London Fields (Versione italiana)
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London Fields (Versione italiana)

  1. 640 pagine
  2. Italian
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London Fields (Versione italiana)

Informazioni su questo libro

Un mistery, il romanzo di un delitto ricco di comicità, una satira apocalittica, una meditazione su amore e morte, e sull'inverno nucleare. 1999: in una Londra post-thatcheriana, dura, violenta, ferita, tra Dickens e Blade Runner. Qui sbarca lo scrittore americano Samson Young in cerca d'ispirazione; e qui si trova di fronte, reale e in svolgimento, la storia del suo romanzo, che dunque trascrive «in presa diretta» sulle orme di un inquietante trio: Nicola Six, disperata femme fatale e per sua stessa ammissione, «figura della fantasia maschile», che si fa complice del suo omicidio; Keith Talent, truffatore e mediocre criminale con la passione del gioco delle freccette, assassino designato; Guy Clinch, «l'antagonista», liquida figura dell'alta borghesia, ricco, inibito e innamorato di Nicola. Intorno a loro la Crisi segna la fine del millennio: i missili nucleari pronti per il lancio, la terra apparentemente rovesciata sul suo asse, il sole, sempre bassissimo all'orizzonte, in un clima, anche meteorologico, che profuma di estinzione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806192020

12.
Il copione seguito da Guy Clinch

Guy era seduto al tavolo di cucina e fissava, con profondo stupore, il suo vitello: quel pallore, quella pozzanghera di sugo. Si era cucinato da solo il pasto, come al solito, dandosi meccanicamente da fare con il tritacarne, lo scolapasta, il passaverdure. La cucina era un laboratorio immacolato pieno di congegni salvatempo. Si cercava sempre di risparmiare tempo. Per quale motivo, poi? Guy, in tempi relativamente andati, soleva divertirsi a cucinare, quando, in parte, ci pensava lui a farlo. Gli piaceva cucinare con un grembiule, non con un camice da laboratorio. Effettivamente Guy avrebbe potuto cavarsela bene nel ruolo di femmina proletaria. Era obbediente, volenteroso e non si lamentava. Aveva le qualità richieste. Ora, fissando il suo vitello, avvertí il fascino del credo vegetariano (quel ragazzo nero cordiale al Black Cross) fino a che l’occhio non gli cadde sui nitidi rigonfiamenti delle fave, sugli spaghetti senza fine. Il vino, un robusto Borgogna, parve alla fine non alieno, scopertamente terrestre: l’oblio, il caldo del sud, comunicava ai succhi nella sua bocca. Questi succhi ben addestrati attendevano un altro presentimento. Forse il sapore della riconciliazione? No. Del perdono. Guy alzò timidamente lo sguardo sulla moglie, che sedeva all’altro capo del tavolo e consumava il suo pasto in un silenzio eloquente.
Qualche momento piú tardi lui disse:
– Scusa?
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– Non ho detto niente, – disse Hope.
– Scusa.
– Perché non vai dal dottore?
– Non c’è bisogno. Veramente. Starò bene presto.
– Non mi riferivo alla tua salute... Per quanto ne abbiamo ancora?
– Ancora di che cosa?
– Dello spettacolo della morte per fame. Non mangi niente. E hai un aspetto orribile, sembri un morto.
Era verissimo che non mangiava niente. Uomo che prendeva tutto alla lettera (e letteralmente alla lettera, si può dire), Guy aveva mangiato pochissimo dopo l’ultimo colloquio con Nicola Six; e in verità il suo appetito aveva cominciato a diminuire il giorno stesso del loro incontro, e dopo la loro separazione (sí: per sempre... per il bene comune) era sparito del tutto, proprio come era sparita la donna. Quando mangiava – e il cibo non era per lui tanto fonte di disgusto bensí un’incombenza del tutto irrilevante – doveva alzarsi di scatto dopo un minuto con una mano alla bocca. Lo si sentiva vomitare con diligenza nel gabinetto al pianterreno. Quello che lo teneva in vita era la prima colazione... la bella ciotola di crusca. Riusciva a digerire il suo MegaBran, o MegaCrusca (o cosí almeno pensava): il cereale spesso, scuro, fibroso era esattamente a un passo di distanza dalla merda umana, prima di tutto. Il preparato MegaBran era l’anello di congiunzione tra i cereali veri e propri e la merda umana. Guy si chiedeva se MegaBran non dovesse venire ribattezzato MegaMerda. Il lettering della scatola doveva essere sbavato e tremolante per suggerire una realtà in via di formazione. Una goccia di saliva era tutto quello di cui aveva bisogno MegaBran. Marmaduke, che adorava sputare sul cibo della gente, una volta aveva sputato con successo dentro un pacchetto pieno di MegaBran. I risultati erano stati spettacolari... anche se si deve ammettere che la saliva di Marmaduke aveva spesso dimostrato di possedere proprietà sorprendenti e malefiche... Non molto tempo fa Guy avrebbe tagliato a pezzettini, senza pensarci troppo, una banana nella sua ciotola mattutina di MegaBran; ma adesso era sopraffatto dal fetore provocato dall’aumento del potassio. Tutti odiavano MegaBran. Tutti lo mangiavano. Hope non sopportava di cucinare e nemmeno di stare in cucina, ma vigilava con estrema severità su quello che mangiavano gli altri.
Guy si versò altro vino e disse con voce perplessa: – Non sopporto quel rumore.
– Lo so. Come diavolo fa?
– Non possiamo abbassare un po’?
– No. Sto ascoltando, per controllare il muco.
Stanotte erano soli. Ma non erano soli. Marmaduke era presente in forma elettronica: gli schermi gemelli del sistema tv a circuito chiuso vibravano e sibilavano per la sua rabbia. C’erano schermi gemelli in quasi tutte le stanze, a ogni piano. A volte la casa pareva un acquario di tanti Marmaduke. Guy pensò a tutta l’attrezzatura video nell’appartamento di Nicola (a che cosa le serviva?) e poi pensò alla sua, a come lui e sua moglie avevano lottato coraggiosamente con la pellicola e i calci di pistola delle macchine da presa nei mesi seguenti la nascita di Marmaduke, mettendo insieme metri su metri di Marmaduke che strillava come un’aquila nel box, Marmaduke che strillava come un’aquila nel parco, Marmaduke che strillava come un’aquila in piscina. Presto smisero di affannarsi. Dopotutto, non c’era tanta differenza tra i filmetti di famiglia e la televisione a circuito chiuso che ritraeva Marmaduke strillante come un’aquila ventitre ore al giorno dal vivo. E quando gli schermi gemelli non lo ritraevano (due diverse angolazioni di Marmaduke che strilla come un’aquila), ci pensava Marmaduke stesso a farlo, senza la mediazione televisiva.
Ora, sullo sfondo degli oscuri tormenti del bambino, si era venuto consolidando un silenzio prolungato. Il silenzio era a forma di tunnel. A Guy pareva che non ci fosse via d’uscita, proprio nessuna... a parte una confessione completa. O questo:
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– Potremmo avere un altro figlio, – disse lui, fissando con gravità la moglie.
– ... Sei matto?
Le sopracciglia di Guy si inarcarono e lui si atteggiò a scolaretto imbronciato. Era vero: erano stati severamente avvisati – in diverse occasioni, in diverse cliniche e consultori, a Ginevra, a Los Angeles, a Tokio – di rinunciare a un secondo figlio, o comunque di rimandarlo a tempo indefinito, o quanto meno finché Marmaduke avesse al minimo quattordici anni (a quell’epoca, per inciso, Hope avrebbe avuto cinquantun anni). Gli specialisti dei miliardari, e gli psichiatri per l’infanzia premio Nobel li avevano sempre messi in guardia sui possibili effetti negativi, all’arrivo di un nuovo venuto, sulla psiche di Marmaduke. Nessuno era stato abbastanza spietato da suggerire che il secondo figlio avrebbe potuto essere proprio come il primo.
– E se fosse proprio come Marmaduke? – disse Hope.
– Non dirlo. Dio mio. Che cosa sta facendo?
– Sta cercando di fare in modo di vomitare.
– Ma si è ficcato in bocca tutto il pugno.
– Non ce la farà.
Guy guardò Hope... sorpreso, rincuorato.
– Ha già vomitato il tè poco tempo fa. Con il suo latte e i suoi biscotti. L’unica sua speranza adesso sta nel muco.
– Non ha vomitato dopo il pranzo. Non sopporto quel rumore. O è stato male, per caso?
– Sí... ha coperto di bava Melba. Poi ha morsicato la lingua di Phoenix. Quasi in fondo. Spero che lei non lo lasci baciarla alla francese di nuovo.
Guy riesaminò mentalmente con un po’ di imbarazzo la politica di Hope a proposito di Marmaduke e il baciare. Alcuni membri del personale di servizio erano autorizzati a baciare Marmaduke. Ma soltanto Hope era autorizzata a baciarlo alla francese.
– Ho dovuto chiamare Terry.
– Terry!
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Ancora piú a disagio di prima, Guy pensò a Terry... i suoi zatteroni, la camiciola volgare. – Odio Terry.
– Anch’io. È davvero l’ultima spiaggia. Eppure anche lui era molto scosso.
Guy abbassò lo sguardo e abbozzò un sorriso... non mosso dall’affetto, ma dalla meraviglia. Amava Marmaduke. Avrebbe dato con gioia la sua vita per Marmaduke. Morto non tra una settimana, non domani, ma adesso, in quest’attimo. Amava Marmaduke malgrado la consapevolezza piena, costantemente corroborata dai fatti, che Marmaduke non aveva qualità apprezzabili e degne di essere amate. Marmaduke non dava piacere a nessuno, eccetto quando dormiva. Quando dormiva, potevi guardarlo e ringraziare Dio che non fosse sveglio.
– Ah sí, – disse Hope. – Lady Barnaby. Ha perso la parola.
– Alla lettera?
– Già. Da quando è tornata. Per lo shock.
– È tremendo.
– Sai che cosa mi sembri? – disse Hope. – Un eremita.
Guy scosse le spalle e guardò altrove. Non pareva che il paragone gli desse fastidio. Ma poi tornò a guardare la moglie: Hope lo fissava con grande intensità. Ebbe paura di quello sguardo fisso. E si preparò al peggio.
– Non un eremita che vive in un cottage, – proseguí lei lentamente. – Negli Orkneys o altrove. Mi riferisco a quel genere di eremita che vive in un albergo di Las Vegas. Un laido maniaco con un sacco di soldi che non esce mai. Quel tipo di persona che ha un «santuario» nella sua stanza da letto per qualche grassa regina dello schermo morta ormai da tempo.
Non aveva smesso di occuparsi della questione cambogiana... della ricerca affannosa, in terra lontana di Bimbo e En Lah Gai: i profughi di guerra. Facendo le telefonate ogni mattina dall’ufficio (era l’unica ragione per cui ci andava), Guy era ormai in buoni rapporti con vari contatti – varie entità telefoniche – al Comitato Americano Profughi, al Consiglio Britannico Profughi e al Border Relief Operation delle Nazioni Unite. Con dita stremate si cercava invariabilmente la fronte mentre, seduto in ufficio, ascoltava i racconti di guerra. Guy era cresciuto nell’epoca delle atrocità mediate: come ogni altro, era fin troppo abituato a quei tristi procedimenti, alle patetiche pose delle salme. Ma la Cambogia non si era vista, quella nazione torturata, le cui immani sofferenze avevano avuto luogo dietro una cortina nera o una porta chiusa. Quell’oscurità pareva suscitare fantasie pornografiche nella mente dell’interessato. Non ti poteva sfuggire l’eccitazione presente nelle voci che snocciolavano racconti cambogiani. A Guy stesso erano state mandate copie delle fotografie prese dal satellite in cui aveva visto il profilo della morte: il nido d’ape diagrammatico era evidentemente una distesa, un vasto orizzonte di teschi umani. Anch’egli aveva provato quell’eccitazione, quel sussulto di virilità adolescenziale, che però nel suo caso aveva ceduto presto il passo a una vaga nausea. I massacri ripresi dal satellite: la morte dell’uomo come la potrebbe vedere un dio. La fede di Guy, un cimelio di famiglia dal fievole bagliore (forse il medaglione appartenuto un tempo alla madre defunta), per un certo periodo si era annerito per via della lampante impossibilità di credere alla sopravvivenza della benché minima cosa dopo un cosí totale ammutinamento del corpo umano. Cancella la vita umana, e non ti resta altro che il tormento anatomico di un semplice teschio. – Io ho vissuto laggiú tutti gli anni Ottanta, – gli aveva ruggito nell’orecchio uno di quei fantasmi telefonici (era un americano dell’UNBRO), portandogli dei messaggi dall’altra parte. – Ho un’immagine per lei. Se la sente? – La voce era avida, smaniosa. – La protesi di un piede di ragazzino, che marcia in guerra sbattendo di qua e di là. È la Cambogia amico –. Guy annuí prontamente, conciliante. – E non c’è una via d’uscita.
Anche se, naturalmente, come sempre, una via d’uscita c’era, si palesava... c’era una via d’uscita... Guy si era autoconvinto che la Cambogia non era diventata per lui un passatempo. Ma quella sua ricerca era pur sempre, sotto un certo aspetto, una fatica d’amore, un dovere sentimentale, un mezzo per pensare a Nicola senza un vero e proprio senso di colpa. Senza negare tuttavia che dentro di sé coltivava sommessamente una fantasia. Guy che saliva le scale di lei (contro uno sfondo di bandiere e festoni), guidando con sicurezza le due timide figure; Nicola in cima alle scale, le mani serrate, grandi lacrime vischiose sulle guance. Come avrebbero risuonato le risate nervose di En Lah Gai nella cucina mentre si era intenti alla preparazione di un brodo caldo. Come avrebbero bruciato gli occhi di Bimbo... bruciato di un fuoco indimenticabile! E giú, all’altezza dei fianchi, le dita di Nicola si sarebbero intrecciate con le sue in una sorta di congiura amorosa...
Perfino Guy avrebbe ammesso che c’era qualcosa che non andava in questo film, qualcosa di orribile, di disastroso sotto il profilo estetico. La scena avrebbe avuto colori lividi, la musica toni di lugubre e corrotta allegria, il dialogo doppiato, e gli attori avrebbero riso in modo sciocco e affettato come bambini sgraziati sul punto di venire colti in fallo. Di nuovo affiorò alla mente la parola pornografia: alla mente di Guy, dove non ci stava... dove non c’erano pensieri pornografici. In assoluto? No, non proprio. C’erano stati quegli episodi (sempre piú frequenti, fino all’operazione) in cui un’infermiera con una provetta in mano simile a un preservativo di vetro lo aveva scortato con aria disgustata in una stanza provvista di tende e fornita di «libri»... pile di riviste per uomini, molto consunte. Guy aveva girato quelle strane pagine (alla fine però ricorreva alla foto di Hope nel portafoglio). E c’erano stati scampoli di filmetti osceni che era stato obbligato a vedere durante i suoi viaggi d’affari a Hong Kong e altri paradisi orientali di Mammona. Arrivava sempre un momento tragico, un intermezzo tra le varie scene di sesso, in cui i personaggi fingevano di risultare ugualmente interessanti con tutti gli indumenti addosso, proprio come attori e attrici seri che obbediscono a un regista serio e anche creativo, in un film serio. L’impostura pareva essere fonte di ulteriore vergogna per tutti, compreso lo spettatore. Perfino Guy avrebbe dovuto ammettere che il suo interesse per Nicola Six e il suo interesse per l’Indocina non si intonavano (con una scrollata di testa pensò a una prosperosa pin up che aveva visto una volta, e che accarezzava un’arma in un opuscolo pubblicitario di fucili e pistole). Amore e guerra – amore e forze storiche – non si intonavano.
Inoltre le sue riflessioni erano tutto sommato spaventosamente tenere e azzardate. I suoi sogni, che sembravano uscire da una pozza di calda pressione nel petto, seguivano tutti schemi narrativi di libri adolescenziali: sorveglianza, custodia rigida, fughe mirabolanti (remando, riparando come per magia la gomma a terra di un’automobile, o addirittura sostituendola). Pensava sempre a lei, anche nei momenti di tensione improvvisa in ufficio o nella nursery: il viso di lei era come una voluta che fluttuava nella sua visione periferica. Quotidianamente, in piena sincronia, la seguiva mentalmente per tutta la giornata, dalla sveglia mattutina alla colazione leggera, alla pulizia idealizzata... e cosí via. Pensò ai suoi pensieri come se fossero esploratori in territorio vergine. Non immaginava, ovviamente, quanti pensieri maschili già si erano occupati di Nicola Six, milioni di ore maschili; non immaginava che ogni centimetro quadrato di lei era stato sconquassato da pensieri di uomini... A volte, per comperare il suo pacchetto settimanale di sigarette (o un quotidiano diverso dal solito), andava al negozio vicino alla casa di Nicola. Come se fosse su una porta, si chinava sporgendosi a sbirciare su per la strada senza uscita. Vista con gli occhi dell’amore, quanto avrebbe illuminato la sua presenza quello scenario comune: gli alberi già senza foglie in settembre, due muratori che mangiavano uova sode sulla soglia di una casa, una nuvola senza vita che crollava dentro la cortina di pioggia scura. Quel giorno Guy si strinse nel suo impermeabile sporco con un sorriso sofferto e ritornò a piedi al Black Cross.
Keith era accanto alla slot machine della frutta, stuzzicandosi con aria soddisfatta i denti con la freccetta... o meglio con la punta di una freccetta, per usare la terminologia corretta (rampa, asta, tamburo, punta), che aveva appreso dopo che alcuni dei suoi iniziali errori con le freccette erano stati raddrizzati con le buone o con le cattive, proprio qui, al Black Cross. Guy scoprí che era lieto di vedere Keith, e si sentí rincuorato dagli elementi architettonici fradici di umidità del pub in rovina. Non mimetizzabile altrove, il pallore del suo volto si confondeva agevolmente con il grigiore circostante. Gli avventori bianchi del luogo erano in bianco e nero, monocromatici, come i film girati durante la Seconda guerra mondiale. O nella Prima guerra mondiale. Guy pensò ancora ai fotogrammi che formavano il conto alla rovescia di un vecchio film: 6, +, 5, +, spazio bianco, applausi; e le zone bianche dello schermo maculate dalla polvere come il bianco di occhi malati. Keith faceva sempre pensare Guy agli occhi.
– È nauseante, cazzo. Mi disgusta sul serio.
– Davvero bestiale.
– Maligno.
– È schifoso.
– Bassa pressione insistente, vero.
Spostando di un centimetro la testa a sinistra, Keith fece cenno a Guy che poteva raggiungerlo. Mentre Guy avanzava, inciampò nella coda sorprendentemente spessa di Clive. Clive alzò il muso dal tappeto e abbaiò o imprecò stancamente contro Guy.
– Mi spiace. Be’, – disse Guy. – È un po’ che non ti vedo.
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Keith annuí. Era vero. E allora? E perché? Keith si prese la briga di spiegare che lui era un tipo di quelli che dovevano andare in certi posti a vedere certa gente. Non era il tipo che passava la giornata a rompersi le palle tutto il giorno seduto al Black Cross di Portobello Road. No. La natura irrequieta di Keith esigeva la varietà. Quella settimana, per esempio (la cosa venne fuori dopo un po’), se n’era stato seduto a rompersi le palle tutto il giorno allo Skiddaw in Elgin Avenue. Ma, per la verità, Keith sembrava stupito, contento di trovarsi al Black Cross. Perché mai, Guy non lo sapeva.
– Ci beviamo qualcosa. Rilassati –. Keith parve improvvisamente concentrarsi e d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. L’assassino
  6. La vittima
  7. L’antagonista
  8. La strada senza uscita
  9. L’orizzonte degli eventi
  10. Le porte dell’inganno
  11. Imbrogli
  12. Uscire con Dio
  13. Fare davvero del bene
  14. I libri nell’appartamento di Keith Talent
  15. L’armonia dei baci di Nicola Six
  16. Il copione seguito da Guy Clinch
  17. Poco ne sapevano
  18. Il Gioco del pizzicotto
  19. Istinto puro
  20. Il terzo uomo
  21. L’università di Cupido
  22. Questo è solo un test
  23. «Signore» e «Signori»
  24. Gioco nervoso
  25. Alla velocità dell’amore
  26. Il giorno dell’orrore
  27. Tu vieni via con me
  28. La scadenza
  29. Risguardi
  30. Indice