La manutenzione degli affetti
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La manutenzione degli affetti

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La manutenzione degli affetti

Informazioni su questo libro

Dieci storie spietate, malinconiche e sghembe, dieci ritratti che sembrano sbucare fuori dagli angoli della vita, dieci racconti intrecciati a declinare con malinconica ironia gli irreparabili codici del vivere. La manutenzione degli affetti è come un romanzo corale in cui tutti rincorrono la stessa ossessione: nella vita quante occasioni abbiamo per imparare? La scrittura di Pascale delinea qui un ceto medio distratto, vagamente meridionale, alle prese con i cambiamenti della società e i privatissimi scacchi individuali. È l'intelligenza del dettaglio il collante che tiene insieme le due anime del libro, fondendo la vena civile con la ricchissima fantasia narrativa.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806183196
eBook ISBN
9788858403419

Stai serena

La notte tra il 20 e il 21 marzo 2002 risposi al cellulare come se mi fossi appena svegliata. Non mi ero appena svegliata. Affatto.
Ero nuda, eppure me ne accorsi solo nell’attimo in cui dissi: – Pronto?
Al telefono mia figlia Alba: voleva sapere dove avevo messo il libro di Geronimo Stilton. In quel momento non ricordavo nemmeno chi fosse Geronimo Stilton. Dovette passare un bel po’ prima che mi venisse in mente. Di Geronimo Stilton, dico. Dove fosse finito il libro, quello non l’ho mai saputo.
Ricordo che mugugnai qualcosa: sí, non lo so, aspetta... e intanto seduta sul letto guardavo la stanza dell’albergo. Cosa era mai successo? I vestiti sparsi per terra, le mutandine lontane, appallottolate sotto la finestra. Fu allora che, come dire, tornai completamente sveglia, mi alzai dal letto e guardai dietro: c’era un uomo, un cinquantenne nudo, con le braccia aperte, che dormiva in completo relax. Un uomo di circa 20 anni piú grande di me, sconosciuto. Cioè: sconosciuto fino a un’ora prima, adesso lo conoscevo bene, piú o meno. Si chiamava Alfredo, faceva il pittore, l’avevo incontrato in treno.
Tra l’altro, era la prima volta che facevo l’amore con uno sconosciuto. Fatti i conti, erano quindi due prime volte: la prima volta che tradivo mio marito e la prima volta che andavo con uno sconosciuto. Questo spiegava la mia confusione. Confusione che mi spinse a scappare nel bagno per allontanarmi dal luogo del peccato. Per cosí dire. Solo quando mi fui chiusa dentro detti una risposta ad Alba.
– Alba, amore, non lo so, mamma stava dormendo.
Mi rendo conto, non era proprio quella che si definisce una risposta chiara. Infatti Alessandro, mio marito, prese il telefono:
– Che fai?
Invece di rispondere subito, aprii l’acqua. Avevo questa immagine in testa: nei film di spionaggio i due che parlano aprono l’acqua per non essere intercettati da qualche microspia. Interferenza a un’interferenza. Poi risposi con un’altra domanda:
– Ma come mai i bambini sono ancora svegli?
Il resto della conversazione se ne andò in convenevoli: sí, ti stavo per chiamare, è stato un viaggio assurdo che non ti dico, domani il convegno inizia presto, sí torno a dormire. Intanto l’acqua continuava a scorrere, le gocce rimbalzavano sul lavandino, finivano sul mio corpo nudo e formavano rivoli d’acqua che s’insinuavano nell’inguine, scendevano lungo le cosce.
Quando poi tornai di là, Alfredo era ancora sul letto, braccia aperte, steso, rilassato. Non lo sapevo ancora, ma da poco, precisamente da un’ora, era cominciata la mia liberazione sessuale.
A partire da quella notte, e nei mesi a venire, avrei vissuto in uno stato di eccitazione distratta, di confortevole tensione. Insomma, avrei vissuto di contrasti. Contrasti alimentavano il mio desiderio e nello stesso tempo andavano al di là del sesso. Mi proiettavano nel futuro o mi rimandavano indietro, in entrambi i casi vedevo delle cose che generalmente non vedevo.
Di tutto questo ebbi una blanda sensazione nel preciso momento in cui Alfredo mi chiamò prima puttana poi troia. O viceversa. Insomma, non che sia necessario stabilire l’ordine esatto. Perché la cosa strana non fu che lui mi chiamasse cosí, ma che io mi rividi bambina, 25 anni prima, quando facevo un gioco con mio padre: gli davo la mano, chiudevo gli occhi e mi lasciavo trascinare. L’abbandono, la fiducia e il vento sul viso erano le cose che mi piacevano di piú. Soprattutto il vento. Vento..., sarà stato uno spiffero, leggero come una carezza, ma in fondo ero troppo piccola per rendermi conto dell’intensità del vento. Il significato di abbandono e fiducia però, quello lo capivo bene.
Ad ogni modo, quella notte mi rividi bambina e la sensazione del vento tra i capelli fu cosí forte che pensavo di essere per strada. Invece ero, cioè eravamo, io e Alfredo, in una camera d’albergo.
La nostra prima notte, praticamente. Tra il 20 e il 21 marzo 2002.
Comunque, quando mi chiamò puttana e troia, con la mano gli presi la nuca e gli strinsi i capelli, glieli tirai e poi dissi con la voce piú dura che sapevo fare:
– Non ti permettere!
Me lo ridisse. Solo puttana questa volta, però per tre volte di seguito, e fu allora che cominciai a venire; e venni, quanto a lungo non lo so, non mi è mai importato, in questi casi voglio dire, non ho mai saputo definire il tempo, ma venni, questo è sicuro, e pensai: Rosaria, lo vedi che ti piace?
Venni dunque, io per prima, e sarebbe stato cosí sempre, anche dopo, perché Alfredo quando faceva l’amore si rilassava, si dimenticava pure di venire.
Se ne stava sul letto con le braccia aperte, come quelli che fanno il morto sull’acqua, la stessa faccia, ancestrale e un po’ impaurita. Dovevi quasi rianimarlo. Cosí lo baciavo, impugnavo il suo cazzo come se fosse un attrezzo da lavoro, oppure approfittavo del suo stato d’abbandono e gli prendevo un braccio, la gamba, una qualunque parte del corpo e la usavo come mi pareva. Per tutto il tempo che mi piaceva, finché Alfredo non si rianimava.
Magari in un campionato di sesso Alfredo nemmeno si sarebbe qualificato. Insomma, non poteva raccontare le sue prodezze in giro, ma questo suo insolito meccanismo amoroso per me aveva un vantaggio: potevo permettermi di tutto, tanto lui non giudicava. Anzi, dormendo, non solo mi toglieva il peso della responsabilità ma mi invitava a fare di piú, a essere piú sconcia, piú volgare, piú puttana appunto. Sembrava dirmi: dai, puoi fare di piú! che aspetti a riconoscerlo, tanto io mica ti giudico, non lo vedi? sto qui nel letto con le braccia aperte a dormire.
Quello che è certo è che tutto comincia da quella prima volta. Il mio risveglio passa per puttana o troia. Ho dovuto aspettare un po’, ma alla fine ce l’ho fatta. In fin dei conti, alla volgarità bisogna pure saperci arrivare.
Il fatto è che io non passo per una donna volgare. Anzi. Per dirne una, quando io e mio marito ci conoscemmo, in mezzo a tanta gente che ballava male e beveva troppo, Alessandro mi chiese se per caso fossi di origine aristocratica.
Mi misi a ridere:
– Eh? Come ti viene in mente?
– Per come cammini, diritta come un fuso. Cioè, guarda queste qui che ballano, sono tutte mezze sciancate.
– Sciancate?
– Sciancate, sí, Insomma tu non sei affatto sciancata, appunto; sembri aristocratica. Per il portamento, dico.
Io risi ancora, e come faccio sempre mi girai di lato per non farmi vedere la bocca, poi gli dissi:
– È il busto! Cioè, ho portato il busto da piccola.
Ci fu un attimo di silenzio, quello necessario a superare l’imbarazzo della gaffe. Dopo di che Alessandro disse:
– Però ridi anche da aristocratica, ti copri un po’ la bocca, non so, sembra un gesto nobile.
Allora abbassai gli occhi, forse mi feci rossa, chissà, fatto sta che non ebbi il coraggio di dirgli la verità: mi coprivo la bocca perché mi ero rotta i denti in un incidente. Ecco, non mi sembrava il caso di sottolineare la sua seconda gaffe, perciò dissi:
– Ma ti piacciono gli aristocratici?
– No! È che detesto la volgarità moderna, e l’aristocratico ha un vantaggio: è al di fuori della storia, quindi in un certo senso si salva dalla volgarità. Quella moderna, dico.
Insomma mi disse che la mia presenza, cosí austera, spiccava naturalmente in quella festa di sciancate moderne, e poi chissà, aveva la sensazione di avermi già vista da qualche parte, e devo dire la verità lo pensai anch’io: dove l’avevo visto? Non ci facemmo caso, i déjà-vu a volte si sprecano, finché non scoprimmo che ci eravamo già incontrati, per una bizzarra coincidenza, almeno un anno prima, davanti a un quadro di Schiele. Ricordo che pensai di sposarlo, perché è vero, sono un po’ aristocratica, credo nei rituali. Ma siccome per nascita non sono ricca, credo nel destino. Il destino è il mio rituale. In un certo senso è una classe di appartenenza.
Sí, per questo sposai Alessandro, anche se tutto complottava contro di noi. Insomma, eravamo troppo giovani, ma il destino aveva voluto cosí. Ne approfittammo e ci spingemmo oltre.
Comunque, durante quella festa, in mezzo alle sciancate, io a quanto pare ero l’unica con un portamento aristocratico, e dissi ad Alessandro, quando ormai me ne stavo per andare:
– Sai, il busto è stato un rituale di protezione, alla fin fine ha avuto questo effetto.
– Per quanto tempo l’hai portato?
– Due anni, giorno e notte.
– E quando l’hai tolto, come... come...
– Sono diventata un po’ inquieta.
– Perché?
– Boh, era come se mi sentissi piú libera, e avessi paura di questa sensazione. Sí, pressappoco era cosí.
– L’inquietudine ha qualcosa a che fare con la libertà?
– Credo di sí...
In fondo è davvero una brava persona il mio ex marito. Ci sono alcune persone che ti fanno sentire bene con gli abiti che hai addosso, e Alessandro era cosí. Per esempio, gli piacevo quando nelle feste o durante le cene parlavo con gli altri, tenendo la testa alta e la schiena diritta. Tornando a casa poi, non mi chiedeva mai di cosa avessi parlato, si limitava a dirmi che ero bella. Per questo, a pensarci bene, per tutta la durata del matrimonio non mi chiese piú niente del busto. Non voleva approfondire. Si fidava di me, quanto gli avevo detto durante il nostro primo incontro gli era bastato a farsi un’idea. E poi l’inquietudine ha a che fare con la libertà, e lui non voleva essere inquietato.
Ci sono invece quelle persone che ti spingono a cambiare vestiti, ma non per moda, non per questo. Lo capiscono. Che tu stai per lí lí per cambiare, dico. E ti guardano senza fretta. Durante una fase di cambiamento, niente è piú rassicurante di una persona che dorme. Almeno per me, nel senso che mi placa le ansie.
Comunque, Alfredo del busto me lo chiese quasi subito. A suo modo. Dette anche la sua interpretazione.
– La cosa perfetta del tuo corpo, che però perfetto non è, è la linea della schiena. È cosí netta, cosí ben tagliata che si unisce alla perfezione con quella del culo. Quindi, se tu, mettiamo, parti con il dito dalle scapole, trovi proprio un binario che ti porta diritto fino al culo. Vedi?
Era un giochino, questo, che Alfredo faceva sempre. Un modo piú o meno poetico per toccarmi il culo. Giocavo volentieri, comunque.
– Vedi, ecco che scende. Guarda, è come una seduta spiritica, il mio dito scorre per fatti suoi. Vedi dove va? Sul culo, poi affonda.
Questo perché, secondo Alfredo, il mio culo – e il mio corpo intero – aveva una strana proprietà: tirava tutto giú, era accogliente, caldo, disponibile. Per questo mi chiese del busto. Secondo lui dipendeva dalla costrizione subita se adesso mi aprivo cosí.
– Però vedi, Rosaria, il problema delle costrizioni è che non finiscono quando lo strumento viene eliminato. Le costrizioni hanno sempre l’effetto di un doppio incanto: non basta baciare la prima volta la principessa per risvegliarla dal sonno, ci vuole un secondo bacio, se capisci quello che voglio dire.
In effetti aveva ragione. Dopo il busto mi sono sentita come se avessi ancora il busto. Una sensazione non sempre fastidiosa, anzi. Almeno all’inizio, il busto era la mia difesa, mi sentivo protetta, le cose pericolose del mondo sarebbero rimbalzate.
Sí, perché quando ero incastrata nel busto cominciai a notare la bellezza di certi alberi, come gli olivi, le magnolie o i ficus. Piú avevano un tronco grosso, nodoso, piú si avvolgevano su se stessi, piú mi piacevano. Quel tronco li proteggeva dagli elementi naturali, pioggia e vento li modellavano senza scalfirli. Alberi secolari, pesanti, stratificati, che ogni stagione però germogliavano. La pesantezza del legno non era un limite, anzi.
Era davvero quello che pensavo: la mia anima, per adesso protetta da un busto, prima o poi sarebbe uscita fuori. Una nuova Rosaria aspettava la primavera. Un giorno sarebbe accaduto. E accadde, infatti.
A tredici anni, ancora da compiere. Quel giorno stavo in treno con mia madre e mia nonna, andavo verso Roma. Il treno era pieno di ragazzine. Quello era il periodo nel quale mia nonna criticava sempre le ragazzine. Mia nonna, mia madre non tanto. In fondo, mia mamma si era sposata giovane ed era ancora una ragazzina, mio padre era ancora piú ragazzino di mia madre, dunque il ruolo del genitore, a tutti gli effetti, spettava a mia nonna.
Era lei che aveva insistito per il busto, faceva la maestra e non sopportava di vedere le ragazzine con la scoliosi. Secondo lei, siccome stavano tutte storte nel banco prendevano la scoliosi, e cosí, per bilanciare il difetto, poi assumevano strane pose. Di quelle disinvolte. Si sedevano per terra, stavano sempre con le gambe aperte, una compensazione pericolosa. Per non far vedere un difetto, mettevi spudoratamente in mostra una parte del tuo corpo.
Per questo misi il busto per due anni, mattina e sera, estate e inverno. Non tanto per evitare l’incombere della scoliosi che stava avanzando, ma per prevenire i miei futuri gesti scoordinati, compensativi, come diceva mia nonna. Comunque, quel giorno in treno mi alzai per andare davanti al finestrino, in corridoio. Faceva molto caldo. Mettici pure il busto, insomma, avevo bisogno di aria. Accanto a me, oltre alle ragazzine, c’erano quattro uomini, alti, belli, ben vestiti. È difficile vestirsi bene quando fa caldo. Parlavano di un congresso e facevano gli spiritosi con una signora che si slacciava i bottoni della camicia per il caldo. Li guardavo. Li guardavo tutti e quattro, uno alla volta, sembravano il doppio piú alti di me. Il modo in cui gesticolavano, calmi, senza eccessi, rilassati, sí, mi incantò. Però, piú li guardavo piú mi sentivo fiacca e alla fine qualcuno disse:
– Attento! Prendila!
Ero svenuta. Quasi. Ricordo che i quattro, quattro giovani medici appena laureati, stavano andando a un convegno a Milano, questi quattro giovani mi presero in braccio, due per le gambe e due per le braccia, e mi portarono dalla seconda classe alla prima, correndo per il corridoio del treno e gridando a tutte le ragazzine che si trovavano davanti, magari sedute per terra, un po’ stravaccate:
– Permesso, permesso, fatela respirare.
Un vero show, con mia madre e mia nonna al seguito. Una bella rivincita per me, una ragazzina in braccio a quattro adulti, tutti per lei. Peccato che ero svenuta. Quasi.
Quando poi aprii gli occhi, mi accorsi di due cose: il mio corpo era in una posizione che mia nonna avrebbe definito piú che sconveniente, e soprattutto uno dei dottori mi stava liberando dal busto. La sconvenienza, la poca grazia del mio corpo, insomma essere sconcia perché senza busto, mi fece uno strano effetto: man mano che il dottore mi apriva l’imbracatura, l’aria entrava e mi rinfrescava, la mia pella si tendeva, si eccitava.
Tanto che alla fine dell’operazione, quando mi misi a sedere, sentii chiaramente un fremito nella pancia, piú giú nella pancia. Fu la prima volta che venni, sí. Venni non per stuzzicamenti vari, ma perché qualcuno, – quattro persone in verità, – si era preso cura di me. Fu da allora che desiderai avere bisogno di qualcuno, qualcuno che si prendesse cura, o di cui prendermi cura. L’amore solo in questo consisteva: avere bisogno.
– Signora, – disse uno dei quattro a mia madre, – lo vogliamo levare una volta per tutte questo busto, con questo caldo poi...
Lo tolsi definitivamente dopo qualche giorno. Eppure non cambiò un granché. In effetti aveva ragione Alfredo, dovevo aspettare la seconda liberazione, per cosí dire, un nuovo bacio. Nel senso che adesso, il mio corpo libero dalla costrizione si comportava in maniera strana, si ribellava senza nessun avviso. Eppure avevo paura dei miei stessi umori. Ogni volta che subivo un fremito, una scossa improvvisa, ogni volta che avvertivo uno scombussolamento interiore, e quella strana energia che prelude all’abbandono, io subito pensavo al busto. Era troppo, stare cosí senza nessun sostegno. Mi dicev...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. La manutenzione degli affetti
  5. La controra
  6. Il ceto medio
  7. Bei giorni domani
  8. Qui le chiacchiere stanno a zero
  9. Mi vidi di schiena
  10. Spettabile ministero
  11. Stai serena
  12. Hai capito come?
  13. Noi che parliamo da soli
  14. Indice