brand aspirò profondamente il fumo in corpo.
– Where the fuck have all the flowers gone? – cantò, accelerando per farci stare tutte le parole.
Pike svoltò in una stradina e alla fine parcheggiò nello spiazzo dell’A&P, infilando il camper in mezzo a due station wagon in attesa di essere rimpinzate. Entrammo dalla grande porta a vetri onnisciente, che sapeva già del nostro arrivo e si spalancò per conto suo. Io e Brand ci separammo dagli altri per seguire una donna scura e attraente nella corsia vicina, al banco delle pesche e delle prugne. Le dita della donna scivolavano tra i frutti a palparli e saggiarli. Noi la affiancammo, spingendo leggermente il suo carrello con il nostro.
– Pesche – disse Brand.
Lei non fece una piega.
– Guardi come mi esce di bocca questa parola, tutta morbida e pelosetta. Pesche. La parola perfetta per la cosa perfetta. Adesso siamo qui fermi. Se guardiamo tutti le mie labbra, la vedremo uscire. Pesche. Lei cosa ne dice, signorina, sempre che si chiami cosí? Ne prendiamo mezzo chilo o un chilo? Siamo solo due bei ragazzi della East Coast, soprattutto lui. Senta, ho un po’ di erba da parte, nella mia ciofeca di plastica.
Lei passò alle prugne, e noi dietro. Era alta, con i fianchi che ondeggiavano in un modo incredibile mentre spingeva il carrello.
– Venga con noi nel nostro camper a rilassarsi un po’. Ci mangiamo le prugne e fumiamo una canna. Sto scrivendo un romanzo con la tecnica del monologo interiore diretto.
Lei si guardò intorno in cerca di soccorso, e io fissai la prugna nella sua mano delicata e mediterranea. Era il tipo di donna che ci si immagina di incontrare a Porto Said, piú adulta e piú saggia, color della terra, di sangue misto, che ride dei nostri modi di fare da biondi bambinoni yankee e dispensa verità sconvolgenti in poche brevi frasi: incredibile, ma si trovava proprio lí, in mezzo alle prugne del centro degli Stati Uniti.
– L’aria non è invisibile – disse Brand.
Poco dopo, lei era scomparsa. Ingranammo la retromarcia. Gli scaffali del supermercato erano lunghissimi e multicolori, e io pensai a mio padre. Era quella la sua arca brillante, migliaia di confezioni di panna montata spray con i loro beccucci fallici, la mitologia e il rombo del tuono, i lombi del Gigante Verde, secchielli traboccanti energia pulita e bianco che piú bianco non si può, le angosce nascoste nei rettangoli delle scritture evangeliche. (Bisogna smuovere la merce dagli scaffali). Un bambino era seduto in un carrello e frignava. La madre gli diede un gambo di sedano per giocarci e lui parve soddisfatto. – Chi è che vuole tanto bene alla mamma? – gli disse la donna. – Dimmi chi è che vuole tanto bene alla mamma, puzzetta mia. Il mio bimbo vuole tanto bene alla mamma. Ma certo che il mio bimbo vuole tanto bene alla mamma. Dimmelo, puzzetta mia. Il mio bimbo vuole tanto bene alla mamma. Sí, sí, sí –. Le donne infilavano la testa dentro congelatori giganteschi e ne riemergevano ancora vive. Le cassiere strisciavano i fianchi contro i registratori di cassa. Una vecchia signora cadde per terra.
Dopo un po’, arrivammo a una cittadina di nome Fort Curtis. Ero l’unico seduto davanti, a guidare con calma, con gli occhiali verdi sul naso e un paio di vecchi calzoni militari con enormi tasche posteriori, forse progettate per nascondere corde, pile elettriche e cesoie per il filo spinato. Era tardo pomeriggio di un giorno caldo, quasi fuori stagione, con il parabrezza coperto di insetti spiaccicati e un ronzio tranquillo di cicale che proveniva dall’erba alta in riva al fiume. Per quanto ne sapevo, il fiume poteva essere il Wabash, l’Ohio o il Mississippi. Percorremmo lentamente le strade ombrose e deserte della cittadina. Case di mattoni sotto filari di olmi secolari. Le verande avevano colonnine intagliate. Nei giardini c’erano aiuole di lillà, i pali del telefono erano coperti di muschio alla base, nel grande parcheggio alla periferia c’era un palco per la banda cittadina. Guidai ancora un po’, quindi fermai il camper davanti a un albergo intonacato di bianco su tre piani. Avevamo tutti bisogno di un bagno.
Nell’atrio c’erano quattro anziani che sfogliavano le stesse riviste. Presi una camera con bagno, poi ritornai al camper. Brand e Sullivan si erano addormentati sulle brandine. Pike era seduto al tavolo con addosso i mutandoni abbottonati da fante della Prima guerra mondiale, a bere bourbon e ad annusarsi le ascelle. Svegliai Sullivan. Lei mise in borsa le sue cose e andò in albergo. Aspettai dieci minuti, poi salii in camera. Mentre stavo per entrare, sentii l’acqua scorrere nella vasca da bagno. La porta era aperta. Sul letto era stesa parte dei vestiti di Sullivan. Esaminai attentamente la vestaglia marrone, che pareva fatta apposta per la penitenza quaresimale. Le pareti della stanza erano di un verde arcigno e burocratico. In un angolo c’era un mucchietto di polvere, graffette metalliche e briciole di intonaco. Niente televisore. La poltrona aveva la fodera consumata. Sentii Sullivan immergersi nella vasca.
– Deliziosi, i vecchietti giú nell’atrio – disse. – Com’è che si chiama questo albergo? Il Menopausa Hilton?
– Come hai fatto a capire che ero entrato?
– Mi porterò il segreto nella tomba, Igor.
– Senti – dissi. – Quando ti lavi le gambe, le sollevi una alla volta fuori dall’acqua strofinandole dolcemente e con sensualità con la spugna come le modelle degli spot pubblicitari?
– No.
– Posso entrare a guardare?
– No – rispose.
– Perché no? Siamo fra adulti.
– Appunto.
– Se ti prometto di tenermi una mano sugli occhi, posso venire a lavarti la schiena?
– Dove sei seduto?
– Sul letto.
– Vedi se riesci a trovare le sigarette.
– Qui non ci sono – dissi.
– Vuoi che scenda a prendertele?
– Non disturbarti.
Gettai sigarette e fiammiferi sotto il letto.
– Sully, ti scoccerebbe se ci fermassimo qui un paio di giorni?
– Per il tuo film?
– Stasera mi guardo intorno, poi decido.
– Che ha di tanto speciale questo posto?
– Mi sembra antico, semplice e noiosissimo.
– Per me va bene. Lo hai chiesto agli altri?
– Secondo me andrà bene anche a loro. Siamo tutti piuttosto stanchi. Qualche giorno di riposo ci farà bene.
– Be’, si può sapere dov’è che siamo? – chiese.
– Potremmo essere nell’Indiana. Come potremmo essere nell’Illinois o nel Kentucky. Non saprei.
– Mi sa che non ha importanza. Non so neanche perché te lo chiedo, ma cosa c’è a ovest di qui?
– Credo l’Iowa. Ma forse l’Iowa è piú a nord. Sto cercando di farmi tornare in mente cosa c’è sotto l’Iowa.
– Non importa. Lascia stare. Non so neanche perché l’ho chiesto.
Rimasi seduto sul letto ad ascoltare le tonalità della camera,o forse il suo rumore di fondo, riprendendo con la mia cinepresa mentale la demarcazione fra luce e ombra sulla poltrona. Quella camera d’albergo sembrava al di là del tempo, o quantomeno al di là del presente, nel tono, nelle fattezze, addirittura nella qualità della luce e dell’aria. Mi pareva il tipo di camera che anni o decenni prima serviva piú che altro ad attendere il rappresentante di articoli da ferramenta e le sue scappatelle al whisky. Era piú che probabile che già ai tempi la camera fosse altrettanto squallida. Forse era quello il sogno dell’epoca, un piccolo tocco di libidine e disordine, sogno ormai perduto, perché i nostri istinti erano risvegliati da un’immagine nuova, di spose e mezzane e pistoleri del West, un’immagine che si adeguava perfettamente al nostro ascetismo: l’irresistibile ascesa del modesto motel, pulito e lindo a livello del suolo, con un coniglietto elettronico ai piedi del letto. Dalla porta socchiusa del bagno si intravedevano un braccio e un seno. Raccolsi dal letto l’accappatoio e lo lanciai mirando al polso. In quella stanza c’era un’atmosfera morta. Morta e sepolta da trent’anni o piú.
Quella sera tirai fuori la mia cinepresa e uscii a fare una passeggiata. Era una Canon Scoopic da 16 mm, modificata per funzionare in sincrono con il registratore, un Nagra ultimo modello. La cinepresa non aveva l’obiettivo intercambiabile, ma era leggera, facile da maneggiare ed entrava subito in funzione. All’inizio la mia idea era di fare qualche ripresa semplice nel viaggio verso ovest, le facce bianche lignee degli agricoltori mennoniti, i sobri cittadini del Kansas vestiti per la messa. Ma ora i miei progetti erano un po’ piú ambiziosi, e per certi versi mi spaventavano, perlomeno nella loro versione non montata. Strinsi l’impugnatura, mi appoggiai la cinepresa alla spalla destra e cominciai a vagare per le strade silenziose. Dopo poco mi ritrovai una piccola folla alle calcagna.

8.

Strano a dirsi, ma la panchina non era verde. Era azzurro chiaro, proprio di fronte al palco giallo. Il campo giochi, da un lato, brillava di colori ancora piú allegri, forse per controbilanciare l’aspetto spartano e ostile del resto del panorama. Andai a sedermi e guardai una bambina che faceva navigare una scatoletta di fiammiferi in una pozzanghera ai piedi della fontana. Aspettai e le sei persone si avvicinarono lentamente a darmi il benvenuto, in due gruppetti di tre. Prima arrivarono un vecchietto e due vecchiette, poi un ragazzino seguito da due uomini che probabilmente avevano trascorso interi turni di guardia insieme su una bagnarola a Guadalcanal (nei gloriosi anni quaranta della Warner Brothers) a parlare della carrozzeria che avrebbero aperto in società il giorno che fossero tornati a casa. Ovviamente era la cinepresa a interessarli, il grande oggetto di conversazione postlineare, e mi si radunarono intorno gradualmente, presentandosi, rivolgendomi domande, mostrandosi amichevoli all’eccesso, preparandosi intanto all’indignazione di fronte a una mia eventuale inciviltà. Ma io rimasi ineccepibile dall’inizio alla fine, ospite in un luogo sacro.
Il vecchietto era il signor Hutchins. Disse che gli piaceva farsi chiamare Signor H. o Hutch, come preferivano i suoi amici della Florida. Le due donne erano la moglie e la sorella, Flora e Veejean, sui sessantacinque anni, belle, sorridenti e silenziose come due tendine di pizzo in controluce. Una volta Hutch si era fatto comprare una Argus da un amico. Mi disse che tutto l’impianto gli era costato solo centocinquanta dollari: cinepresa, proiettore, schermo con treppiede, valigetta e pellicola. Aveva fatto il tutto esaurito nel seminterrato della Chiesa Metodista con le sue riprese delle Everglades.
Gli altri uomini si chiamavano Glenn Yost e Owney Pine, e il ragazzo era Glenn Yost junior, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prima parte
  5. Seconda parte
  6. Terza parte
  7. Quarta parte
  8. Indice