Parte quarta
Capitolo primo
VenerdÃ, 6 marzo. La mattina hanno annunciato la morte di Stalin. La sera accompagnerò Ludwig Kaltenburg dagli Hagemann. Quando al calar della sera arrivo a Loschwitz, nell’area dell’Istituto regna un silenzio insolito, a parte il signor Sikorski non incontro nessuno. Vorrei sapere dal cameraman di Kaltenburg come hanno preso la notizia, qui, e soprattutto come l’ha presa il professore, ma il signor Sikorski alza le spalle: c’è stata una gran calma per tutto il giorno. Persino gli uccelli erano meno vivaci del solito. Ma che cosa pensi il professore, nessuno lo sa: nel pomeriggio si è ritirato nel settore degli acquari.
Mentre scendo la breve scala che porta alla vasca degli avannotti e al collettore sistemati nei locali sul lato del pendio, ho un’impressione di abbandono che non ho mai sentito prima in questa casa. Le mura sembrano umide, i miei passi rimbombano sui gradini di pietra, non una voce umana, non un animale. La luce fredda nell’anticamera, la volta a botte con gli acquari addossati l’uno all’altro, il lieve ronzio di innumerevoli pompe di circolazione.
Il senso di sconforto non svanisce neppure quando vedo tra le vasche la chioma bianca di Ludwig Kaltenburg. All’altro capo del locale percorre il corridoio strascicando gli stivali di gomma. Attraverso le lastre di vetro che si susseguono a distanza regolare, attraverso le masse d’acqua, il suo viso quasi non si distingue, si sfoca. Come se camminasse sul fondo del mare. Poi scompare, nascosto dal miriofillo, poi riappare all’improvviso, si liquefa in un vortice di aria e acqua, torna infine alla sua forma, gli occhi chiari, la barbetta, i capelli scompigliati.
Sul piano di lavoro una vasca di scambio spoglia, in cui nuota un branco di ciclidi. A quanto pare Kaltenburg ha passato il pomeriggio a riorganizzare il solito acquario dei percidi, sempre nuove piante, sempre nuovi arredamenti, finché non è rimasto soddisfatto: o meglio, oggi l’esercizio gli è servito soprattutto a distrarsi.
– Naturalmente ho dovuto chiamare a raccolta gli assistenti e tenere un discorsetto, – dice, e: – La signorina Holsterbach, sai, la dottoranda bruna, ha persino pianto.
Non saprei dire che cosa gli passa per la testa. Posiamo la copertura sull’acquario. Fa un passo indietro, si strofina le mani e contempla il suo lavoro. Un mondo acquatico veramente bello.
Rimette lentamente in ordine il posto di lavoro, si toglie il camice, ha indossato l’abito scuro, le scarpe nere appena lucidate sono già pronte sulla scala del seminterrato. Ci muoviamo verso l’uscita, si ferma ancora una volta davanti a un acquario e indica un maschio di spinarello che traffica sul fondo. Il dito di Kaltenburg si muove su e giú sulla lastra di vetro perché lo veda anch’io. Gli altri pesci rimangono sospesi e incuriositi dietro la lastra, seguono l’indice a sinistra, a destra, solo quell’unico spinarello non si cura di scoprire se finalmente arriverà il mangime.
Il professore fa schioccare la lingua, si mordicchia il labbro inferiore. – Troppo presto, – mormora, – è veramente troppo presto, strano, l’inizio di marzo non è il momento giusto.
Vediamo un maschio che esibisce la livrea di gala mentre costruisce la tana, benché il periodo della fregola non sia ancora iniziato. Il suo dorso verdazzurro, i fianchi rossi, vitrei e quasi trasparenti, gli occhi verde smeraldo. Kaltenburg mi posa la mano sulla spalla: – Avviamoci.
È stato invitato per la prima volta a casa degli Hagemann e quando gli ho trasmesso l’invito ho notato che lo considera un grande onore. Adesso, a vederlo cosà avvilito, si potrebbe quasi pensare che abbia paura che Stalin all’ultimo minuto riesca ancora a rovinargli il piacere.
Sulla strada in discesa verso la città silenziosa ci viene incontro una limousine, fatica a salire il pendio attraverso i vicoli, Kaltenburg si ferma per lasciarla passare: – So che mi leggi tutto in faccia. È vero, durante la giornata un po’ l’ho temuto. Chiunque lo avrebbe capito, se la serata dagli Hagemann fosse saltata; ma comunque mi sarebbe dispiaciuto.
Ha lasciato il freno a mano, ha innestato di nuovo la seconda, completamente concentrato sulla carreggiata stretta: – O pensi che sarebbe stato piú opportuno se avessi disdetto? Credi che gli Hagemann preferirebbero passare la serata in famiglia?
Ho scosso la testa.
Kaltenburg ha sorriso al parabrezza. – Hai ragione. Non si disdice tanto facilmente un invito degli Hagemann. E poi vorrei finalmente capire che razza di uomo è quel tuo amico, Martin. E naturalmente sono curiosissimo di conoscere la figlia degli Hagemann, la piú giovane, com’è che si chiama?
– Klara.
– Vi vedete spesso, non è vero? – E poiché non rispondevo: – Ti prego, ma che idea ti sei fatta del tuo vecchio Ludwig Kaltenburg? Non sono mica cieco.
Sarà una serata estremamente tranquilla, molti ospiti in effetti hanno già disdetto nel pomeriggio, altri non sono semplicemente venuti. Ma non ho l’impressione che Kaltenburg sia deluso, si intrattiene a lungo con una coppia di archeologi, con i genitori di Klara, con Ulli, con la stessa Klara. Solo Martin ascolta come sempre le conversazioni senza aprir bocca e intanto osserva attento il professore. A nessuno questa sera, in questo ambiente, verrebbe in mente di assediare Kaltenburg, nessuno lo esorta a parlare dell’Istituto, nessuno insiste perché il professore accompagni gli ospiti in giardino, svegli le gazze addormentate sulla quercia e le convinca a posarglisi sulla spalla.
Il 6 marzo 1953 restiamo insieme ben oltre la mezzanotte, alla fine soltanto in quattro, il professor Kaltenburg, Martin, Klara e io. Siamo esausti, ci manca semplicemente la forza di sciogliere la riunione, e tutti sappiamo che in ogni caso non riusciremo a dormire.
– E cosà adesso non c’è piú, il compagno Stalin, – dice a un certo punto Kaltenburg a voce bassa durante una pausa un po’ piú lunga della conversazione. – Sono passati piú di cinque anni da quando l’ho visto per l’ultima volta, un’eternità . Allora non pensavo che potesse essere l’ultima volta che ci guardavamo negli occhi. Alla fine non gli è servito a nulla far eliminare i medici uno dopo l’altro, il suo sospetto che volessero mandarlo nella fossa era completamente infondato. Il compagno Stalin non ha bisogno di nessuno, non ha bisogno di aiuto, controlla tutto personalmente e cosà ora è morto grazie alle sue sole forze. Era capace come nessun altro di procurare la morte. O qualcuno gli ha dato una mano? Cosa si dice in giro?
Si guarda intorno con aria interrogativa. Klara scuote la testa: – Alla radio non hanno parlato di concorso esterno. Due colpi apoplettici in una successione cosà rapida. Dopo l’emorragia cerebrale aveva perso conoscenza. L’altro ieri il secondo colpo che ha aggredito il cuore e l’apparato respiratorio. Poi, ieri sera alle nove e mezzo, si è spento.
– Alla fine, vaneggiando come fanno sempre, accuseranno Berja, vedrete, li sento già piagnucolare: quella serpe di Berja ha ucciso il nostro amato piccolo padre.
Kaltenburg scaccia via il fumo della sigaretta.
– Ho lavorato abbastanza sotto gli occhi vigili di Stalin da imprimermi per sempre il suo viso nella memoria. I baffoni. Gli occhi neri come il carbone. In effetti ha, no, aveva uno sguardo penetrante, non mi era mai capitato di vederne uno uguale in nessun’altra persona che ho incontrato. Non è possibile immaginarselo, se non si è vissuto di continuo e per un lungo periodo con la sensazione che ti stesse addosso, che ti tenesse sempre d’occhio.
– Parla del periodo che ha passato a Chalturin, dopo essere stato fatto prigioniero? – chiedo.
– Vicino a Kirov, sÃ. Avevo un reparto con seicento letti, tutte nevriti. Che baraonda. Piú tardi a Oritschi, poi a Dsorages, Amalmy, Sevan e anche a Jerevan naturalmente il compagno Stalin era appeso al muro. Non voleva togliermi gli occhi di dosso, il periodo in Armenia, e alla fine a Krasnogorsk vicino a Mosca: mi ha seguito dappertutto.
E la cosa pazzesca era che quello sguardo ci avvicinava gli uni agli altri, prigionieri e soldati dell’Armata Rossa, Tedeschi e Russi, medici e pazienti, perché dovevamo sopportarlo tutti allo stesso modo.
È come come se durante il giorno, no, come se nel corso degli anni in Kaltenburg si fosse accumulato qualcosa che alla fine di questa serata deve aprirsi un varco. Parla a testa bassa, lo sguardo è fisso sul portacenere, dopo le prime frasi nessuno di noi osa piú fare domande. Conosciamo tutti quel ritratto, ma Ludwig Kaltenburg ci mostra Stalin come se non lo avessimo mai visto prima.
– Dà i la medicina a un ferito, e il compagno Stalin veglia affinché per errore tu non sbagli la cura per quel povero diavolo che è steso davanti a te e non si può muovere, affinché non gli somministri la dose destinata al mezzo uomo nel letto vicino. Distribuisci la vitamina C e il suo sguardo severo ti trattiene dal mescolarci veleno in polvere – cioè, dopotutto sei un medico, e non ti verrebbe mai in mente di fare una cosa del genere, ma visto come ti guarda il compagno Stalin, ti senti la coscienza sporca in partenza. Ti scruti dentro, per quanto sia possibile farlo quando ti senti permanentemente spiato, e ti chiedi: non ho fatto magari qualcosa di sbagliato? Dò sempre il meglio di me? Davvero non ho giocato neppure una volta con l’idea di sabotare l’attività dell’ospedale militare, di mandare tutti all’altro mondo in quattro e quattr’otto?
E se hai fatto il tuo lavoro come si deve e ti tranquillizzi e sai che il compagno Stalin può essere contento di te, ogni tanto ti immagini persino che abbassi con indulgenza le palpebre, solo per la frazione di un secondo, come se ti manifestasse la sua benevolenza. Sai che si tratta di un’allucinazione, ma non puoi farci niente. Vuoi raggirarlo – non farti mai venire la tentazione di raggirare il compagno Stalin – e ti volti, lo guardi in fretta direttamente in faccia: gli occhi sono aperti come sempre – vigili – perché lui sa che se si lasciasse sopraffare dalla sua bontà e ti perdesse d’occhio un momento, ti verrebbe l’idea di ingannarlo. Un’allucinazione, cos’altro, solo un ritratto alla parete che ti ritrovi davanti ogni mattina non appena metti piede in corsia.
Dopo una lunga giornata vai a dormire, ma lui non dorme. Una giornata piena di grida, operazioni, moltissimo sangue e moltissimi morti, dal primo all’ultimo raggio di sole. A ogni singola battaglia per la vita di un uomo ha assistito anche lui, si può quasi dire: ha sofferto anche lui. Non ce la fai piú, ti si chiudono gli occhi, ma lui adesso non può riposare. Sa che è proprio questo il momento in cui deve vegliare su di te.
Cosa non ha dovuto vedere nella vita, il compagno Stalin. Cosa ha potuto vedere, sia pure di rado. Ricordo che una volta mi sono messo a parlare direttamente con lui, per chiedergli consiglio, solo cosÃ, con gli occhi, io in fondo alla camerata, lui al lato opposto, sulla parete sopra la porta, e tra di noi un paziente che aveva iniziato lo sciopero della fame dopo che gli avevamo amputato una gamba. Cosa faresti nella mia situazione, chiedevo con lo sguardo fisso sul ritratto, come farebbe Stalin a risolvere al meglio, qui e adesso, quando urge il bisogno, una condizione che mette a repentaglio la vita del paziente debilitato?
Non mi fermai a riflettere a lungo – neppure il compagno Stalin ha mai dovuto riflettere a lungo, quando c’era da prendere una decisione – e da un momento all’altro montai su tutte le furie, alzai di botto le braccia, pestai i piedi tanto che le assi e l’intera baracca tremarono, gridai e urlai, sputai, lanciai le stampelle nel corridoio e gridai in faccia a quel triste fagotto di uomo che mi trovavo davanti – vent’anni appena e di Vienna come me – che ne avrei fatto polpette. Funzionò. Per farla breve: fu sufficiente che mi comportassi per un momento come un cretino e già il povero amputato si faceva imboccare da me come se fossi suo padre e lui il figlio malato. Poi riuscii effettivamente a rimettere il ferito abbastanza in forze perché potessero liberarlo. Dev’essere stato quell’uomo a portare ai miei parenti la notizia che ero vivo. Contrabbandò il biglietto fuori dal campo, nascosto in bocca. Un brillante successo, e il compagno Stalin mi aveva aiutato a ottenerlo.
Si è stancato, dev’essersi stancato visto che teneva lo sguardo continuamente fisso su di noi. Può darsi che alla fine abbia spalancato ancora una volta gli occhi neri come il carbone, che si sia guardato attorno nella stanza – la sua ultima grande battaglia – per cogliere ogni dettaglio, ogni viso nel modo piú esatto possibile, perché non poteva non accorgersi – il compagno Stalin si accorgeva di tutto – che non mancava piú molto, negli ultimi minuti ha voluto catturare un’immagine completa della stanza intorno a lui e portarla con sé non importa dove, il tavolo, la sedia, il telefono, la coperta e poi gli amici attorno, i nemici, i medici, i serpenti, ha voluto guardare anche verso la finestra, si è impegnato – il compagno Stalin si è sempre impegnato con tutte le forze – e ha raccolto ancora una volta tutte le sue energie, per scorgere il quadrato della finestra, la luce, la luce, ma la vista è sbarrata. Le teste di quegli ipocriti, di quegli assassini, devono cadere perché il modesto desiderio del compagno Stalin si realizzi, vedere un’ultima volta la luce del giorno alla finestra, anche se fuori è già buio da un pezzo, agli inizi di marzo, una sera alle nove e mezzo. Può darsi che alla fine i globi oculari gli siano usciti dal cranio perché ha dovuto catturare a tutti i costi un’ultima immagine, eppure probabilmente ha visto soltanto una luce diffusa, accecante, prima che uno del gruppo degli intimi, dei traditori intorno al letto del malato, al letto del morto gli chiudesse le palpebre, per sempre.
Nei suoi occhi neri come il carbone c’era un giuramento di fedeltà : non devi preoccuparti, ti starò addosso, a te e alle tue azioni, non importa dove andrai, ti seguirò fino in capo al mondo. E io, ero degno io della vigilanza infinita e della fedeltà incondizionata del compagno Stalin? Presi i documenti del mio rilascio dal campo di prigionia sotto il suo sguardo, impacchettai i miei averi sotto il suo sguardo, poi voltai le spalle senza un saluto a quel viso cosà familiare. Come se da un momento all’altro tutte le occhiate che ci eravamo scambiati negli anni precedenti fossero dimenticate. Mi diressi verso Occidente senza rendermi conto che quello sguardo fermo mi si conficcava nella nuca, cupo sulle prime, come se non fossi ancora perduto, come se le sopracciglia aggrottate potessero convincermi a tornare sui miei passi. A poco a poco quello sguardo dev’essere diventato iroso, disperato, alla fine malinconico, segnato da profonda tristezza perché viaggiavo inesorabilmente verso la mia patria, senza chiedermi se avrei mai rivisto quest’uomo che mi aveva guardato negli occhi giorno e notte per quattro anni. E ora d’un tratto è tutto finito.
Kaltenburg si stira, solleva le braccia sopra la testa.
– Ragazzi, si è fatto tardi, dobbiamo andare, – e si alza dalla sedia come se lasciasse la baracca dell’ospedale militare, come se si togliesse il camice bianco, sotto il quale ora ricompare l’abito nero.
Ma dopo che mi ha lasciato davanti a casa e mi sono fermato ancora un po’ nella strada buia, rivedo un medico in camice bianco svolazzante percorrere il corridoio centrale nella baracca dell’ospedale militare, gira la testa a sinistra, a destra, rivolge a un paziente due parole in tedesco, a un altro due parole in russo, si corregge, ride, la schiera delle infermiere alle sue spalle ride con lui. Il corridoio tra i letti si perde in lontananza, ma il medico non lascia intravedere la stanchezza finché raggiunge la porta, ha fatto mettere a verbale, incoraggiato e ammonito, trecento volte. E ogni singolo viso gli è noto.
Esce nell’aria fredda, limpida. Respira a fondo. All’orizzonte le colline sono avvolte in una nebbia leggera, le infermiere se ne stanno là a fumare rabbrividendo. La dottoressa russa al suo fianco gli ha offerto una sigaretta, ma lui ha bisogno di una boccata di aria pura, deve togliersi dagli occhi in fretta tutti i visi dei pazienti prima di ripartire per la prossima camerata.
Capitolo secondo
Fin dal mattino un sottile strato di nuvole sovrasta la città , ora inizia a piovigginare, Katharina Fischer dice: – Lo Stalin morto scioglie la lingua a Kaltenburg, – e la sua voce sembra cosà ovattata, nel silenzio che ci circonda, da far pensare che Stalin se ne sia andato soltanto ieri, che nessuno sappia ancora bene che fare di questo morto, come se dietro ogni finestra, sedute accanto alla radio, ci fossero persone taciturne, col viso bagnato di lacrime, avvilite, in attesa di scoprire se la marcia funebre trasmessa ininterrottamente da ventiquattr’ore non verrà interrotta all’improvviso e un annunciatore palesemente intento a ritrovare la calma non leggerà un flash: «Abbiamo appena ricevuto da Mosca la notizia che il grande Stalin si è risvegliato».
Il manto stradale comincia a scintillare sempre piú, un secco odore di polvere si mescola all’umidità . Accompagno Katharina Fischer attraverso Oberloschwitz, le mostro case, strade, giardini che ai tempi di Kaltenburg mi erano cosà familiari, tanto che associavo qualcosa a ogni pietra del selciato, a ogni varco delle recinzioni. Di tutto questo non ricordo piú molto, sia perché sono scomparsi qui il vecchio steccato, là il lastricato, sia perché devo cercare i riscontri nella memoria, visto che non sono piú stato qui dal 1990 o dal 1991.
– Non possiamo lasciare gli animali a digiuno a causa di un lutto, per quanto grande sia il morto, – disse il professore con solennità la mattina dopo. Alcuni tra i collaboratori che non erano informati, né del resto lo sarebbero mai stati, della nostra serata dagli Hagemann, dissero poi che gli si leggeva in faccia il conflitto interiore, che gli riusciva difficile, considerata quell’emozione profonda, fare il proprio dovere. Altri erano convinti che Kaltenburg parlasse con tanta inconsueta lentezza perché la vodka della notte precedente gli aveva fatto male. Alcuni piú tardi ricordarono le frasi: «Pensiamo agli animali. Glielo dobbiamo», con cui il professore era passato a pianificare la giornata. Alcune varietà di allevamento non potevano restare incustodite neppure un’ora, il momento della schiusa era imminente, una parte dello stormo di anatre soffriva in quei giorni di una spiacevole eruzione cutanea; ma, visti i fatti, i collaboratori dovevano essere esentati dal lavoro: chi si sarebbe occupato della fascia da lutto, degli striscioni e del grande ritratto sopra la porta d’ingresso? Kaltenburg sconsigliò gli addobbi floreali, ogni composizione vegetale, per quanto solenne, avrebbe offerto in breve uno spettacolo miserando: «Gli animali sono irrispettosi, non possiamo farci niente».
Un altro suggerimento raccolse solo un’ostile scrollata di capo: qualcuno aveva proposto di trasmettere marce funebri anche all’interno dei recinti. Niente musica. Chi si sarebbe preso la responsabilità , se ci fossero state conseguenze negative, lotte per il territorio, parti prematuri, letargia generale, no, il rischio era troppo grande. Ludwig Kaltenburg non ha mai sopportato le marce funebri in vita sua.
Alla fine rispedà addirittura a casa alcuni collaboratori, sia per compassione sia perché la loro tendenza al sentimentalismo lo disgustava. I compiti erano stati distribuiti e Kaltenbu...