Diceva sempre di ricordarsi chiaramente il giorno dell’arrivo in via Katalin, ma questo non era completamente vero, perché sulla base delle sue esperienze dirette riusciva in realtà a ricordare solo il ponte, il frastuono, una certa eccitazione nell’animo, i volti di alcune persone che avrebbero poi svolto un ruolo importante nella sua vita, e un paio di immagini sparse. Il resto gliel’avevano riferito in seguito gli altri, l’aveva sentito raccontare dagli Held, dagli Elekes o da Bálint, che era il piú vecchio di loro ragazzi e conservava meglio nella memoria ciò che era successo. E, tra tutte le frasi pronunciate il giorno del loro arrivo, gliene era rimasta impressa soltanto una autenticamente vera, perché Henriett non aveva che sei anni quando avevano lasciato la provincia per trasferirsi a Pest; gli altri particolari, le altre parole, vivevano nei ricordi degli adulti e degli altri bambini.
La concitazione del trasloco, il disordine che l’aveva preceduto, per esempio, erano qualcosa di cosí insolito nella loro casa che si sarebbero scolpiti per sempre nella sua mente. Dover lasciare i nonni, che prima vedeva molto di frequente, invece non significava nulla, perché Henriett non sapeva ancora che cosa fosse una separazione, sebbene vedesse che causava non pochi magoni ai genitori e li ascoltasse mentre si confortavano a vicenda, ripromettendosi di tornare spesso in visita dai vecchi o di invitarli da loro. Allo stesso modo, il fatto di trasferirsi a Pest la lasciava quasi indifferente, perché conosceva solo superficialmente la cittadina dov’era nata, mentre l’immagine della capitale non le suscitava particolari emozioni. Anche da piccola Henriett era una bambina seria e, quando cominciarono i preparativi del trasloco, gli Held notarono con sorpresa che era particolarmente triste. Il signor Held, ma anche la signora Held, nella loro infanzia erano piú allegri e, per quanto riuscissero a ricostruire dai loro ricordi, i bambini sono felici nelle case sottosopra. Ma Henriett apparve frastornata quando gli operai iniziarono a portar via le cose, li guardava con una tale agitazione e disperazione che la signora Held, nonostante fosse immersa nel lavoro piú frenetico, si sedette vicino a lei e strinse quel corpicino che si ribellava in silenzio. I mobili venivano spostati uno dopo l’altro dalle loro collocazioni abituali, accatastati provvisoriamente nell’androne, oppure trascinati attraverso tutti i vani dell’appartamento per finire direttamente in strada e sopra l’autocarro, in mezzo alle stanze c’erano grandi valigie e ceste panciute traboccanti di piccoli oggetti. Quella visione la colmava d’orrore, anche se sapeva che andando via avrebbero sicuramente portato con sé tutto ciò che possedevano. Suo padre quel giorno non poté occuparsi di lei, era troppo impegnato a correre da una parte all’altra per seguire i facchini, il compito di prendersi cura di Henriett, che aveva reagito in modo cosí imprevisto al trasloco, ricadde interamente sulla signora Held, la quale si domandava preoccupata come sarebbe stata a Pest la vita della loro bambina che si trovava cosí bene lí e amava quella casa, gli amici, il quartiere: Henriett, in quella città, era felice. Ma era una preoccupazione superflua, perché Henriett col passare del tempo si sarebbe scordata la propria città natale; quando la rivide in un cinegiornale, ed era ormai una ragazza, riconobbe gli edifici principali e le statue caratteristiche soprattutto per l’emozione dei genitori.
Il fatto che, dopo la spedizione delle suppellettili, sua madre li avesse preceduti nella partenza e l’avesse lasciata sola con il padre per due giorni in un albergo locale non si era offuscata nella sua memoria, probabilmente perché il signor Held stava con lei piú raramente rispetto alla madre. Quel soggiorno insieme le aveva procurato una tale felicità che persino l’albergo sconosciuto e il cibo del ristorante le erano apparsi familiari e magnifici. Le avrebbero raccontato in seguito che era stata contenta di prendere il treno, e non aveva difficoltà a crederlo, perché ogni viaggio per lei significava ricevere uno di quei regalini particolari e sciocchi che si acquistano nelle stazioni prima della partenza; quella volta il signor Held le consegnò una moneta da inserire in un distributore automatico a forma di gallina, in ferro, ed estraendo il cassettino vi trovò un uovo metallico pieno di pastigliette di zucchero. Henriett aveva giocattoli belli e istruttivi, ma quella grottesca e insignificante cianfrusaglia fu una sorpresa gradevolmente elettrizzante.
Si ricordava bene del ponte. Quando lo attraversarono diretti verso Budapest si spaventò. Era il suo primo viaggio lungo, uno di quei viaggi in cui si attraversano i fiumi, e per la prima volta nella sua vita provò la sensazione di passare con il treno sopra l’acqua. Vide il fiume apparire in lontananza, imboccarono il ponte a tutta velocità, sferragliando sulle traverse. Lanciò un grido e scoppiò a piangere. Non ebbe paura dell’acqua, non riuscí neppure a concepire l’idea che il ponte potesse spezzarsi, fu il rumore a terrorizzarla, quel frastuono che prima del ponte non c’era ancora e che dopo il ponte si dissolse immediatamente. In vista del fiume successivo il signor Held la fece stendere sul sedile e prima di sfrecciare sopra il ponte le tappò le orecchie con le mani. Attraverso le dita paterne Henriett gettava sguardi furtivi, con il volto teso, non aveva piú orecchie ma restava comunque terrorizzata, e scoppiò di nuovo in lacrime anche se quelle due mani filtravano gran parte del fragore. Arrivati a Pest, per raggiungere la loro nuova casa situata a Buda, nel quartiere del Víziváros, bisognò attraversare il Danubio e, benché l’auto sulla quale viaggiavano non sobbalzasse come il treno, il signor Held le tappò un’altra volta le orecchie per sicurezza. Un giorno, quando era ormai piú grandicella, le avevano raccontato quell’episodio, e Henriett era corsa davanti allo specchio e si era osservata nel riflesso con le orecchie tappate. Aveva tolto di scatto le mani, con un gesto al tempo stesso grottesco e spaventoso. «Questo è il terrore, – aveva pensato, – un viso senza orecchie per la paura».
Non ricordava piú né dove né quando il discorso fosse caduto per la prima volta sui Bíró, eppure anche quel nome era uno degli elementi fondamentali della sua vita, sicuramente gliene aveva parlato il signor Held subito dopo che era emerso il progetto di trasferirsi a Pest. La parola «guerra mondiale» a Henriett non diceva nulla, pur sapendo che suo padre era stato soldato; piú tardi avrebbe capito che tipo di legame univa il signor Held e il Maggiore, ma all’inizio seppe solo che nella casa vicina viveva un buon amico di suo padre e che era stata una bella comodità riuscire ad acquistare un appartamento proprio accanto al suo. L’amicizia tra il Maggiore e il signor Held, l’importanza del coraggio e delle eccezionali qualità militari mostrati dal signor Held, che era partito per il fronte subito dopo l’esame di maturità – qualità che avevano attirato l’attenzione del tenente Bíró – avrebbero acquistato senso solo parecchio tempo dopo, e fino agli anni quaranta lei non si curò mai troppo delle decorazioni ricevute dal padre. Piú tardi la medaglia d’oro al valore divenne un simbolo, un chiodo conficcato nella parete della loro sopravvivenza al quale erano appese le loro vite e la loro sicurezza, e se per qualche ragione quel chiodo avesse ceduto sarebbero precipitati tutti quanti.
Degli Elekes non poteva aver udito nulla nella sua cittadina natale, perché all’epoca in cui era nato il progetto di traslocare neanche il signor Held sapeva granché sul loro conto, al massimo ciò che gli aveva raccontato Bíró, la persona che aveva risolto il problema di trovargli casa quando aveva deciso di trasferirsi a Pest e con cui aveva mantenuto l’amicizia dopo la guerra. Bíró gli aveva spiegato chi erano i vicini e gli aveva manifestato tutta la propria gioia di poter vivere d’ora in avanti uno accanto all’altro.
Henriett non se ne ricordava, anche quel dettaglio glielo avevano raccontato in seguito; si ricordava invece benissimo dell’auto che svoltava in via Katalin. Vide la chiesa, la statua di una donna davanti alla chiesa, una donna su una ruota, vide poi una via stretta con le case che sorgevano su un lato solo, l’altro lato invece era completamente privo di edifici, c’era solo una fila di tigli bassi con il tronco spesso, in mezzo ai quali scintillava il Danubio. Le case erano diverse rispetto a quelle cui era abituata: case alte e strette, austere, considerate monumenti storico-artistici, attaccate al Castello di Buda, che guardò ammirata, pur non sapendo ancora che cosa fosse, perché sembrava un disegno del suo libro di fiabe. In fondo alla via c’era un piccolo edificio, non aveva la minima idea della sua funzione, nella città dove vivevano prima non aveva mai visto neppure le fontane pubbliche all’europea, figurarsi un pozzo turco. Doveva essere l’inizio dell’estate, perché i tigli erano in fiore, e Henriett rimase colpita dal loro profumo.
Quando entrarono nel portone della nuova casa, trovarono sua madre e Margit. Il padre le lasciò la mano, Henriett corse incontro alla signora Held. Provò una sensazione di felicità cosí intensa che non le disse nulla del ponte, pur essendo ancora sconvolta da quell’esperienza, si lasciò rapire dalla magia di avere nuovamente una casa, addirittura piú bella e piú spaziosa della vecchia, di ritrovare Margit e di poter avere la mamma vicino. A quel punto il ricordo si interrompeva e ripartiva da un’altra immagine della medesima giornata: c’era sua madre sotto la volta del portone, ora non aveva piú accanto Margit bensí una donna sconosciuta. E non fu questo a colpirla particolarmente, casa Held era sempre parecchio affollata di ospiti, fu piuttosto l’aspetto incredibilmente trasandato dell’altra donna a lasciarla di stucco. Henriett, che era istintivamente portata all’ordine, osservò con curiosità l’abito un po’ sporco che quella donna s’era infilato alla bell’e meglio e le sue calze cascanti. E rientrando nell’appartamento rimase ancora piú stupita vedendo due bambine spuntare dalla sua camera, la sua cameretta personale. Una con i capelli scuri, l’altra biondi, si fermarono là, sulla sua porta, piú a loro agio di Henriett stessa, che in teoria sarebbe stata la padrona di casa, e tutt’e due stringevano in mano un giocattolo di Henriett.
Quei visi e quei vestitini si impressero con assoluta nitidezza nella sua mente. – Ecco, saranno le tue amiche! – disse la mamma. Henriett rimase immobile a guardare quelle amiche di cui fino a quell’istante aveva ignorato l’esistenza, ma il fatto che fossero lí e l’accogliessero la riempí di sicurezza e di gioia. Erano entrambe piú vecchie di lei, la piú grande, la bruna, era una bambina calma, graziosa, pacata nei gesti, la piccola era piú vivace, somigliava molto alla donna con le calze spiegazzate. La casa, che prima, in quella discreta incertezza, si era presentata in un vortice tumultuoso di emozioni nuove, all’improvviso si stabilizzò; le due bambine la reggevano sulle spalle come due cariatidi, una bruna e una bionda. Quella con i capelli bruni era seria, quasi come Henriett, la bionda guizzava come un’anguilla. Henriett non aveva mai visto in vita sua una creatura cosí vivace.
Timida, come se fosse lei l’ospite in casa propria, lanciò un’occhiata verso la sua stanza, sulla cui soglia erano piazzate le due bambine sconosciute. La bruna si scansò subito e posò il giocattolo che teneva in mano, poi prese quello della bionda e appoggiò anch’esso in terra; quando Henriett entrò nella sua camera, la seguirono. Henriett si mise a scuotere l’uovo metallico ricevuto alla stazione, che tintinnò; non aveva ancora preso nulla da lí dentro, non l’aveva ancora aperto, anzi, in realtà non aveva alcuna voglia di aprirlo. La magia dell’uovo consisteva proprio nell’essere stato deposto da una gallina di ferro e di contenere qualcosa di misterioso. La bambina piú piccola glielo strappò bruscamente di mano, lo manipolò con forza e riuscí ad aprirlo facilmente con le sue abili ditine, il palmo le si riempí di pastigliette di zucchero. La bionda ne ingoiò subito una poi, come se si fosse resa conto all’improvviso che Henriett aveva diritto alla sua parte, ne infilò una anche nella bocca di Henriett, e passò l’uovo alla bruna. Quest’ultima non prelevò caramelline, richiuse persino le due metà dell’uovo metallico e lo restituí a Henriett rimproverando la piccola: – È suo.
Le avevano raccontato spesso quella scena, perfettamente indicativa del carattere di ognuna di loro tre, le avevano anche detto che al gruppo degli adulti si era aggiunto un uomo con baffi e occhiali, leggermente calvo, il marito della donna con gli abiti in disordine, e tutti insieme si erano messi a ridere osservandole dalla stanza accanto. La signora Held cominciò a lodare la bambina bruna, sottolineando che era una ragazzina molto educata; il viso della bruna rimase impassibile, mentre la bionda sorrise come se i complimenti fossero rivolti a lei. La signora Held aprí di nuovo l’uovo, versando il contenuto su un piattino, quindi lo porse a Henriett esortandola a offrirne alle altre. Henriett in realtà non amava le pastiglie di zucchero, come tutto ciò che era troppo dolce; quel che finora l’aveva affascinata dell’uovo era il fatto che non bisognasse considerarlo necessariamente una leccornia, e invece si ritrovò a girare tra i presenti con il piattino in mano e sulla lingua quella cosa dal sapore dolce e acidulo che la bionda le aveva ficcato in bocca. La mamma non aveva precisato a chi offrirle e cosí ebbe il sentore di dover passare anche dagli adulti. Nel momento in cui stava per arrivare a loro, squillò il campanello. Margit uscí dalla stanza per andare ad aprire, ed entrò un uomo in divisa accompagnato da una donna con i capelli rossi, molto elegante, e un terzo bambino, un maschietto, piú grande di tutte loro. Sullo slancio dell’ordine ricevuto prima, Henriett offrí le caramelle di zucchero anche al signore in divisa e ai suoi due accompagnatori appena entrati.
Ora erano in tanti nella stanza, si conoscevano tutti, il signor Held e l’uomo in divisa si abbracciarono, la donna curata e con i capelli rossi si chiamava «signora Temes». Il momento del loro arrivo e l’episodio delle caramelle da offrire agli ospiti le era stato raccontato, ciò che invece ricordava per conto proprio era che il bambino e le due bambine all’improvviso erano spariti dal suo fianco e si erano infilati in qualche uscita che Henriett non conosceva, perché non aveva ancora potuto guardarsi intorno nella nuova casa. Margit prelevò i bicchieri da cognac nella credenza, gli adulti si sedettero a conversare, lei rimase ferma in piedi e nessuno le prestò piú attenzione. Dopo un po’ di tempo, Margit l’accompagnò fuori invitandola a giocare con gli altri bambini, che sicuramente l’aspettavano, e le indicò la strada per scendere in giardino. Fu allora che vide il loro giardino, invaso di rose fiorite. Al centro c’erano i tre bambini, la bruna, la bionda e il ragazzino, silenziosi e fermi in un punto tra le aiuole, come se fossero in attesa. Non aspettavano lei, questo l’avvertí nell’istante stesso in cui li avvicinò molto timidamente, ma erano comunque disposti ad accettarla tra loro; la bionda l’afferrò per un braccio e la scrollò, non tanto per cattiveria, quanto piuttosto per comunicarle cameratismo. La bruna le chiese come si chiamava, quanti anni aveva. Henriett si presentò.
– Io sono Irén, – disse la bruna. La piccola non parlò, sorrise e basta, poi disse che lei non aveva nome. Henriett si stupí ma le credette.
– Si chiama Blanka, – disse il ragazzino. – È una stupida.
Henriett la guardò spaventata. Blanka fece una piroetta su se stessa, ridendo come se le avessero fatto un complimento, poi indicò il ragazzino e disse canticchiando: – Lui è Bálint.
– Va bene, ora basta, – tagliò corto il ragazzino. – Giochiamo o ve ne andate a casa?
Henriett, immobile accanto al rubinetto per l’irrigazione, li osservò sparpagliarsi immediatamente come farfalle. Giocarono a una specie di complicato acchiapparello, Henriett non era mai stata abile nella corsa, per di piú era timida e maldestra, la bionda invece era agile e sfrontata come il diavolo, quando il ragazzino fu sul punto di raggiungerla lei gli fece lo sgambetto e lui cadde sbucciandosi le ginocchia. Si rialzò in piedi e le tirò un gran ceffone sulla testa bionda, e lei si mise a strillare. La grande, quella bruna, correva bene, con grazia, Henriett la guardava pensando che non avrebbe mai potuto prenderla. Allora non si rendeva conto dei sentimenti che provava, sarebbe riuscita a comprenderli solo molto tempo dopo, ma molto tempo dopo ormai non era piú viva.
Il gioco si interruppe bruscamente, cosí com’era cominciato, quasi nel pieno dello slancio, come quando la coscienza agguanta all’improvviso un pensiero. Il ragazzino fu il primo a smettere, si fermò, e poiché non c’era piú nessuno da inseguire si fermarono anche le due bambine.
– Deve giocare anche lei, – affermò il ragazzino guardando Henriett. – Questo è il loro giardino.
– Possiamo trasferirci da noi, – propose la bionda. La bruna taceva.
– No, – rispose il ragazzino, – non andiamo da nessuna parte, perché mio padre e mia madre sono qui. Ora giocherà anche Henriett. Non hai un altro nome? È un nome orribile.
Gli mormorò di no, avvampando di vergogna. Anche quel senso di vergogna si sarebbe conservato in lei, e poi sarebbe riaffiorato ma capovolto, come tutto ciò che riaffiora nel tempo, la nuova esperienza e il ricordo legati inscindibilmente come un bicchiere su uno specchio e la sua immagine riflessa. Quando riaffiorò, lei si chiamava Mária Kis.
– Dài, fa lo stesso. Vieni a giocare con noi!
Ci andò. Ma la acchiappavano in continuazione, e quel fatto la rese cosí nervosa che dopo un po’ scoppiò a piangere. Il ragazzino smise immediatamente di inseguirla, si bloccò pensoso; la bruna la guardava con aria gentile, come un medico disorientato che indugia al capezzale di un malato ma sa di non poterlo piú aiutare. La piccola le mise inaspettatamente le braccia intorno al collo, voleva consolarla ma quelle braccia piccole, grossolane e sudaticce le suscitarono un’impressione sgradevole, il contatto la ferí.
– Bisogna giocare a qualcosa che è in grado di fare anche lei, – disse il ragazzino. – È piccola e imbranata.
– All’albero di amarene? – chiese la bionda.
– Che sciocchezza l’albero di amarene!
Non conosceva il gioco, glielo insegnarono. Lo trovò magnifico. Imparò subito la canzoncina e la cantò esattamente, seppure con voce molto flebile, la bionda cantò con voce appassionata, squillante. La bruna rimase zitta, il ragazzino anche. E poi girarono in tondo, girarono piú che potevano, quando veniva il suo turno in mezzo prendeva sempre Bálint, mentre Bálint sceglieva sempre la bruna. A un tratto s’accorsero di non essere piú soli. Come all’opera nel gran finale, quando i cantanti con i ruoli piú importanti si presentano insieme alla ribalta, gli adulti apparvero tutti nell’androne, all’ingresso del giardino: l’uomo in divisa, la donna curata con i capelli rossi, suo padre, la donna con i vestiti sporchi, l’uomo con gli occhiali e la calvizie incipiente, la signora Held. La signora Held andò incontro ai piccoli, camminando si chinò su una pianta di rose, annusò i petali rossi di un fiore dicendo con trasporto:
– Qui vivremo fino al giorno della nostra morte.
Fu l’unica frase dell’intera giornata che a Henriett sarebbe rimasta impressa nella memoria. Per lei non significò nulla, perché non sapeva ancora che cosa fosse la vita, né sapeva che cosa fosse la morte.
Ma di noi cosa sapete? E di lei? Su di lei?
Niente.
Ciò che sapete è superficiale, insignificante, magari i dati sono anche veri, ma non nel senso che immaginate voi. I testimoni che potrebbero raccontare la verità, o tacciono o non sono piú vivi. Bálint, per esempio, conosce la verità, ma Bálint tace, evita di parlare di lei non solo con voi, fa lo stesso con me. Anche Blanka sa, Blanka sa tutto, un’unica cosa non sa, ma ormai Blanka è piú lontana delle stelle. Gli Held, Henriett, il Maggiore sono morti, la signora Temes si lascia trascinare dalla corrente, la signora Temes galleggia inerte, senza ricordi, grandi torte le fluttuano davanti trasportate da onde che sciabordano senza sosta, perché all’ospizio non le danno abbastanza dolci. La signora Temes non riconosce neanche piú se stessa, figuriamoci se riesce a ricordarsi di noi.
Eppure ci ha visti abbastanza spesso tutti quanti, la signora Temes era una donna intelligente, ciò che non sapeva cercava sicuramente di indovinarlo, di dedurlo o di chiederlo a Bálint. Non era stato difficile per lei formarsi un quadro completo delle persone che abitavano nella nostra casa, anche quando non era ancora venuta ad abitare con noi, non solo perché eravamo suoi vicini, ma perché eravamo delle figure abbastanza semplici, per lo meno in apparenza. Mia madre era cosí bella e terribilmente disordinata; mio padre, cosí serio e severo; Blanka, cosí disubbidiente e impulsiva; io, cosí disciplinata e cortese. – Irén, di te non mi preoccupo! – mi disse una volta la signora Temes, quando la bloccai sul portone per mostrarle la pagella. La guardai, non ero mai abbastanza sazia di riconoscimenti o di belle parole, aspettai che mi lodasse, mi facesse una carezza. Ignoravo ancora che non esiste persona al mondo di cui non occorra preoccuparsi.
Perché allora ...