
eBook - ePub
Canti di Natale
Canto di Natale/Le campane/Il grillo del focolare/La battaglia della vita/Il patto col fantasma
- 488 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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Canti di Natale
Canto di Natale/Le campane/Il grillo del focolare/La battaglia della vita/Il patto col fantasma
Informazioni su questo libro
Eccoli quindi raccolti tutti e cinque nello stesso volume: Canto di Natale, Le campane, Il grillo del focolare, La battaglia della vita, Il patto col fantasma. Racconti per il Natale (più che racconti sul Natale) in cui Dickens affrontò temi sempre diversi - dall'altruismo come missione al sacrificio in nome dell'amore, dalla dignità di ogni creatura alla necessità della memoria - ma accomunati da un'unica, irripetibile magia: quella di mostrarci la vita com'è, facendoci sentire alla fine un po' migliori.
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Informazioni
Print ISBN
9788806190996eBook ISBN
9788858401729Il patto col fantasma
Capitolo primo
Il dono accordato
Lo dicevano tutti.
Non che io voglia insinuare che quello che dicono tutti sia sempre la verità . Gli uomini possono accordarsi allo stesso modo su una cosa vera e su una falsa, e anzi l’esperienza generale dimostra che la moltitudine ha torto molto di frequente, e l’entità di questo torto è stata analizzata cosà spesso e con tanta cura e fatica che ormai è ben chiaro che l’autorità del consenso universale non è sempre affidabile. Potrà avere ragione qualche volta, «ma questa non è la regola», come dice il fantasma di Giles Scroggins nella famosa ballata.
Ma questa parola terribile, «fantasma», mi riporta a bomba: lo dicevano tutti, che aveva l’aspetto di un uomo che parlasse con gli spettri, e se qui faccio menzione di questo giudizio generale è solo per aggiungere che, quanto a questo, era vero: in effetti ci parlava.
Ma del resto, chi avrebbe potuto vedere quei suoi occhi infossati, quelle guance incavate, quei suoi vestiti sempre neri nonostante fosse un uomo cosà ben proporzionato e aitante, quei capelli brizzolati, lunghi e scomposti come alghe marine neanche fosse stato per tutta la vita l’unico bersaglio del rancore e della malignità di tutta la razza umana – chi, dicevo, avrebbe potuto vederlo in quello stato e non pensare che avesse l’aspetto di uno spiritato?
Chi avrebbe potuto osservare i suoi modi – la sua laconicità pensierosa, la sua tristezza, il suo riserbo abituale, quasi selvaggio e sempre accigliato e quell’aria distratta come di chi pensi a tempi e luoghi remoti o ascolti qualche eco antica con l’orecchio della mente – senza pensare che fossero i modi di uno spiritato?
Chi avrebbe potuto sentire la sua voce lenta, grave, cupa, piena e melodiosa di natura ma come contrastata e contenuta, senza affermare che quella era la voce di un uomo che frequentava i fantasmi?
Chi avrebbe potuto vederlo nella sua stanza più segreta, a un tempo biblioteca e laboratorio (perché era un chimico esperto, un famoso professore dalle cui labbra e dalle cui mani pendeva ogni giorno una folla di studenti); chi avrebbe potuto vedercelo d’inverno, sul fare della notte, tutto solo e circondato dalle sue droghe, dai suoi strumenti, dai suoi libri, mentre l’ombra della lampada disegnava sul muro una specie di enorme insetto e lui, immobile tra lo sciame di fantastiche visioni evocate dal fuoco riflesso su quegli strani oggetti intorno a lui, li osservava tremare senza posa come esseri consapevoli del suo potere di scombinarli e restituirli al fuoco e al vapore; chi, allora, avrebbe potuto vederlo immobile e meditabondo sulla sua poltrona mentre di fronte alla grata arrugginita e alla fiamma vermiglia muoveva le labbra sottili come parlando ma rimanendo silenzioso, e non dire che quell’uomo, e con lui anche la sua stanza, sembravano in commercio con gli spettri?
E chi poi non avrebbe potuto credere, con un facile volo di fantasia, che ogni cosa intorno a lui assumesse a sua volta un aspetto mortale e che quindi anche lui vivesse nella terra degli spiriti? Davvero la sua dimora solitaria pareva un antro fatato.
Posta in un’antica e isolata porzione di una costruzione destinata sin dall’inizio a essere usata come scuola, nei suoi anni d’oro era stata un bell’edificio, cosà all’aperto, ma ormai si era ridotta a una curiosa anticaglia di mano ignota, tinta e ritinta dal fumo, dagli anni e dalle intemperie, pressata dalla grande città che le era cresciuta tutto intorno e ostruita da pietre e mattoni come un pozzo inservibile. Quel poco di cortile e giardino che le dava aria giaceva sul fondo di un vero e proprio fossato creato dai vicoli e dalle case che nel corso degli anni erano cresciuti ai suoi lati togliendo aria persino ai comignoli sul tetto, e i suoi alberi secolari erano insultati dal fumo dei vicini, che nei momenti di debolezza, se l’atmosfera era pesante, si degnava di scendere fin laggiù. Sotto la brina, l’erbetta si affannava per vestirsi di un po’ di verde, ma con scarso successo, e lo sterrato che ci girava intorno non veniva mai disturbato dal calpestio di passi né indagato da sguardi curiosi, se non quando un passante smarrito guardava giù dal mondo superiore per vedere che diavolo di posto fosse quello. La sua meridiana, tracciata in un angolo sui mattoni, non vedeva un raggio di sole forse da cent’anni, ma in compenso la neve poteva rimanere ai suoi piedi più a lungo che in ogni altro luogo, e quando altrove non tirava neanche una minima brezzolina, il vento dell’est ci si aggirava impetuoso, ronzando come un insetto gigantesco.
Nel suo punto più centrale, dove si trovava il focolare del chimico, la casa era tetra, vetusta e tutta crepata, per quanto ancora solida. Le travi del soffitto erano corrose, il pavimento grossolano inclinava verso il grande camino di quercia e anche se la città era arrivata fin là con il suo abbraccio opprimente, le mode moderne non l’avevano nemmeno toccata. Di solito vi regnava un grande silenzio, ma ogni qual volta si sentisse una voce lontana o venisse sbattuta un’imposta risuonava di echi che si prolungavano liberi lungo i tetri corridoi e le sale deserte, rombando e brontolando fino ai sotterranei, dove infine erano soffocati dall’aria addormentata della cripta normanna, le cui arcate affondavano per metà nel terreno.
In quei momenti avreste dovuto vederlo nella sua dimora, verso il crepuscolo, nel cuore dell’inverno.
Quando al calare del sole nebbioso irrompe un vento stridulo e spietato; quando è cosà scuro che le forme delle cose non sono ancora del tutto scomparse, ma si scorgono indistinte e più grandi del vero; quando chi si è accoccolato intorno al fuoco incomincia a vedere nei carboni fiammeggianti facce e figure, montagne e abissi, imboscate ed eserciti. Quando la gente per strada infossa la testa nel bavero e corre via incalzata dal vento, mentre chi deve andargli incontro è costretto ad arrestarsi di fronte a certe folate, punto dai fiocchi di neve che vagano per l’aria e si fermano sulle palpebre, ancora però troppo radi e soffiati via troppo rapidamente per lasciar traccia sulla terra gelata; quando le finestre delle case private vengono chiuse più ermeticamente, e il gas comincia ad ardere e sprizzare nei quartieri affaccendati come in quelli più tranquilli, dove senza questa provvidenza verrebbe ben presto il buio più totale; quando i pedoni rallentati e intirizziti lungo le vie osservano i fuochi accesi delle cucine interrate, acuendo ancora di più il loro appetito, già abbastanza acuto, con il profumo di migliaia e migliaia di cene.
Quando chi viaggia via terra si sente più infreddolito e guarda con occhio abbattuto i tristi paesaggi su cui il vento imperversa senza tregua; quando i marinai manovrano pericolosamente sugli alberi ricoperti di ghiaccio, dondolando e sobbalzando più del solito su un oceano che ruggisce orribilmente; quando i fari sugli scogli e i promontori cominciano a mostrarsi soli e vigili mentre gli uccelli marini, sorpresi dalla notte, si schiantano sulle potenti lampade e cadono morti; quando il fanciullo che legge le sue storie accanto al fuoco pensa tremando ad Alà Babà nella caverna dei ladroni o inizia a temere che quella triste vecchietta con la gruccia che salta fuori dalla scatola nella camera di Abdullah possa venirgli incontro sulle scale una di queste sere durante il lungo, freddo e malinconico viaggio quotidiano per andare a letto.
Quando nelle campagne l’ultimo barlume del giorno svanisce in fondo ai viali e le piante, curvate a volta, si fanno nere e spaventose; quando nei parchi e nei boschi l’umida felce, i muschi inzuppati, i mucchi di foglie cadute e i tronchi degli alberi si confondono insieme in ammassi di ombre impenetrabili; quando la nebbia si addensa sorgendo dai fossati, dagli acquitrini, dai fiumi; quando scoprire una luce in un antico castello come in una capanna è un conforto; quando il mulino si ferma e il fabbro e il carrettiere chiudono bottega, il casellante si ritira, l’aratro e l’erpice vengono abbandonati nei campi, l’agricoltore e i buoi tornano a casa e il tocco dell’orologio parrocchiale dà un suono più cupo che non a mezzogiorno, il cancello del cimitero che riposa immobile per non essere più smosso fino al mattino.
Nell’ora in cui il crepuscolo lascia libere le ombre che sono state rinchiuse per tutto il giorno e loro irrompono a frotte come una parata di fantasmi, ammucchiandosi più dense negli angoli delle stanze e spiando sinistramente dietro gli usci semichiusi; nell’ora in cui occupano da sole gli appartamenti disabitati e danzano sui pavimenti, lungo le pareti e sui soffitti delle stanze deserte quando il fuoco si abbassa, per poi ritirarsi precipitose come le onde della risacca non appena la fiamma risorge; nell’ora in cui con un gioco fantastico si alterano le forme delle cose familiari, facendo assomigliare la balia a una befana e il cavalluccio di legno a un drago, per cui il fanciullo, mezzo atterrito e mezzo allettato, si sente come estraneo a sé stesso, e le molle del camino gli sembrano un gigante a gambe aperte che fiuti il sangue degli Inglesi e li cerchi per macinare le loro ossa e farne farina.
Nell’ora in cui quelle stesse ombre richiamano alla mente vecchi pensieri e formano altre immagini sbucando furtive con forme e aspetti tali da sembrare che vengano dal passato, dalla tomba, da quel cupo e infinito abisso dove aleggiano senza tregua le cose un tempo più sperate e mai, mai avverate.
Quando il chimico, come ho già detto, contemplava fisso il fuoco; quando le ombre andavano e venivano intorno a lui secondo il sorgere o il cadere della fiamma ma non badando a quello che gli mostravano i suoi occhi di carne lui non se ne dava pensiero, e venissero o andassero guardava sempre fisso quel fuoco; allora avreste dovuto vederlo.
Quando il muto ronzio che era sorto con le tenebre, evocato dal crepuscolo, sembrava produrre tutto intorno a lui una quiete più solenne; quando il vento ruggiva nella canna del cammino e urlava di continuo o strideva nella casa; quando gli antichi alberi di fuori erano sbattuti e squassati a tal punto che una vecchia e garrula cornacchia non potendo dormire lanciava di quando in quando un fioco gracchio di protesta; quando a intervalli le vetrate fremevano, e la banderuola arrugginita in cima alla torretta cigolava lamentandosi, e l’orologio sottostante avvertiva che un altro quarto d’ora se n’era andato; quando il carbone, consumandosi nel focolare, crollava giù nel mucchio con fragore.
Quando, infine, si sentà bussare alla porta, e il chimico, assorto in queste meditazioni, si riscosse.
– Chi è? – disse. – Entrate.
In quell’istante non c’era nessuno appoggiato alla spalliera della sua poltrona, e nessun volto si sporgeva in avanti per guardarlo da sopra la testa. Nessun passo sfiorò il suolo mentre lui, alzando gli occhi di soprassalto, chiedeva chi fosse, né in quella stanza c’erano specchi che potessero riflettere la sua persona. Eppure qualche cosa scivolò via oscuramente e svanÃ.
– Temo, signore, – disse un uomo dall’aspetto molto gioviale tenendo la porta aperta con un piede per poter entrare con un vassoio tra le mani e poi lasciandola andare di nuovo dolcemente e con ogni cura per evitare che si richiudesse con rumore, – che l’ora consueta sia passata già da un pezzo, questa sera. Ma che vi devo dire? La signora William perde continuamente l’equilibrio, in questi giorni...
– Per via del vento? SÃ, l’ho sentito fischiare.
– Ha perso l’equilibrio per il vento, sissignore, ed è un miracolo che alla fine sia giunta a casa, – rispose l’uomo. – Oh, davvero, signor Redlaw, è stato il vento, sÃ, proprio il vento.
Dicendo cosà l’uomo aveva posato il vassoio della cena e si era messo ad accendere la lampada e a stendere una tovaglia sul tavolo, faccende che interrompeva di continuo per rianimare frettolosamente il fuoco. La lampada accesa e la fiamma risorta nel camino avevano trasformato a tal punto l’aspetto della stanza che si sarebbe detto che a produrre questo piacevole effetto fosse stato il solo apparire di quel volto rubicondo, e la sua vivace attività .
– La signora William è naturalmente soggetta a occasionali sbilanciamenti per via degli elementi. Non è proprio fatta per resistervi.
– No, – concordò Redlaw con tono bonario ma secco, e distratto.
– No, signore. La signora William può essere sbilanciata dalla terra, come per esempio è successo domenica scorsa, che le strade erano cosà fangose e sdrucciolevoli e lei era uscita a prendere il tè con la più piccola delle sue cognate, tutta contenta e con la pretesa di venire fin qui a piedi però senza una macchia. Può essere sbilanciata dall’aria, com’è avvenuto una volta che una sua amica ha voluto farle provare un’altalena alla fiera di Peckham, e quella ha agito sulla sua costituzione come un battello a vapore. Può essere sbilanciata dal fuoco, come ai tempi in cui viveva ancora con sua madre e un falso allarme dei pompieri le fece correre tre chilometri buoni con indosso solo la cuffia da notte. E può essere sbilanciata dall’acqua, come a Battersea, il giorno in cui quel ragazzaccio di suo nipote Charley Swidger volendo farle da gondoliere senza saperne un accidenti si mise ai remi e la fece sbattere contro un pilone. Ma questi sono gli elementi. La signora William va osservata lontano dagli elementi, per poter giudicare la forza del suo carattere.
Ogni volta che l’uomo s’interrompeva in attesa di una risposta, questa era invariabilmente un sÃ, sempre pronunciato nel tono di prima.
– Sissignore, proprio cosÃ, – continuò a blaterare Swidger mentre finiva i suoi preparativi, prendendo fiato solo di quando in quando. – Io lo dico sempre: siamo una bella razza, noi Swidger! Ecco il pepe... – e lo metteva sul tavolo. – Perché vedete, signore, c’è mio padre, custode e portinaio di questo istituto da tempo immemorabile, che ha ottantasette anni! Ecco il cucchiaio... Siamo fatti cosà noi Swidger!
– È vero, William, – fu la risposta paziente e distratta che ottenne in quella pausa.
– Sissignore, – aggiunse Swidger. – Io lo dico sempre. A ottantasette anni potete ben considerarlo il tronco dell’albero! Pane... Dopodiché si scende al suo successore, che indegnamente sarei io stesso. Sale... E con me la signora William, Swidger anche lei. Coltello e forchetta... Poi vengono tutti i miei fratelli e le loro famiglie, Swidger dal primo all’ultimo, uomini e donne, fanciulli e ragazze. Poi abbiamo i cugini, gli zii, le zie e i loro parenti, poi tutti quegli altri, di ogni grado, e i matrimoni, e i parti, di modo che gli Swidger... Caraffa... gli Swidger tenendosi per mano potrebbero fare un bel cerchio tutto intorno all’Inghilterra!
E qui, non ricevendo nessuna risposta dal suo pensieroso interlocutore, il signor William gli si avvicinò e finse di urtare casualmente il tavolo per richiamarne l’attenzione. Intanto continuava come se l’altro si fosse dichiarato pienamente d’accordo.
– Sissignore! Io lo dico sempre, e mia moglie e io ce lo siamo ripetuti più volte: di Swidger ce n’è abbastanza anche senza il nostro contributo volontario. Burro... E in effetti, signore, mio padre da solo conta come una famiglia, tante sono le cure di cui ha bisogno, povero vecchio, ed è stato meglio che non abbiamo avuto figli anche noi, sebbene la cosa renda la signora William un po’ malinconica... Pollo e patate sono subito pronti, signore. La signora William ha detto che sarebbe stata qui con i piatti entro dieci minuti.
– Sono pronto anch’io, – rispose l’altro come destandosi in quel momento e mettendosi a passeggiare lentamente avanti e indietro.
– La signora William si è rimessa un’altra volta a prestare le sue solite cure, signore! – disse il portinaio, mentre scaldava un piatto nel camino usandolo al tempo stesso per pararsi la faccia dal fuoco.
Il signor Redlaw si arrestò con espressione visibilmente interessata.
– Io lo dico sempre, signore: non può che vivere cosÃ. La signora William ha un cuore cosà materno che in un modo o nell’altro deve dare sfogo ai suoi sentimenti.
– E che cos’ha fatto?
– Che cosa? Non contenta di essere una specie di madre per tutti questi signorini che arrivano da ogni dove e si sistemano in questo vecchio palazzo per le vostre lezioni... È incredibile come si scaldi la terracotta col freddo che fa! – disse girando il piatto e soffiandosi sulle dita.
– Dunque? – disse il signor Redlaw.
– Io lo dico sempre, signore, – continuò William voltando la testa e riprendendo a parlare in quella postura. – Proprio come una madre! E tutti gli studenti la considerano tale. Ogni giorno, venendo alle lezioni, uno dopo l’altro infilano la testa nella nostra stanza, e tutti hanno qualche cosa da dirle o da chiederle. Mi dicono che tra loro la chiamano Widge, ma del resto meglio essere chiamati con un nome diverso dal proprio, se non c’è malizia, che portarne uno altisonante e non godere di buona stima! Che poi a che servono i nomi? A distinguere le persone. Ma se la signora William è nota per qualche altra cosa che vale più di un nome (intendo il suo carattere e le sue qualità ), allora il nome che importa? E anche se per legge è una Swidger, chiamatela pure Swidge, Widge, London Bridge o Tower Bridge, se preferite!
A chiusa di questa orazione trionfale era giunto con il piatto al tavolo, sul quale un po’ lo appoggiò e un po’ lo ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Cronologia della vita e delle opere
- Canti di Natale
- Canto di natale
- Le campane
- Il grillo del focolare
- La battaglia della vita
- Il patto col fantasma
- Indice