Parte prima
La nascita dei moderni
Ostenteremo disprezzo verso chi descrive la mente umana che è cosa che ci riguarda cosí da vicino?
DAVID HUME, Ricerca sull’intelletto umano.
Capitolo primo
Il viaggio con Diderot
Avevo viaggiato un bel po’ prima di trovarlo. A Parigi, in vari indirizzi perché non era persona da star fermo in un posto troppo a lungo. Ero anche andato nella sua casa natale, a Langres, ma lí non c’era nulla che parlasse veramente di lui. Provai anche nella magione (non saprei chiamarla diversamente) del barone d’Holbach, che l’aveva ospitato piú volte insieme agli amici che gli erano piú cari e con i quali s’intrecciavano discussioni che duravano giorni (e notti) innaffiati di buon vino della Loira e di buon companatico.
Discutevano di tutto. Del bello. Del giusto. Dell’amore. Della scienza. Della ragione. Dell’etica. Di donne. Discutevano anche di Dio, in modi in verità molto spigliati.
Comunque non lo trovai neanche lí. Di d’Holbach poi, nei dintorni di quella casa che ai loro tempi chiamavano «il castello», nessuno si ricordava piú.
Allora mi decisi ad andare dove ero certo sarebbe stato. Lo sapevo, lo sapevo, l’aveva scritto lui stesso: «Ogni mattina, che faccia brutto o che faccia bello, vado nei giardini del Palais-Royal, mi siedo su una panchina e guardo le ragazze che adescano i clienti sotto i portici, li portano con loro in certi alberghetti. Le guardo e intanto seguo i miei pensieri che vanno e vengono nella mia mente come quelle ragazze laggiú, sotto i portici del palazzo…»
Cito a memoria quel brano di un suo dialogo, Le neveu de Rameau; l’ho letto tante volte e tante volte l’ho citato quando faceva al caso mio.
Perciò affittai una carrozza e mi feci portare al Palais, scesi ai cancelli e proseguii a piedi.
Era lí, come avevo previsto. Mi fermai a guardarlo da lontano, non volevo che se ne andasse per non essere infastidito. Ci voleva prudenza, non accade tutti i giorni di fare quel genere di incontri.
Era vestito di scuro con una camicia bianca aperta e rovesciata sul bavero della giacca, la fronte larga e quel profilo contro vento, come lo si vede nel ritratto che gli aveva fatto Fragonard: un uomo nel pieno vigore delle forze, al colmo della sua vita di pensatore, scrittore, editore, giornalista e uomo politico.
Sí, Denis Diderot era stato anche un uomo politico, naturalmente a modo suo. Capo riconosciuto di un partito, il parti des philosophes come lo chiamavano nei salotti e nelle corti di Francia e d’Europa. Il creatore dell’opinione pubblica, formatasi sui giornali e sui libri di quella schiera sorprendente di talenti che aveva ingaggiato una battaglia campale contro l’Ancien Régime in tutte le sue reazionarie manifestazioni, aprendo il passo alla modernità, alla libertà di coscienza, di stampa, di religione, auspicando l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la divisione dei poteri, e poi i diritti dell’uomo e la fine di tutti gli assolutismi. Anzi la fine dell’«assoluto» come mito e come concetto.
Aveva cavato di tasca dei fogli di carta fitti di una scrittura minuta e prese a leggerli con molta attenzione. A quel punto mi avvicinai, lo salutai e gli chiesi se potevo sedermi accanto a lui.
Alzò la testa dai fogli, mi squadrò con visibile fastidio e si tirò da parte per farmi posto.
Ora veniva per me la parte piú difficile di quell’incontro, del resto ero arrivato fin lí proprio per questo. Mi presentai. Rispose con un mugolio. Gli dissi che ero lí per fargli una proposta. A quel punto mi guardò con attenzione. «Non temete, caro maestro, non sono un provocatore e non ho nulla a che fare con gli sbirri di questo paese».
«Voi non siete francese». «No, sono venuto qui per incontrarvi e conoscervi. Ho letto tutte le vostre opere e so molto di voi. Per me siete stato una guida intellettuale. Ho cercato di imitarvi in molte cose, naturalmente a trecent’anni di distanza da voi». «Trecent’anni di distanza», commentò inarcando la fronte e fissandomi con crescente curiosità. «Perbacco, siete molto piú vecchio di me», commentò con un sorriso. «Diciamo che mi sono seduto sulle vostre spalle». «E vi trovate bene?» «Riesco a vedere meglio degli altri o almeno cosí credo, ma il merito è solo vostro».
Ripose i suoi fogli in tasca e si alzò. «Vi dispiace se passeggiamo?»
Il giardino era geometrico e ben curato. Si diresse verso il palazzo. «Eravate già stato qui?» «Sí, parecchie volte». «Ci ha abitato il reggente ed ora ci abitano i suoi discendenti. Una famiglia assai strana». «Ai tempi vostri stranissima e non vedeste tutto. Otto anni dopo la vostra morte il nipote del reggente votò perché il re suo cugino fosse decapitato».
Non dette alcun segno di sorpresa. «Vedete, – mi disse, – ho perso qualsiasi interesse a tutto ciò che è accaduto dopo». «Vi occupate d’altro?» «Assolutamente di nulla. Come sapete non esisto». «Vi sbagliate, monsieur, esistete eccome». «Forse nella vostra fantasia». «E vi par poco?»
Si fermò. Restò per un momento silenzioso. Poi disse: «Capisco. Sarete solo voi a decidere ciò che debbo fare, sono nelle vostre mani». «Ancora una volta vi sbagliate, caro maestro; sappiate che non vi farò fare o dire o pensare nulla che non sia farina del vostro sacco, essenza di quello che siete stato. Vi do la mia parola».
«Vi ringrazio e mi fido di voi. Vedo che parlate con molta franchezza. Mi piace, ma resta il fatto che quella che avete chiamato la mia essenza sarà pur sempre interpretata da voi. Comunque va bene cosí, voi mi avete evocato ed eccomi qui. Volevate farmi una proposta. È il momento».
«Vorrei che voi foste il mio Virgilio in un viaggio alla ricerca della modernità».
«Dimenticate che ho vissuto trecento anni fa. Che cosa intendete per modernità?»
«Intendo una cultura nata prima ancora che voi nasceste, un’epoca iniziata con Galileo e con Montaigne, ma che con voi e con i vostri amici raggiunse il suo culmine e durò ben oltre, cambiando le sue forme e le sue tonalità ma conservando l’ispirazione iniziale. Poi, come tutte le cose mortali, cedette il passo».
«Voi uomini d’oggi non siete piú moderni?»
«No, caro maestro, noi siamo contemporanei. Purtroppo. Dico meglio: noi moderni viviamo circondati dai contemporanei. Vi assicuro che ci viviamo molto male. Questa è la ragione per cui desidero fare questo viaggio da voi guidato».
«Vi sentite circondati dai barbari?»
«Avete capito benissimo».
«Ebbene, la vostra causa è degna d’essere appoggiata. Per quanto potrò, contate pure su di me».
Tra i frammenti attribuiti ad Eraclito ce n’è uno che ha avuto particolare fortuna, tanto piú citato quanto piú enigmatico: «Nell’acqua del fiume si può entrare una sola volta». C’è un tono di misteriosa saggezza in questa breve frase, cosí come nell’altra ancora piú fulminante: «Tutto scorre», che è lo sviluppo della prima.
Che cosa vuol dire il filosofo del divenire con quell’immagine del fiume e d’una persona che si bagna nella sua acqua veloce?
Tra le varie interpretazioni che si sono susseguite nel corso dei secoli quella prevalente chiama in causa il rapporto tra il tempo presente e il tempo passato. L’acqua è il tempo che scorre, l’uomo che vi si bagna ne intercetta quell’attimo che nell’attimo successivo non è piú lo stesso. La scansione degli attimi segna il precipitare dell’acqua dal presente al passato e il suo allontanarsi sempre di piú dal fuggevole transito del presente.
Ci sono tanti modi per descrivere il rapporto tra presente e passato, ma l’immagine dell’acqua che scorre e della persona che vi si immerge è sicuramente il piú poetico e sono molti i poeti che l’hanno usata poiché il sentimento del tempo è materia poetica per eccellenza.
Ma il frammento eracliteo richiama anche un altro aspetto del pensiero filosofico: quello della relatività veritativa contrapposta all’assolutezza.
«Mi piacerebbe, maestro mio, conoscere il vostro giudizio su questa questione che deve essere stata essenziale per la vostra filosofia dei Lumi, non è vero?»
Eravamo all’uscita dal giardino. «Venite, – mi disse, – andiamo a ragionare al chiuso, s’è levato un vento fastidioso». Infatti arrivava a folate un vento di scirocco che sollevava polvere e foglie secche e spingeva nel cielo cumuli di nuvole turrite.
A poca distanza da lí un italiano di nome Procopio aveva aperto una bottega dove si vendevano liquori e caffè. C’erano numerosi avventori, Denis me ne indicò alcuni, scrittori, giornalisti, attori di teatro, li conosceva quasi tutti e scambiava saluti mentre si apriva la strada finché raggiungemmo una sala piú piccola e con pochi tavoli. Lí ci sedemmo. Eravamo soli in quel momento davanti a un bricco di caffè denso e bollente. Riprendemmo il discorso appena iniziato.
«Vedo – disse lui – che il tema della verità relativa vi sta molto a cuore». «Infatti. Ritengo che sia stato uno dei caratteri dominanti della modernità. Non lo pensate anche voi? Non fu il tema centrale delle vostre riflessioni?»
«Amico mio, voi siete un postero rispetto a me. Perciò ragionate avendo a disposizione tutti gli sviluppi di una storia ed anche i suoi effetti e la sua conclusione. Ma quando quella storia, che noi chiamammo dei Lumi senza sapere che questa definizione avrebbe avuto tanta fortuna, cominciò, il nostro punto di partenza fu la Ragione. La Ragione della quale tutti gli uomini sono dotati sia pure in diversa misura. La Ragione che le passioni e gli istinti soffocano ingombrando il suo spazio di detriti, di ostacoli, di gesti inconsulti, di sentimenti che offuscano il retto funzionamento della mente.
Non ci ponemmo il problema della verità relativa, tanto piú che la Ragione, o se volete il pensiero razionale, la razionalità, per noi era presente in tutti gli uomini, era una caratteristica essenziale della nostra specie indipendentemente dalla cultura o dal colore della pelle».
«Volete dire un elemento assoluto?»
«Dico un carattere tipico della specie, presente in tutti gli individui che la compongono. Noi siamo centauri, amico mio; metà uomini e metà animali. Non so se con il passare dei secoli diventeremo interamente uomini o ritorneremo ad essere interamente animali; ma certo, se siamo quello che siamo, lo dobbiamo ad una conformazione specialissima della nostra mente che ci consente di pensare. Perfino di pensare che stiamo pensando».
«Voi avete scritto: i pensieri sono le mie puttane». «Sí, l’ho scritto e so anche che questa immagine vi è molto piaciuta».
«L’ho trovata tipica del vostro pensiero libertino, comunque di grande effetto letterario».
«Vi ringrazio. Dovremo tornare sul pensiero libertino, si è fatta parecchia confusione in proposito e vorrei profittare dell’occasione che mi offrite per fare chiarezza su questo punto che mi sta molto a cuore».
«Però non ci distraiamo dal tema della Ragione. Facciamo un passo alla volta».
«Non domando di meglio. Personalmente non ho mai mitizzato la Ragione. Qualcuno di noi, è vero, ne ha fatto quasi una divinità, un’entità astratta che dovrebbe governare il mondo. Sono stati commessi molti errori in nome di quella divinità. Temo che, dopo di noi, siano stati compiuti anche crimini. Ma questo non mi riguarda. Ricordate? Sono morto nel 1784, per me la questione si chiude lí».
Mentre finiva di parlare si aprí la porta della stanza ed entrò un uomo di piccola statura e occhi vivacissimi, mi guardò, diede la mano a Denis che l’aveva accolto con un «Finalmente vi si rivede, dove v’eravate nascosto?» Poi, rivolto a me: «Conoscete…» «Signor d’Alembert!» dissi alzandomi e inchinandomi. «Lui chi è?» domandò d’Alembert guardando Denis. «Un amico, uno straniero. Ti puoi fidare». «Bene, anzi malissimo. Il censore del re ha ritirato il privilegio. Divieto di continuare e sequestro di tutta l’opera. Lo sapevi?» «Lo prevedevo. Malesherbes mi aveva detto che a corte il vento era cambiato». «Ma è una catastrofe. Dobbiamo ancora pagare molti articoli e abbiamo un grosso debito col tipografo…»
Assistevo col fiato in gola a questa scena «in diretta» della quale avevo letto discordanti versioni. «Ora dirà che si ritira dall’impresa», pensai. Infatti, con un visibile sforzo fisico per mandar fuori la voce, disse: «Io me ne vado, Denis, voglio tornare ai miei studi e vivere tranquillamente quanto mi resta. Dovevo entrare nell’Accademia e invece alla fine mi è stata sbarrata la strada. Tu sai perché: ormai mi giudicano un sovversivo, un soggetto pericoloso per la pubblica quiete perché tu hai trasformato l’Enciclopedia e tutti quelli che ci scrivono in un club politico. Non erano questi i nostri programmi, volevamo fare un compendio di arti e mestieri, il re ci aveva dato il permesso…»
Diderot ascoltava quella requisitoria con aria contrita. Voleva bene al suo amico, sapeva che le sue rimostranze erano fondate. Del resto non era il solo dei suoi collaboratori a protestare. Protestava Rousseau per ragioni del tutto diverse; protestava Voltaire, ma era troppo intelligente per abbandonare l’impresa e poi Voltaire viveva di luce propria, per lui l’Enciclopedia era una sorta di amplificatore senza peraltro creargli alcuna dipendenza. Ma protestava perfino Grimm, che pure era una sua creatura.
Insomma la vicenda dei Lumi era ad una svolta, bisognava decidere: fermarsi e aspettare che tornasse il vento favorevole oppure infischiarsene degli ostacoli, allargare il cerchio dei collaboratori e dei sostenitori, trasferire la stampa ad Amsterdam o a Ginevra, diventare clandestini, ma questo avrebbe spostato il baricentro di tutto il gruppo e non era l’obiettivo di Diderot, anzi era il rischio che lui aveva fino a quel momento scongiurato e che temeva piú d’ogni altro.
«Via, non vi scaldate signor d’Alembert. Portate pazienza. Vedrete, diventerete ben presto membro dell’Accademia e di molte altre istituzioni di prestigio anche fuori di Francia». Ero intervenuto per troncare quella discussione che stava diventando imbarazzante. «La ringrazio per il suo augurio, ma purtroppo le cose non andranno come lei spera».
«Lui non spera, lui sa come andranno le cose», disse Diderot. «Va bene, sospendiamo questo discorso. Ho da fare e vi saluto. Ti scriverò due righe con le mie dimissioni, cosí sarai libero di decidere il tuo futuro senza di me. Ma sappi che ti resterò sempre amico». «Ed io ti vorrò sempre bene».
Uscí dalla stanza e fummo di nuovo soli.
«È vero che siete in dissenso con Voltaire? Se ne è parlato molto ma se ne sa poco. Forse è la volta di far chiarezza su questo punto, non vi pare?»
«Avete ragione, anche se a me sembra tutto molto chiaro. Voltaire non deve nulla a me ed io non devo nulla a lui. Avremmo potuto non incontrarci ma un posto nella piccola storia della cultura europea l’avremmo comunque avuto, ciascuno con le sue opere. Lui ha dato sempre molta importanza al suo teatro, ma se non avesse scritto altro nessuno ricorderebbe il suo nome, niente a che vedere con Corneille e tanto meno con Racine, per nominare quelli che vissero prima di noi».
«Eppure il suo teatro fu molto applaudito. Ci furono scene di vero entusiasmo. Ho letto che appena un mese prima della sua morte, alla “prima” di un suo dramma, tutta Parigi si mobilitò, all’uscita dal teatro, staccarono perfino i cavalli dalla sua carrozza e lo sospinsero a braccia fino a rue du Bac dove alloggiava».
«È vero, andò cosí, ma non toglie nulla a ciò che ho detto, il suo teatro non vale niente, l’entusiasmo dei parigini era per lui, l’autore di Candide, di Micromégas, il sostenitore della tolleranza e della ragione. Se permettete, il collaboratore dell’Enciclopedia».
«Vedete? Non è vero che non vi deve nulla».
«Forse non mi sono spiegato. Se non ci fossimo incontrati avremmo comunque avuto un ricordo, una menzione nella piccola storia della cultura europea. A me l’avrebbero assicurato i miei dialoghi, i miei romanzi, la mia filosofia. Oso pensare che il mio ruolo sarebbe forse stato maggiore del suo. In fondo il mio Jacques le fataliste ha rappresentato un salto di qualità nella storia del romanzo. Ma…»
«C’è dunque un ma, me l’aspettavo…»
«Ma abbiamo fatto l’Enciclopedia e con quella siamo entrati tutti insieme nella grande storia delle idee, in Europa, in Occidente, perfino in Asia. È nato l’Illuminismo».
«Senza l’Enciclopedia non sarebbe nato?»
«No. Se andate a scorrere l’elenco dei collaboratori, le dimensioni qualitative ed anche quantitative di quel gruppo di pensatori, artisti, scienziati,...