Lingua
Ho preso una bistecca cruda, l’ho ficcata dentro le labbra, distendendola bene fino in gola. Ho chiuso la bocca di colpo serrando i denti con un taglio secco, ed ecco inventata la mia lingua.
La mia lingua è un taglio di macelleria, parla il linguaggio degli animali uccisi, si contorce in bocca per non farsi inghiottire; è un boccone di cibo chiacchierone che racconta mille e una storia per rinviare la sua condanna a morte.
La mia lingua vive in una cabina di pilotaggio, da dove dirige il mondo. Tocca i pulsanti con la punta, inarca la schiena per premere contro il soffitto, si puntella sulle gengive, vibra, si distende, contrae i muscoli dei fianchi, lecca l’interno dei denti. Tutto questo dà origine a una serie di ordini e comandi che vengono eseguiti a parole.
A volte eseguo le parole senza la voce, pronuncio soltanto i movimenti della mia lingua. Da sordomuta, la mia lingua ci fa la figura di una forsennata insulsa, si dimena in preda allo sconcerto, non capisce perché si sia interrotto il flusso. Il blackout le impedisce di screziare la corrente di luce.
La mia lingua si annoia facilmente. Dà fastidio a tutto il resto della bocca: fa il solletico al palato disegnando ghirigori con la punta; passa e ripassa sullo smalto dei denti; pesca le briciole di cibo dal pozzo delle carie; lucida l’interno delle guance. Stremata dalla noia, si ridistende rassegnata nel suo letto a soppalco.
Quando si addormenta, la mia lingua sogna suoni inesistenti. Si piega all’indietro per pronunciare una
Poi si mette di taglio, diventa una parete di tramezzo che separa la bocca in due camere; emette a destra e a sinistra la vocale bifona φ. Poi si aggroviglia per dire
. Poi si sfrangia per dire nei dettagli
. Poi si biforca per dire contemporaneamente
e
.
Le lettere dell’alfabeto si dividono in: dolci, amare, acide, salate, a seconda della parte della lingua che le insaporisce pronunciandole.
Ho in bocca una bestiola civilizzata che non sa decidersi fra cibo e linguaggio. La mia lingua tace beneducatamente mentre inghiotto il boccone. Ma nemmeno a volerlo le corde vocali potrebbero far motto mentre la gola deglutisce.
La mia lingua si diletta a gustare il sapore della parola limone e della parola caffè. Ma è capace anche di sentire il sapore metallico della parola caffettiera, quello della parola cielo e della parola parola.
Le mie papille sono occhi di lumaca. Quando assaggio un limone, le mie papille si ritraggono: le ferisce il gusto abbagliante di quei raggi solari rappresi. Le mie papille si rintanano, spaventate da tutto ciò che toccano visivamente, si conficcano sotto le palpebre granulose della lingua. Poi la lumaca ricomincia a dimenarsi nella sua acquolina, e i glomeruli d’occhio ritornano allo scoperto, si diramano timidamente, sulla sommità delle loro antenne molli, per applicare al mondo uno sguardo tattile e viscoso.
Quando la mia lingua scolpisce la voce per modellare le parole, alla fine non è mai soddisfatta del suo lavoro. Le parole le sfuggono, le sente sbocciare, le vede decollare dalla finestra senza riuscire a trattenerle un po’ con sé. La sua saliva non è appiccicosa a sufficienza per incollarle al palato. Allora ci riprova, ma le parole scappano anche questa volta. Allora ci riprova urlando, ma le parole escono sbattendo la porta. Allora ci riprova sussurrando, ma le parole evaporano. Allora ci riprova, ma la gente mi dice vabbè ho capito, me lo dirai un’altra volta, ti saluto, adesso ho da fare.
La mia lingua vorrebbe appallottolare le parole in un bolo insalivato, spingerle muscolarmente nell’esofago, inghiottirle.
Quando dà un bacio, la mia lingua assaggia il sapore di un’altra lingua. La stessa cosa fa la lingua che sta baciando la mia lingua. Si crea cosà un terzo sapore inaudito: il sapore degli organi assaggiatori di sapore che assaggiano vicendevolmente se stessi. I recettori gustano il loro reciproco assaporarsi. Il gusto di papille si sprigiona molto profondamente sulla superficie della mia lingua. Questo fenomeno gustativo viene chiamato a volte sesso, a volte amore.
La mia lingua fa confusione fra le parole, i baci e i bocconi. È una stazione ferroviaria dove passa di tutto, lasciando in bocca il gusto malinconico dell’abbandono.
La mia lingua è un’operaia specializzata che lavora in una fabbrica pericolosissima, a contatto quotidiano con ghigliottine, lame, presse, stalattiti e punzoni perforanti. La mia lingua si intrufola tra i macchinari della bocca, senza tutela sindacale né assicurazione contro gli infortuni.
I lapsus sono scatti che la mia lingua compie all’improvviso per schivare l’affondo di un dente. Alcune parole nascono storpie, mal tagliate. La mia lingua sacrifica qualche parola, pur di continuare a parlare. I denti sono ostili a ciò che la mia lingua vuol dire. I denti battono dove la lingua duole.
Dalla catena di montaggio, allineati lungo il nastro trasportatore della mia lingua escono velivoli spiritati: hanno una breve autonomia di volo; a bordo i passeggeri si preparano serenamente allo schianto, tengono la cintura di sicurezza allacciata, attendono con la massima tranquillità che la carlinga si squarci per sprigionare significati devastanti.
Le parole lo sanno che ogni atterraggio è a rischio, e che molto probabilmente si schianteranno senza senso. Anche questo ennesimo decollo le farà precipitare nel vuoto. Cercano di centrare le teste, in cima al grattacielo di ogni corpo umano. I kamikaze mirano a far esplodere la torre.
La mia lingua è molto coraggiosa, infila la testa nella bocca della tigre; le ruba una sillaba dopo l’altra, con un guizzo rapinoso, per far ascoltare al mondo il suono selvaggio delle mie idee.
La mia lingua morirà di morte violenta. Un giorno verrà maciullata dai miei denti. La taglieranno a pezzi e la massacreranno metodicamente, insalivandola con il suo stesso succo digestivo, condendola con il suo stesso sangue. La mia lingua morirà senza dire una parola.
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Dita
Prima di scrivere, fisso a lungo la punta delle dita. Le mie dita sono rubinetti da cui sgorga a volte acqua torbida, a volte aranciata frizzante, a volte Chianti riserva del 1963.
Le mie dita sono campanili issati intorno al sagrato del palmo. Manca la chiesa, l’edificio principale. Le mie dita ne hanno nostalgia, afferrano tutto ciò che trovano. Catene dello sciacquone, fermacarte, cime di montagne. Le mie dita verificano se è quello il tempio da cui furono allontanate, non sanno neanche loro quando.
La cella campanaria delle mie dita è chiusa da una vetrata traslucida. Dietro le unghie intravedo il sangue che pulsa quietamente, con lenta gravità . La campana batte milioni di rintocchi, non ha mai smesso di annunciare in anticipo il mio funerale, fin da prima del giorno in cui sono nato.
Metto le dita davanti alla lampadina, guardo come si arrossano in trasparenza, eseguo una radiografia domestica, alla buona. Davanti alla lampadina, le mie dita sembrano salsicce di sangue senza ossa. Ho a portata di mano dieci inutili würstel indigesti. Mi guardo tutto intero: sono un ammasso di carne succulenta, una provvista di me stesso. Mangiandomi non basterei a sfamarmi nemmeno per una settimana.
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È una notte di luna piena, la segno a dito, ma la luce staglia una sagoma scura sul muro bianchissimo. L’ombra del mio dito, proiettata dalla luce della luna, indica un’altra cosa: una formica che zampetta a pochi centimetri, il ramo di una quercia, una merda, una stella…
Tendo l’indice, mi avvicino al muro, tocco la parete con la punta del dito. L’indicazione rimbalza addosso al mio dito. La mia ombra mi indica.
I due indici sono i signori assoluti dell’alfabeto, se lo spartiscono sulla tastiera. Di proprietà dell’indice sinistro sono le lettere: qwertyasdfghzxcvb. Di proprietà dell’indice destro sono le lettere: uiopèjklòà únm. Per un certo periodo, i miei indici hanno litigato. Ho dovuto scrivere con una sola di queste due metà della tastiera. Gli scritti dell’indice sinistro assomigliavano a poesie d’avanguardia senza capo né coda, che scorrevano in un flusso irrefrenabile. Gli scritti dell’indice destro, al confronto, davano l’impressione di essere assai piú ponderati, quasi professorali: alla giurisdizione dell’indice destro appartiene infatti quasi tutta la punteggiatura.
Da quando possiedo un telefono portatile in grado di inviare brevi messaggi di testo, persino il pollice, dito assai corto di cervello e di pasta grossa, da analfabeta che era è diventato un letterato finissimo. Si è scoperto un’anima parnassiana: sulla tastiera alfanumerica del telefonino scrive solo haiku e aforismi.
Il polpastrello piú tozzo si abbatte con malagrazia sulla barra spaziatrice; è il pollice che tronca la parola, determina la fine che rende possibile un altro inizio. Si. Procede. A. Fiotti. A. Scossoni. In. Avanti. Grazie al pollice opponibile separo ogni parola dalle altre: le afferro una per una, le carpisco dalla poltiglia, dalflussodelcaosinfinito.
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Quand’è che verranno costruite tastiere speciali, in modo che anche le ginocchia, il naso e i talloni possano dire la loro?
Questa pagina l’ho scritta tutta con i mignoli.
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Barba
La mia barba si inerpica sulle basette, ricopre tutto il cuoio capelluto fino al cocuzzolo della capoccia. Zitta zitta, dai lati del collo la mia barba prosegue sulla nuca, grazie a due passaggi segreti, due istmi sotto le orecchie; da là si getta a capofitto lungo la schiena, sui glutei, dietro le cosce, sui polpacci. Davanti, supera i valichi alpini delle clavicole e dilaga nel petto, si dirama nelle braccia, occupa la pancia, assedia il sesso e si inoltra fino alle ginocchia, corre lungo le passerelle degli stinchi e ricopre i piedi con un paio di ghette. Ogni mattina ci metto due ore a radermi.
Nudo, con il rasoio in mano, in piedi davanti allo specchio del bagno, sono completamente rivestito di schiuma da barba. Due forellini neri appaiono e scompaiono dietro spesse palpebre di candida panna.
In tutti questi anni, ho lasciato crescere la mia barba dal mento fino ai piedi. D’inverno la avvolgo intorno al collo per non buscarmi un raffreddore. Nelle serate di gala la faccio girare sotto il colletto ripiegato della camicia, la annodo davanti al pomo d’Adamo. Ci appendo un braccio rotto. Ci lego il mio sesso: ogni movimento della mandibola, ogni sillaba che pronuncio fa sobbalzare la marionetta; le mie parole sono le burattinaie del mio cazzo. Ammanetto i polsi delle donne alla testiera del letto con il mio legaccio peloso, faccio la tortura del solletico con il mio ispido piumino. Incollo le setole a una bacchetta, dipingo con il pennello. Spolvero scaffali e soprammobili. Con un ingegnoso incrocio di cinghie sotto le ascelle, sulle clavicole e dietro le scapole, trasporto sulle spalle un sacco a pelo. Lego pezzetti di vetro alle punte, mi do frustate sulla schiena. Faccio un nodo scorsoio, sventolo il cappio per aria, mi prendo al lazo. Fisso le cordicelle alle chiavi di una cornice triangolare, suono l’arpa. Infilo i peli nella cruna degli aghi, cucio un vestito da sposo.
I miei baffi sono: frivoli; strafottenti; maschilisti; inquieti. I miei baffi hanno un carattere mondano, amano la vita in società . Al contrario, la mia barba è: assorta; comprensiva; profonda; tranquilla. La mia barba ha un’indole spirituale, disdegna le faccende terrene. Quando li lascio crescere entrambi, dei due è la la barba ad avere il sopravvento: in una faccia completamente barbuta, i baffi non si distinguono piú, si dimenticano di essere se stessi. La mia barba li assorbe, li stempera, li ammansisce; li converte alla sua religione.
Non è bello lasciarsi andare alla deriva, trascurarsi, dimenticarsi di curare il proprio aspetto. Immobile davanti allo specchio, spalmo la schiuma sul vetro, dentro i contorni della mia barba riflessa. Poi, con estrema cautela, passo la lametta sulla mia immagine. Il filo del rasoio stride sul vetro. Bisogna stare molto attenti a non ferire la pelle dell’immagine. È difficile tamponare il sangue; dai tagli sullo specchio escono fiotti di luce nera che dilaga nel mondo, cancellandolo.
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Culo
Sedili, panchine, poltrone, sgabelli. Il mio culo frequenta la fascia intermedia del mondo, a mezza altezza; propone una terza via fra il sublime e l’infimo, una proba mediocrità . Né in piedi, né distesi. Né affaccendati, né arresi. Né in cielo, né in terra. Né vivi, né morti.
Il mio culo mette allegria, è la parte piú comica del mio corpo. Ma il mio culo non è frivolo: sa bene che cos’è la morte. Ha assistito dalla porta d’uscita a migliaia di funerali, conosce l’aspetto che assumono i cadaveri della frutta, le carni putrefatte degli animali digeriti fino all’ultima fibra. Ha reagito a tanto sfacelo sviluppando un carattere spiritoso; l’appuntamento quotidiano con il disfacimento lo ha temprato. Per il mio culo, la commedia nasce dalla convivenza con la tragedia.
Il mio culo ci tiene al decoro; per quanto possibile cerca di mascherare la presenza del sudicio sfintere. In un primo tempo ha cercato di ucciderlo nel sonno, soffocandolo tra due cuscini; poi si è rassegnato a nasconderlo in fondo a una piega.
Che cosa c’è scritto sul mio culo? Non è agevole decifrarlo allo specchio, con il torcicollo, alla rovescia. Il solco della rilegatura affonda fra i glutei; la fine delle righe nella pagina di sinistra e l’inizio delle righe nella pagina di destra si perdono nell’ombra, come le fotocopie di un’enciclopedia troppo voluminosa, che non si spalanca mai del tutto. Mi lascio sfogliare volentieri dalla donna che conosce il mio rovescio molto meglio di me, la ascolto leggere ad alta voce il libro aperto del mio culo.
Sui due emisferi del mio culo è tatuato il mappamondo.
Mi siedo per terra ad aspettare l’alba, appoggio il mio culo sul culmine del pianeta, in cima alla sua chiappa gigante. Il sole sbuca all’orizzonte, dallo sfintere del mondo si innalza un escremento rossastro. Non fa piacere guardarlo a lungo: in pochi minuti diventa intollerabile a vedersi, gli occhi non riescono a fissarlo. Il sole è osceno.
Il mio culo è un po’ paranoico. Teme cosà tanto i contatti spigolosi che ha sviluppato un paraurti caricaturale, da autoscontro di luna park. Ha fatto lievitare due focacce pastose, appetitose, per i periodi di magra. Ha accumulato provviste e riserve alimentari in un paio di gobbe di cammello.
Il mio culo guarda sempre dove si siede, ha paura di appoggiarsi su un chiodo, su un gattino, sul vetro di una fotocopiatrice che gli rubi un ritratto a tradimento, per appenderlo sulla bacheca dell’ufficio e suscitare l’ilarità dei colleghi.
Cado a terra seduto, rimbalzo gommosamente; ricado, rimbalzo. Il mio culo è un mezzo di locomozione alternativo. In mancanza di carrozze, carriole, carri a motore, ci si può muovere stando comodamente seduti: basta lasciarsi crollare di schianto, e poi sfruttare il rinculo. Il mio culo utilizza la forza di gravità , le proprietà elastiche dei tessuti organici e il carburante inesauribile della mia pigrizia.
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Il mio culo è un’ottima custodia per documenti. Nel solco infilo di taglio la mia carta d’identità , la presento al poliziotto con un inchino.
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Unghie
Le mie unghie crescono a forma di scudo. Il disegno di ciascun blasone è molto elementare: in campo rosa fa capolino una luna che sorge. Ho un bell’aspettare, passando le notti seduto, con lo sguardo rivolto all’orizzonte; la luna non si mostra mai. Ciò che continua a sorgere è il cielo rosa dietro di lei. Il firmamento scorre sullo sfondo del satellite fisso, inchiodato alla soglia del mondo.
Le donne dipingono sulle unghie lo stemma araldico del loro sesso.
Le unghie delle mie mani sono dieci. Ce n’è una per ogni dito. Al confine delle mie unghie si aprono bianche parentesi tonde. Da là iniziano dieci frasi che proseguono fino alla punta dei piedi, dove altre dieci unghie chiudono tutte le parentesi. Io sono dieci frasi ...