Parte seconda
Tanatomania: s.f. 1 Stato maniacale che dà luogo a tendenze
omicide o suicide. 2 Condizione di chi si crede vittima di
un incantesimo mortale; disturbo mentale originato da tale
condizione.
[…] Kenneth diventò amico dei Rolling Stones forse un anno
prima della morte di Brian. Quei ragazzi non facevano altro
che sfidare continuamente la sorte, e forse Kenneth aveva giÃ
capito come sarebbe andata a finire perché conosceva Bobby
Beausoleil, quel musicista che in seguito sarebbe stato condannato
all’ergastolo. Alla lunga diventa una specie di follia, ed era
proprio questo che lo affascinava. Era la sua maledizione, per
cosà dire, oppure le cose stavano semplicemente cosÃ.
Da un’intervista a Will Tennet, regista cinematografico, riportata
nel saggio Dream Plays: A History of Underground Film.
Sei
Marrakech, 1967
Forse il denaro e la fama avrebbero cambiato tutto. Dopo quasi tre anni di assenza, Brian e la sua ragazza, Anita, sostavano davanti alla casa dei genitori di lui: stesso taglio di capelli alla paggio, stessi cappotti di pelliccia lunghi fin quasi alle caviglie. Si erano fatti una dose mentre viaggiavano sul sedile posteriore della limousine, e ora la sensazione di riconoscere quei luoghi aveva un’intensità del tutto inaspettata: la siepe sempreverde oltre il cancello di ferro, la scatola di legno bianco con le bottiglie del latte vuote. Brian nascondeva dietro la schiena un cesto da regalo di Harrod’s, avvolto nel cellofan trasparente.
La madre di Brian aprà la porta sorridendo, leggermente affannata. – Entrate, – disse, – stavo giusto finendo di preparare.
Le tendine di pizzo del salotto erano incorniciate da pesanti tendoni rosso scuro. C’era un caminetto elettrico, due vetrinette cariche di libri e piatti. Il padre di Brian richiuse lentamente il giornale, se lo appoggiò in grembo dopo averlo accuratamente ripiegato, si schiarà la voce. Già si percepiva quella vaga incertezza, quel turbine di paura e affetto.
Brian depose il cesto sul pavimento e baciò sua madre su una guancia. – Mamma, ti presento Anita, – disse.
A mo’ di scherzo prese le mani di entrambe e le unà nella sua, come se celebrasse un matrimonio. Sotto il lungo cappotto, Anita indossava un miniabito a disegni cachemire. Aveva grandi orecchini ad anello che le sfioravano le clavicole, e occhi bordati di kohl nero. Sotto lo sguardo indagatore della madre di Brian, sembrava allungarsi e assottigliarsi a vista d’occhio.
– Abbiamo fatto un viaggio bellissimo, – disse Anita, – La campagna è magnifica. Dev’essere fantastico vivere qui.
La madre di Brian li fece entrare in salotto: – SÃ, è una bella differenza rispetto a Londra, – disse, – ma per noi che ci abitiamo, Cheltenham è già una metropoli.
Sullo schermo del televisore, uno stormo di bombardieri Stuka fuoruscà da un ammasso di nuvole grigie. Una squadra di pompieri indirizzò il getto degli idranti verso un edificio in fiamme, finestre e tetto come riquadri luminescenti contro la griglia nera delle pareti.
– Siamo appena tornati da Roma, – disse Brian. Intanto si era avvicinato a suo padre, che continuava a fissare il giornale come se stesse cercando di rammentare qualcosa di importante.
– Siete arrivati in macchina, vero? – domandò il padre di Brian.
Brian rivolse lo sguardo al televisore: – SÃ. Un bel viaggio. Ha piovuto un po’, ma…
– Vi abbiamo portato una marea di cose, – disse Anita, – potrete andare avanti fino al mese prossimo con tutta la roba che c’è qui.
Tutti guardarono il cesto che Anita aveva appena sollevato dal pavimento. Sotto il cellofan verde si intravedevano vasetti e scatole di cibarie; il manico della cesta era ornato da un fiocco verde scuro.
– Anita è nata in Svizzera, – spiegò Brian, – mi sta insegnando il tedesco. Vero, Anita?
La madre di Brian stava porgendo al marito una tazza di tè. Poi si voltò verso Anita – quei due avevano capelli talmente simili da far credere che volessero imitarsi a vicenda – e le domandò se gradiva un po’ di zucchero nel suo tè.
– SÃ, – rispose lei. – Vado un attimo in cucina a posare questo, se posso.
Si voltò di scatto, sorridendo come un automa, e uscà dalla stanza. Brian si accomodò su una sedia orientata in direzione della finestra. Attraverso le tendine di pizzo si intravedeva la strada silenziosa, la sagoma della limousine bianca che li stava aspettando. Stava cercando di ricordare come si fosse immaginato la scena: un paio di battute, qualche risatina imbarazzata mentre i suoi genitori assaggiavano il caviale e, incuriositi, sollevavano il barattolo per leggere l’etichetta.
Guardava fisso fuori dal finestrino, rigido in volto, mentre le case del suo quartiere gli sfilavano davanti. Lunghe schiere di steccati metallici, siepi dalle foglie verde fango. Teneva distrattamente la mano di Anita, appoggiando il polso sul bracciolo di pelle.
– Non mi hanno detto come si chiamano, – mormorò lei.
– Lewis e Louisa. Buffo, vero? Si sono incontrati a un banco di beneficenza.
– Non mi hanno fatto domande. Neanche una.
– Perché di te sanno già tutto quel che gli serve sapere.
– Mi sembravano spaventati.
– No, non erano spaventati. Erano contenti che tutto stesse andando come avevano previsto.
Anita si accese una sigaretta. Teneva in grembo la rivista che aveva portato per farsi due risate insieme ai genitori di Brian, ma che alla fine non aveva nemmeno tirato fuori dalla borsa. Nelle pagine interne c’era una loro fotografia che sembrava fatta apposta per celebrare i fasti della swinging London. Brian e Anita si davano le spalle tenendosi per mano. Lui sorrideva con aria birichina verso l’obiettivo; lei si stava allontanando in preda a un improvviso scoppio di ilarità , la bocca aperta a mostrare una fila di denti bianchi. Sembravano due gemelli, lo dicevano tutti: Brian nel suo elegante completo gessato, Anita con le lunghe gambe che sembravano cercare un punto d’appoggio sul pavimento bianco e liscio.
Appoggiò la testa sulla spalla di Brian e gli strinse il braccio. – Ti è rimasto qualcosa? – domandò.
Lui la guardò con la coda dell’occhio. – No. E questo è il peggio.
Ma un istante dopo infilò le dita nel taschino della giacca e sorrise, traendola a sé. Lei raddrizzò un poco la schiena, e quando incontrò il suo sguardo sentà che all’improvviso la loro vita tornava a esplodere di colori. L’ultima sera che avevano trascorso a Roma erano rientrati in albergo insieme a un’amica di Anita ed erano finiti tutti e tre a letto, inginocchiati sulle lenzuola a baciarsi e accarezzarsi i capelli, ridendo come bambini. Cosa avessero fumato non lo sapevano di preciso, ma la stanza si era rischiarata all’improvviso, e i suoi contorni erano apparsi ben evidenziati nella nebbia gialla e violetta. Anita e la sua amica l’avevano spogliato insieme, sorridendogli ammirate come se fosse una loro creazione.
Ora Brian le stava porgendo una scatolina metallica e un minuscolo cucchiaio d’argento. Appoggiandosi contro la spalla di lui, Anita se li portò lentamente al naso, poi alzò il viso; lui le sfiorò uno zigomo con un dito, fissando i suoi occhi capovolti.
– Vorrei che fossimo ancora a Roma, – mormorò.
– Io no. Da qualche altra parte, magari, – replicò Anita.
– E dove?
– Non saprei. In Marocco? Ho sempre desiderato andare in Marocco.
Abitavano a Earl’s Court. Una casa di mattoni rossi offuscati dalla fuliggine, con alte finestre bianche e scrostate. Quella sera, appena rientrati, ricevettero una telefonata da Keith. La sua casa sulla costa del Sussex era stata perquisita dalla polizia. Avevano trovato droga dappertutto, anche addosso a Mick e al suo amico mercante d’arte, Robert Fraser; poi erano saliti al piano di sopra e avevano visto la ragazza di Mick, Marianne, raggomitolata sul letto completamente nuda. Keith e gli altri si erano fatti un viaggio con l’Lsd: una passeggiata tra i boschi, poi un’oretta a gironzolare sulla spiaggia tra scogliere e vecchi pontili di legno. La perquisizione era durata una mezz’oretta, e per tutto il tempo nessuno aveva capito fino in fondo che cosa stesse accadendo davvero.
La voce di Keith era quasi impercettibile, e piú solenne che mai. Anita si ingobbà sul bordo del letto, coprendosi gli occhi con il palmo della mano nel tentativo di concentrarsi.
– Tu stai bene? – domandò.
– SÃ. Sembra incredibile, ma sto bene.
– Mi dispiace, Keith. Io e Brian siamo un po’ fuori. Eravamo qui distesi sul letto, un po’ flippati.
– Be’, se vi è rimasto qualcosa vi consiglierei di sbarazzarvene. Brian sarà il prossimo, ci scommetto.
– Tu dici?
– Non so. Non mi sorprenderebbe.
– Qui non c’è rimasto piú nulla.
– Be’, allora di’ a Brian che si dia una calmata. Lo sai com’è fatto. È l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno.
– Va bene, glielo dico.
– Io devo restare qui nei paraggi per un po’. Tu stai bene?
– SÃ, bene. E tu?
– Per ora non mi preoccupo troppo. Appena posso vengo a trovarti.
Anita riattaccò. Chiuse gli occhi, sentendosi inspiegabilmente sola.
– Li hanno beccati, – disse.
– Chi?
– Tutti. Keith, Mick, Marianne e Robert. Keith è in libertà provvisoria.
Brian si alzò dal letto. L’aria della stanza, intorbidita dal fumo delle candele, si muoveva in onde spiraliformi.
– Se avessero avuto intenzione di venire qui sarebbero già arrivati, non ti pare? – domandò lei.
– Non so.
Brian si sentiva fiacco e stordito. Guardò i tappeti marocchini sul pavimento, le icone alle pareti, il quadro pop sulla parete opposta che raffigurava una lattina di SevenUp. Gli bruciavano le narici e aveva la bocca secca, ma ormai l’effetto dell’acido era svanito ed era semplicemente sbronzo.
– Che ha detto Keith? – domandò.
– Ha detto che stava bene. Sembrava tranquillo.
Brian andò alla finestra e scostò le tende. Il suo cuore batteva a un ritmo strano, spezzato: aprà e richiuse le palpebre piú volte, finché non lo sentà pulsare normalmente.
– Se volessero, potrebbero intrufolarsi qui e nascondere qualcosa soltanto per incastrarci, – mormorò. – Meglio dare un’occhiata nei cassetti.
Guardò Anita, il suo viso leggermente tinto di giallo alla luce delle candele. Lei non gli restituà lo sguardo. Seduta sul letto, fissava un punto in lontananza come una bambina imbronciata, con un piede in mano e la caviglia appoggiata sul ginocchio.
– Che altro ti ha detto? – domandò Brian.
– Ha detto che era preoccupato per te.
Lui si voltò. – L’ha detto lui, o l’hai detto tu?
– Smettila. Ti comporti come se fosse successo a te. Come se fossi al centro dell’universo.
Brian la prese per un braccio, ma lei si divincolò. Chiuse gli occhi e scosse la testa, come se fosse troppo stremata per parlare.
Lui uscà dalla stanza. Si sentiva goffo, impacciato, piú sbronzo di quanto pensasse. Quel senso di estrema pesantezza nel muoversi gli faceva tornare in mente suo padre.
Anita lo sentà girare e trafficare per tutta la casa, spostando mobili, facendo cadere chissà cosa dalle mensole. Alzandosi dal letto, vide che le luci del soggiorno erano tutte accese. Brian era fermo al centro della stanza, con addosso soltanto le mutande e la camicia bianca che si era messo per andare dai suoi.
– Non vuoi piú che stiamo insieme, vero? – domandò lei.
– No. Se sei cosÃ, no.
– Mi dispiace. Certe cose non mi vanno per niente. Non ci penso proprio a buttare all’aria tutti i cassetti.
Lui scosse la testa, sorridendo. – Non avrei mai dovuto portarti fin laggiú. È stato tutto molto buffo, vero?
– Non capisco di cosa stai parlando, – ribatté lei.
– Dei miei. Cos’altro?
Lei si scostò i capelli dal viso, si sfregò una guancia con la mano: – Erano due persone, tutto qui. Un po’ ordinarie, forse, ma non capisco perché sia tanto importante.
Lui la prese per le spalle. Lei riuscà a divincolarsi, ma inciampò con la punta del piede sotto il tappeto e rovinò a terra insieme a lui. Cominciarono a darsele di santa ragione, rotolandosi sul pavimento, afferrandosi le mani e duellando con i gomiti piegati. Andarono avanti un bel po’, finché non giacquero entrambi raggomitolati a terra, ognuno immerso nel proprio torpore, incapace di guardare l’altro.
I termosifoni si accesero sferragliando. C’erano delle auto in strada. Anita aprà gli occhi nella camera da letto buia, appena rischiarata dalla luce dei lampioni che filtrava attraverso le tende sottili: arazzi marocchini alle pareti, vestiti ammucchiati a terra, lo specchio sul suo piedistallo ai piedi del letto. Lui le stava accarezzando una spalla sotto le lenzuola, mormorava piano il suo nome premendo il viso contro la sua schiena. Lei rimase immobile a fissare il nulla. Brian si sentiva come svuotato, un ragazzino in cerca della mamma. Piú restavano lÃ, soli in quella stanza, piú gli sembrava di fondersi l’uno con l’altra.
A volte, prima di cominciare a picchiarla, lui la guardava con occhi da spiritato. Quando tutto era finito Anita ritrovava in lui lo sguardo incerto di sempre, i suoi lampi di rabbia infantile, e ogni traccia di quella follia svaniva completamente. Ma prima che ciò accadesse era possibile intravedere per un istante ciò che da sempre Brian cercava di diventare senza mai riuscirci, se non per brevi istanti: l’essere che li comprendeva entrambi, l’immagine che un tempo avevano cercato nello specchio della camera da letto. E in quel momento lui diventava come lei si era immaginata che fosse la prima volta che lo aveva visto sul palcoscenico.
Il giorno successivo, i ritratti dei membri della band campeggiavano sulle prime pagine di tutti i giornali come una galleria di foto segnaletiche. Le loro teste, staccate dai rispettivi corpi, fissavano i lettori con espressione ebete tra i caratteri cubitali: L’ORGIA DELLE POP STAR. RAGAZZA TROVATA NUDA IN CAMERA DA LETTO. L’INCERTO FUTURO DI MICK E DEI SUOI AMICI . La faccenda sembrava piú seria di come Keith l’avesse descritta. Stando ai giornali, lui e Mick rischiavano dieci anni di galera.
Non avevano mai smesso di domandarsi come sarebbe andata a finire. A eccezione dell’ultimissimo periodo, nei quattro anni precedenti non avevano fatto altro che lavorare, mettendocela tutta per far sà che la fortuna durasse a lungo. Avevano scritto canzoni, registrato canzoni, reclamizzato canzoni, fatto tournée per promuovere canzoni, e alla fine tutto ciò era diventato una specie di supplizio di Tantalo, un modo per girare il mondo senza mai viaggiare davvero. Avevano visto soltanto negozi dutyfree, piscine, parcheggi e posacenere. Avevano visto se stessi, ma sempre da lontano, ogni giorno piú diversi sotto l’occhio indagatore delle macchine fotografiche, al cospetto di folle sempre piú ampie e lontane. Si erano confusi l’uno con l’altro, pronunciando frasi e battute che prendevano spunto da qualcosa che aveva detto un altro membro della band, contemplando il proprio riflesso distorto e frammentato nei visi altrui. Durante le interviste la gente rideva anche se non dicevano niente di buffo, si indignava anche se non dicevano niente di interessante. Erano diventati immagini da rotocalco: giovanotti imbronciati vestiti di lilla e di ruggine, con giacche di camoscio di taglio eccentrico. Come se le città fossero stati d’animo, ogni nuova tappa di quell’eterna tournée sembrava far emergere in loro una nuova e appariscente qualità , come se l’incessante mutare degli sfondi – Sydney, Tokio, Monaco, Roma – accendesse il bisogno di vivere l’ennesimo aspetto della totale libertà che compensava la rinuncia alla propria identità . Portavano abiti bianchi, scarpe bianche, camicie di acrilico blu a pois bianchi, grandi basette, occhiali scuri, e le ragazze non si lamentavano mai delle loro schiene sudate o dell’odore di olio di mais che esalava dai loro capelli. Avevano poco piú di vent’anni. Vivevano un istante dopo l’altro avvolti in una nuvola di arroganza, scambiandosi battute incomprensibili agli altri. Tutti tranne Brian, che di tanto in tanto si comportava come se fosse già morto, immobile sul palcoscenico con la sua chitarra a goccia e i capelli negli occhi.
Non era piú la sua band. Era diventata la band di Mick e Keith. Scrivevano loro tutte le canzoni. Suonavano una specie di rhythm and blues dall’andatura fiacca, la musica di chi è ricco, famoso, e ancora insoddisfatto. Ma quando saliva sul palcoscenico con la sua maglietta a righe da marinaio e i jeans rossi, Brian sembrava ancora incarnare il messaggio di quella musica. Ormai sembrava al di là di ogni desiderio, e i suoi fan sperimentavano per interposta persona lo stesso stato d’animo. Non che il pubblico di Brian, ormai composto in buona parte da maschi, avesse qualcosa da imparare in fatto di insoddisfazione: grazie a lui, tuttavia, poteva conoscere e fare propria almeno con l’immaginazione l’insoddisfazione che deriva dall’essere famosi, e scoprire cosà che era semplicemente l’ennesima, clamorosa forma di solitudine.
A volte, quand’era in vena di scherzi, Brian suonava le canzoni – soprattutto le piú famose – sbagliando di proposito le sue parti: ormai non facevano piú cover ma soltanto brani originali, tutti scritti da Mick e Keith. A ogni spettacolo c’erano venti, trenta minuti di violenza. Quanto piú Mick e gli altri curavano il proprio aspetto, e piú si inasprivano le rivalità tra loro, tanto piú i fan sembravano ansiosi di farsi prendere a manganellate dal servizio d’ordine. Non c’era da stupirsi se il pubblico si scatenava: aveva finalmente l’occasione di ascoltare dal vivo, nella sua forma piú pura, la stessa musica già riprodotta su vinile, infilata nelle buste di cartone e distribuita a migliaia di negozi in tutto il mondo.
Brian non riusciva a scrivere canzoni nuove: gli venivano fuori rigide e involute come esercizi di stile. In sala prove, il suo compito consisteva nell’addobbare le canzoni di Mick e Keith aggiungendo colori e arrangiamenti. Sembrava avere un talento speciale tanto nella scelta degli abiti, quanto nell’accostamento sorprendente di stili musicali diversi e apparentemente incompatibili. Marimba, sassofoni, organi, pianoforti, dulcimer, sitar: dopo un po’ era diventata una specie di trappola mentale. Era talmente facile! Alla lunga si era persuaso che il compito di Mick e Keith consistesse nel costruire impalcature, canzonette pop da tre minuti che, non ci fosse stato lui a tra...