Parte seconda
1.
Dudinka, 2 settembre 2004
L’espressione «vecchio sporcaccione» ha due significati, e il caso vuole che uno sia letterale. A bordo c’è un vecchio sporcaccione nel senso letterale del termine. Forse è un vecchio sporcaccione anche nell’altro senso, ma temo proprio che le due cose mal si combinino. Dimmelo tu, Venus. Perché sono tentato di seguire i passi di questo vecchio sporcaccione? Detesto lavarmi ogni giorno di piú, e anche farmi la barba, e detesto ficcare la biancheria sporca in un sacchetto di plastica e scriverci sopra: «calzini, 4 paia». L’altra mattina per poco non scoppiavo a piangere quando mi sono accorto che dovevo tagliarmi ancora una volta le unghie dei piedi. Un vecchio sporcaccione autentico se ne fregherebbe. Che lucidità e audacia, che baldanza e fierezza. Scopro di ammirare profondamente questo vecchio sporcaccione. La barba infestata da avanzi di cibo, il raggio mortale dell’alito e i molteplici strati marcescenti del cappotto sono un problema che riguarda gli altri, non certo lui. L’odore che lo segue, e lo precede, ha la velocità della luce: quando entra nella sala da pranzo te ne accorgi subito, anche se è a dieci metri di distanza. Si comporta come se non fosse colpa sua. Lui è pulito: in qualche modo misterioso, è pulito. Ieri è sbarcato; l’ho visto, da una certa distanza, mentre lo traghettavano in canoa tra le brume – brume forse prodotte da lui stesso – verso quello che sembrava un conservificio ittico in agguato sotto la gronda disegnata dalla sponda occidentale.
Per le donne è diverso, per loro bagni e docce sono, a dir poco, «caldi e piacevoli» (questa l’espressione usata da una mia amica inglese che presto conoscerai); ed è interessante l’ammirazione femminile per il calore, unita a una comprovata tolleranza al freddo. Tutta la trafila per non essere sporco, invece, esaspera talmente il maschio da condurlo quasi alla demenza. D’altronde capisco benissimo che è necessario, e che lo diventa ogni giorno di piú. Anche «ultraottantenne» ha le sue brave connotazioni infauste. Ultraottantenne, ottant’anni e passa: poco importa. Ottantasei non sarà mai un bel numero.
Immagino che sobbalzerai almeno tre volte a ogni paragrafo. E non solo per l’invariabile morbosità dell’argomento, e per la pochezza della mia esposizione, destinata a deteriorarsi ulteriormente. No, mi riferisco alla disinvoltura con cui trancio giudizi, alla mia sete di generalizzazioni. La tua cricca è talmente terrorizzata dalle generalizzazioni da non riuscire nemmeno a formulare una frase affermativa. «Sono andato al negozio? A comprare il succo d’arancia?» Fate bene, tenetevi sul vago, anche riferendo un fatto già avvenuto. Allo stesso modo dite «okay» laddove uno con qualche primavera in piú direbbe (eventualmente): «Ah, sí?», o «Ma davvero?» «Mi chiamo Pete?» «Okay». «Sono nato in Ohio?» «Okay». Il significato di quei vostri okay è: per il momento non ho niente da eccepire. Non mi hai offeso, non ancora. Non hai insultato nessuno, finora.
Generalizzando si dà l’impressione di puntare allo stereotipo, e questo non è ammissibile. Io sono tutto il contrario. Adoro le generalizzazioni. E piú sono approssimative, meglio è. Sarei pronto a uccidere per una generalizzazione approssimativa.
Il nome della tua ideologia, casomai te lo chiedessero, è occidentalismo. Qui non ti servirebbe a niente.
È mezzogiorno, e i passeggeri e l’equipaggio del Georgij Žukov stanno sbarcando a Dudinka con un trionfalismo commisurato al loro numero. Erompono gli altoparlanti, e io e i postumi della mia sbronza scendiamo lentamente la passerella al zum-pa-pa di una marcia militare. Ed è cosí che è fatto un porto: una fanfara folle, con i fumaioli e gli sfiatatoi ricurvi, con le sirene e i corni da nebbia e, sullo sfondo, i barili di petrolio a fare da timpani.
Ma qui è diverso. Questo è un pianeta Marte di ruggine, con varie sfumature e densità. Alcune superfici si sono stemperate in un sobrio albicocca, perdendo conchigliame e asperità. Altrove sembra sangue arterioso, appena versato, appena seccato. La ruggine ribolle e s’arruffa, e la chiglia del traghetto inclinato balugina nell’acqua con furia personalizzata, quasi che l’ossidazione fosse un delitto di cui poter essere accusati.
Avanzo barcollando sostenuto dal bastone, e intanto penso alle parole piú o meno ridicole, di derivazione greca, che designano le paure irrazionali e definiscono, in buona parte, disturbi piú o meno ridicoli: antofobia (paura dei fiori), pogonofobia (della barba), deipnofobia (dei banchetti), triscaidecafobia (del numero tredici). Animi sensibili, certo. Ma ce n’è una per la ruggine (iofobia); e credo di esserne affetto. Sono affetto da iofobia. Un disturbo che, in questo momento, mi pare non abbia niente di ridicolo, né di irrazionale. La ruggine è il fallimento dell’operato umano. Il progetto, l’impresa, l’esperimento: falliti, abbandonati, e senza nemmeno dare una ripulita.
Un torpore compiaciuto: non esiste condizione migliore quando la vita si avvia al tramonto. Altro che questa condizione, la mia condizione. Non è la morte a fare tanta paura. A farmi paura è la vita, la mia, e ciò a cui finirà per ridursi.
Devo ancora leggere la lettera che ho in tasca.
I grandi torti… a un certo punto scopri di averli appena sopiti. Ed è allora che i piccoli torti si risvegliano e rimordono, con quei loro dentini malefici.
Se c’è una cosa che non sopporto è il puritanesimo di Stato degli anni Trenta. Io all’epoca ero adolescente, e avrei potuto conoscere un avvio decisamente migliore. M’intenerisce ripensare a me che mi catapulto con Katia, m’asciugo con Masha, m’imbroncio con Bronislava… il primo bacio, il primo amore. Ma lo Stato non lo consentiva. L’«amore libero» era ufficialmente bollato come depravazione borghese. Era la dicitura «libero» che non gradivano, in realtà. Ma del resto non gradivano nemmeno l’amore.
Solo quest’anno è emerso un quadro vago dei costumi sessuali alla corte di Iosif Vissarionovič. E come volevasi dimostrare, si scopre che l’energia rivoluzionaria aveva i suoi risvolti erotici. In poche parole, la cerchia del Cremlino era un covo di adulterio e privilegi feudali.
Era come per il cibo e lo spazio vitale. Loro potevano averlo. Noi no. Perché mai? Il sesso non è una risorsa limitata; e l’amore libero non costa niente. Eppure lo Stato, come ha fatto notare, se non vado errato, Nikita Sergeevič, voleva dare l’impressione che la Russia fosse estranea alla conoscenza carnale. Per dirla alla tua maniera: «Com’è ’sta storia?»
Sul molo è parcheggiata una piccola flotta di pulmini per i passeggeri impazienti di raggiungere Predposylov. No, non siamo molti, siamo penosamente pochi. Il tour del Gulag, mi ha detto il commissario di bordo con un’indulgente scrollata di spalle, è fatto sempre in perdita; e poi ha mimato uno sbadiglio. Allo stesso modo, durante il volo dalla capitale al mio punto d’imbarco, ho sentito distintamente l’hostess riferirsi a me (lei e la collega stavano ripreparando il drink che avevo mandato indietro) come «lo scocciatore del Gulag al 2B». È bello sapere che l’indifferenza verso la schiavitú russa – abolita, è vero, nel lontano 1987 – è filtrata fino alla casta turistica. Ho lasciato correre. Se di questi tempi ti azzardi a scatenare una lite in aereo, ti ritrovi con quindici pallottole in testa. Ma l’indulgente capitano di bordo (molto scosso, molto arricchito) ora sa che qui c’è uno che ancora impreca e piange, uno che ancora odia e s’infiamma.
Ci congediamo e mi ritrovo solo sulla banchina. Voglio arrivare alla città artica come ci sono arrivato la prima volta, perciò prenderò il treno. Dopo dieci minuti o forse un quarto d’ora, e dopo qualche bestemmia (ma nessuna contrattazione), uno scaricatore di porto non eccessivamente sbronzo accetta di portarmi alla stazione col suo furgoncino. Che cosa mi prende, cos’è tutto questo imprecare ed elargire mance? Sarà che voglio tenere un comportamento esemplare. Trasgredisco spesso, è vero; ma se non altro sono pronto a rimediare, a scusarmi sotto forma di contanti.
Mi accorgo che l’incerta luce artica accelera o rallenta troppo il mio orologio corporeo; ogni giorno mi sembra di essermi svegliato che era ancora notte o di aver dormito un numero vergognoso di ore. Nemmeno i colori delle macchine sono giusti, come quelli delle macchine di ogni dove, ma sembra di vederli all’alba, alla luce dei lampioni. Non ho ancora smaltito la sbronza. Tutti gli edifici, tutti i condomini di media altezza, poggiano su pilastri bassi e solidi, palafitte che trapassano il permafrost semisciolto per piantarsi nella roccia nuda. Questo è un mondo fatto per strisciare.
Lev non fu l’unico a concepire quella teoria geografica sul destino della Russia, riproposta oggi da storici autorevoli. La pianura dell’Eurasia settentrionale, con le sue temperature estreme, il suolo ingeneroso, la lontananza dalle rotte mercantili del Sud, la mancanza di mari che non siano quello Glaciale Artico; e poi lo Stato russo, con la sua espansione coatta e autoprotettiva, l’impero terrestre composto da venti nazioni, i confini grandi quanto un continente: tutto questo presuppone un centro fortemente autoritario, una burocrazia onnipresente e occhiuta… altrimenti la Russia si sgretola.
Anche la nostra galassia si sgretolerebbe se non fosse per i mastodontici buchi neri al centro, ciascuno grande quanto il sistema solare, e per la presenza, tutt’attorno, di materia scura e di energia scura, a presidiare la forza di attrazione verso il centro.
Una spiegazione che faceva presa su mio fratello perché, diceva, era «della misura giusta»: la stessa della massa territoriale. Possiamo scuotere la testa e dire che è stata opera della fisica. È stata opera della geografia.
L’intonaco azzurro e le finiture color crema fanno sembrare la stazione ferroviaria un padiglione estivo, anche se il bar, dove aspetto, è buio e congestionato (gente del posto, non viaggiatori), e questo mi rassicura. Finora la penuria umana di Dudinka mi ha fatto l’effetto di una caduta libera o di un’imminente levitazione. E i ricordi del mio primo viaggio qui, nel 1946, sembrano un orribile sogno popolato da un’umanità compressa, da un inverosimile carnaio stipato e vorticante.
Scopro che un litro di vodka nordcoreana da cento gradi costa meno di un litro di birra russa annacquata. Gli avventori mostrano anche una dedizione tutta particolare allo sherry dolce, o vino ad alta gradazione alcolica. Lo sherry è di per sé una bevanda da ubriaconi, e questa roba non viene certo da Jerez. È la distinzione che fa Dostoevskij quando aggiunge, a un tavolo già malauguratamente carico di alcolici, «una bottiglia dello sherry piú forte prelevato dalla cantina nazionale».
I postumi della sbronza continuano a degenerare. O dovrei dire che continuano a prosperare? Perché devo riconoscere che mi fanno proprio bene. Ne ho una gran voglia, e ne ho un gran bisogno, anche se non mi sbronzavo da quindici anni. Ricordi? Ero a letto, una domenica pomeriggio, a morire in silenzio. Ogni tanto sussurravo acqua… in russo. Segno che ne avevo davvero un bisogno animalesco. Tu sei entrata con le gambe rigide, la testa china, concentratissima: non volevi versare nemmeno una goccia del liquido trasparente contenuto nel bicchiere da una pinta che stringevi con tutt’e due le mani. «Tieni», hai detto. Io ho allungato una mano rinsecchita. E poi: «È vodka». E ho colto l’intelligenza diabolica del tuo sguardo. Avevo già sposato tua madre. Tu avevi nove anni.
Alla televisione, appollaiata in alto sul muro, compare l’immagine familiare e raccapricciante dell’edificio di mattoni rossi a forma di E. Mi avvicino, in tempo per sentire l’ennesima falsità: non esistono «piani» per fare irruzione nella scuola. Poi, senza tante spiegazioni, ecco una scarica improvvisa e sullo schermo la Scuola Numero Uno viene sostituita da una soap opera sudamericana in medias res… dove una vecchia vamp in lacrime rimprovera un arrogante gigolo, tutti e due coperti da una maschera di cerone spessa un dito. L’interruzione passa inosservata o quantomeno sotto silenzio. L’istinto mi spingerebbe a dare di nuovo in escandescenze, ma a che prezzo, contro chi, e a che scopo? Sta di fatto che non lo sopporto, perciò pago, lascio la mancia, trascino il trolley fino alla banchina ferroviaria e rimango a fissare i binari a scartamento ridotto che conducono alla città artica.
No, signorina, non ho spento il telefono. È solo che lo sto usando molto: Scuola Numero Uno, nell’Ossezia del Nord. Ero, come ben sai, un pezzo discretamente grosso in Russia quando me ne sono andato, e avevo molti agganci fra i militari. Ricorderai anche i problemi non serissimi che questo mi ha comportato fino al 1991, quando il certificato, messo in cornice a Parigi, ha decretato la morte dell’esperimento russo. Di quel particolare esperimento russo. I miei contemporanei se ne sono andati da un pezzo, e nella maggior parte dei casi ho a che fare con i figli degli uomini che conoscevo. Mi parlano. E vengo a sapere cose davvero straordinarie.
page_no="59" I bambini, rimasti in mutande e canottiera, sono seduti per terra insieme ai genitori e agli insegnanti in quella trappola esplosiva che è diventata la palestra. Ai cerchi dei canestri hanno appeso delle mine incastonate nei bulloni di metallo. Quando i bambini si lamentano per la sete, vengono zittiti da un proiettile sparato contro il soffitto. Per favorire la ventilazione, i killer hanno avuto la compiacenza di sfondare alcune finestre della palestra anche se, intenzionati come sembrano a disidratare gli ostaggi, sempre che siano ostaggi, hanno fatto saltare a suon di bastonate i rubinetti delle cucine e dei bagni. I bambini sono ormai ridotti, e alcuni sono ormai costretti, a bere il sudore e l’urina filtrati dagli strati di vestiti. Quanto può sopravvivere un bambino con un caldo asfissiante e senz’acqua? Tre giorni? È chiaro che esistono dei piani per fare irruzione nella scuola.
Verrà rivelato, post mortem, che i killer sono sotto l’effetto dell’eroina e della morfina, e alcune delle dosi verranno definite «ben piú che letali». Passato l’effetto analgesico, il dolore sopito torna a infiammarsi; continuo a pensare al killer con i capelli rossi e al prurito e al bruciore che deve provocargli quella barba color ruggine. Pogonofobia… L’Ossezia del Nord comincia a ricordarmi un altro massacro in un’altra scuola, un massacro sfrontato, fomentato dalla droga: Columbine. Sí, lo so. Columbine non era politico ma puramente ricreativo, e si è risolto nell’arco di pochi minuti. Giusto il tempo di affacciarsi su quell’universo parallelo dove ammazzare ragazzi è indice di abilità.
Ora stanno dicendo che i killer, che non hanno «avanzato richieste», sono dello jihad saudita e yemenita. Saranno anche jihadisti, però vengono quasi sicuramente dalla Cecenia, e quello che vogliono è l’indipendenza. Ma non l’otterranno mai, Venus, perché la Cecenia, dopo secoli di invasioni, oppressioni, deportazioni di massa e (in tempi piú recenti) di guerre lampo a opera dei russi, ha sviluppato una follia organica. Perciò ora il capo di Stato è in un bel pasticcio, proprio come Iosif Vissarionovič con gli ebrei nel 1948: «Non riesco a ingoiarli, e non riesco a sputarli». Non gli restava che masticarli.
Nel precedente assedio al teatro moscovita – Dubrovka – nel 2002, i killer avevano rilasciato alcuni bambini. Nell’Ossezia del Nord si ha la sensazione che, se verrà rilasciato qualcuno, saranno gli adulti. E ricordiamo bene come andò a finire Dubrovka. Con le migliori intenzioni del mondo, la polizia segreta compí un gesto che altrove – in Kurdistan, per esempio – avrebbe attirato maggiore discredito. Impiegarono i gas tossici contro i civili loro connazionali1. Ricordo che tu, come tutti gli occidentali, rimanesti sconvolta; qui invece venne considerata una grande vittoria. Leggendo il «New York Times» mentre, de-russificato e anglofono, facevo colazione a Chicago, perfino io mi sorpresi a mormorare: Però. Mica male.
È chiaro che esistono dei piani per fare irruzione nella scuola. Dicendo piani si rischia forse di esagerare, ma in un modo o nell’altro faranno irruzione. Lo sappiamo perché gli Spetsnaz, il fior fiore delle nostre forze speciali, stanno comprando proiettili dagli abitanti del posto, che sono in fermento fuori dalla scuola con i moschetti e i fucili a pietra focaia.
I tuoi pari, i tuoi sodali, i tuoi soci segreti, in Occidente: l’unico scrittore russo ancora capace di comunicare con loro è Dostoevskij, quella vecchia linguaccia, quell’avanzo di galera, quel genio. Lo adorate tutti quanti perché i suoi personaggi finiscono volutamente nella merda. Era questo, in buona sostanza, che Conrad non sopportava del buon vecchio Dostoevskij e dei suoi sacri mentecatti, dei suoi tanti zerbinotti squattrinati, studentelli morti di fame e burocrati paranoici. Si consacrano all’invenzione del dolore, come se la vita non fosse già abbastanza dura.
E la vita non è abbastanza dura, non per voi… Penso alla tua prima ondata di fidanzati, otto o nove anni fa. Quel look da me-la-sono-fatta-addosso che tutti sembravano prediligere, con i jeans larghi che lasciavano scoperto il fondoschiena; e le scarpe da ginnastica sventrate. Uno stile da galeotti: niente cintura né lacci, cosí eviti di impiccarti. Guardando quei ragazzi con le teste rasate, le borchie al naso e le orecchie scarificate, mi sembrava di essere tornato a Norlag. È questa l’invenzione del dolore? O è una replica in versione ridotta dei dolori del passato? Il passato ha un peso. E il passato è pesante.
Con questo non mi sogno nemmeno lontanamente di dire che ti sei andata a cercare l’anoressia. La sua forza dirompente mi ha privato di tutto il coraggio, e io e tua madre siamo scoppiati a piangere vedendo il filmato a circuito chiuso della tua sagoma scura che, come un nodoso bastone da passeggio, faceva le flessioni accanto al letto d’ospedale nel cuore della notte. Mi limiterò ad aggiungere che quando sei andata in quell’altro posto, quello che si chiamava Manor, attraverso la rete metallica che circondava il parcheggio ho visto un centinaio di tue repliche, ed è stato impossibile non pensare a un’altra scena iconica del ventesimo secolo.
Perdonami. E comunque non si tratta solo dei giovani. Esiste un fenomeno occidentale chiamato crisi del maschio di mezza età. Molto spesso è preannunciato dal divorzio. Provochi a bella posta una separazione che avrebbe potuto importi la storia: quella dalla tua donna e dai tuoi figli. Non venirmi a raccontare che uomini cosí non assaporano l’antico aroma della morte e della sconfitta.
In America l’uomo di mezza età, ottenuto il divorzio, prevede di darsi di piú alla bella vita, di fare piú di testa sua. Può quasi ritagliarsi la crisi su misura: la motocicletta, la fidanzata adolescente, il vegetarianismo, il jogging, l’auto sportiva, l’amichetto attempato, la cocaina, la dieta drastica, il motoscafo, un nuovo figlio, la religione, il trapianto di capelli.
Da queste parti, invece, hai poco ...