1.
Già quel vento bastava a gettare a terra un uomo adulto, ma niente era peggio della polvere. Quando era rossa capivo che arrivava dall’Oklahoma, dove stavamo anche noi. Ma se era bianca significava che un pezzo di Texas ci stava cadendo sulla testa, e se le folate erano piú scure giungevano con buona probabilità dal Kansas o dal Nebraska.
Secondo la mamma bastava guardarle bene, quelle tempeste di sabbia, per scorgerci il volto del diavolo. Io non ci giurerei, su questa faccenda del diavolo e compagnia bella, ma so per certo che la sabbia, a volte, sembrava assumere forme vere e proprie; tanto da farmi credere che un volto, là dentro, ci fosse davvero. Un volto malvagio e furibondo, che aveva tutte le intenzioni di spazzarci via.
E in effetti poteva anche trattarsi del diavolo. In un certo senso, mamma e papà li spazzò via sul serio, perché una notte tutta la polvere che le era entrata nei polmoni – la peste nera, l’aveva chiamata il medico – formò una specie di tappo e le impedí di respirare e non potemmo farci piú niente. Morí prima che facesse giorno. E io mi addormentai su una sedia accanto al letto, tenendole la mano ormai fredda e col rumore del vento nelle orecchie.
Poi, quando andai a cercare papà, lo trovai nella stalla. Si era impiccato a una trave con una briglia della vecchia bardatura da muli. Attaccato alla camicia c’era un biglietto che diceva: «Non ce la faccio con tua mamma morta ti voglio bene e mi dispiace». Poche parole ma molto chiare; e potevano anche non esserci, che il messaggio l’avrei capito lo stesso.
Non era passato molto tempo, perché il corpo dondolava ancora un po’ e l’ombra si muoveva avanti e indietro sul pavimento e il cadavere era ancora caldo.
Montai sul vecchio sgabello per mungere e tagliai la briglia col mio coltello a serramanico e la mano tremante. Dopo di che tornai in casa, presi la mamma e riuscii a trasportarla giú dalla veranda e a metterla su una vecchia cerata e a trascinare anche lei dentro la stalla. Fu proprio allora che la tempesta di polvere si scatenò di nuovo, neanche avesse aspettato di sapermi dentro, e continuò a sbatacchiare le pareti di legno della stalla per tutto il tempo che ci misi a scavare. Era mezzogiorno, ma si era fatto buio come nel ventre di una mucca. Accesi una lanterna e ripresi a scavare. Il pavimento della stalla era di terra battuta e molto compatta per via di tutti gli animali che avevamo un tempo e che ci camminavano sopra.
Facevo una gran fatica, a scavare, ma finalmente riuscii a penetrare nel terreno di qualche centimetro. Da lí in poi la terra era morbida, e il lavoro andò avanti piú in fretta. Mi stavo obbligando a pensare soltanto a quello, a scavare intendo, perché se mi fermavo a pensare che tutta la mia famiglia stava per finire dentro una fossa, non so mica se ce la potevo fare.
Avvolsi mamma e papà nella cerata e li trascinai dentro la buca, l’una accanto all’altro e con tutta la delicatezza possibile. Poi iniziai a ricoprirli, ma di colpo mi sentii debole come un gattino appena nato e mi sedetti sull’orlo della fossa e mi misi a guardare le loro sagome sotto la cerata. Non so dirvi il vuoto che avevo dentro, tanto che mi venne anche l’idea di prendere la briglia e fare a me stesso la cosa che aveva fatto papà.
Ma non era quel che volevo io. La mia intenzione era diventare come gli eroi di cui avevo letto in certi libri, gente in grado di affrontare qualunque cosa e non mollare mai. Mi seccava parlare in questo modo di mio padre, ma aveva scelto la via d’uscita del vigliacco, mentre io vigliacco non lo ero stato mai e di certo non avrei cominciato proprio allora. Eppure, ebbi un crollo e scoppiai a piangere senza riuscire a fermarmi, anche se di lacrime non ne avevo poi tante. Intorno a me non c’era altro che aridità, e io non facevo eccezione; piangevo per cosí dire a secco, come quando hai voglia di vomitare ma in corpo non ti è rimasto piú niente.
La tempesta continuava a ululare, a scuotere le assi della stalla. La sabbia entrava dalle fessure e riempiva l’aria come una polvere sottile e color sangue. Quella che ci stava uccidendo adesso era terra dell’Oklahoma, e il fatto che fosse roba di casa mi faceva star male ancora di piú. Sembrava una faccenda molto piú personale di quando arrivava la terra dal Texas, dal Kansas o dalle zone aride del Nebraska.
E la polvere brillava alla luce della lanterna. Rimasi seduto per un pezzo a fissare quella foschia color sangue, fino a quando non trovai la forza di alzarmi e finire di seppellire mamma e papà, compattando la terra col retro della pala.
Poi attaccai a recitare qualche parola sulla loro tomba, ma a dire il vero non è che in quel momento mi sentissi poi cosí religioso, e quindi mi limitai a questo: – Vi voglio bene, a tutti e due. Ma tu non dovevi ucciderti, papà. Non era questo il modo di fare.
Dopo di che, presi la lanterna e la posai accanto alla porta, infilandomi un paio di occhiali da aviatore che stavano appesi a un chiodo. Erano di mio nonno, che aveva fatto il pilota nella Prima guerra mondiale e che me li aveva lasciati a me anche se io mica l’avevo conosciuto tanto bene e comunque mi facevano proprio comodo perché le conoscevo, io, un paio di persone che la polvere gli aveva raschiato ben bene gli occhi ed erano diventate cieche come talpe.
Insomma, me li infilai e spensi la lanterna. Inutile portarmela fuori, con tutto quel buio, perché tanto a spegnerla ci avrebbe pensato il vento. Posai la lanterna sul pavimento, aprii la porta della stalla e presi la corda che papà aveva legato a un chiodo sulla parete esterna, e reggendomi a quella corda mi incamminai nel buio col vento che sollevava tutta quella sabbia che mi grattava come la lingua secca di un gatto. Seguii la corda fin dove era legata alla veranda, e quando la lasciai dovetti muovermi a tentoni per trovare il pomello della porta e scaraventarmi in casa.
Ricordo di aver pensato che peggio di cosí non poteva andare.
Ma mi sbagliavo.
2.
In un certo periodo c’erano stati cosí tanti conigli che gruppi di uomini e ragazzi si erano messi a dargli la caccia, a spingerli contro le staccionate neanche fossero una mandria di bestiame e ad ammazzarli a bastonate. Da quanti erano, si stavano divorando anche la poca vegetazione che non avevano ancora mangiato le cavallette e le vacche – che già morivano di fame per conto proprio – e che non era ancora stata uccisa dalla sabbia e dalla siccità. Tra quella vegetazione ci rientrava pure il nostro orto. E, visto che non avevamo intenzione di lasciarlo in pasto ai conigli, anche noi ci eravamo messi a dargli la caccia.
Di cibo ce n’era poco, quindi io e papà, dopo aver ammazzato la nostra parte di conigli, li avevamo presi e portati a casa, per appenderli poi a un chiodo. Era successo un paio di giorni prima, e ormai le carcasse si erano indurite e avevano già iniziato a puzzare. Quando le condizioni della mamma si erano aggravate, io e papà c’eravamo scordati di quei conigli, ed eravamo stati senza mangiare per due giorni. Adesso che né lei né mio padre c’erano piú, mi convinsi che era arrivato il momento di spellarli, cucinarli e ingozzarmi a piú non posso.
La sabbia soffiava ancora, entrando in casa con la facilità di un fantasma che passa attraverso una parete. Avevamo ancora un po’ di acqua e farina, e ci erano servite per incollare della carta tutt’attorno alle finestre; poi, una volta dentro, avevamo tappato le fessure della porta con degli stracci. Ma non era servito a molto. La polvere continuava a entrare, era dappertutto. Tra le tende e sulle mensole e nelle pagine dei libri, e ti ricopriva la faccia e te la sentivi sulla punta della lingua e tutto quel che mangiavi ti sembrava appena raccolto dal pavimento. Non facevo che sfregarmela via dagli occhi, anche mettendo la testa sotto l’acqua.
Il pozzo nella stalla era l’unica cosa buona della casa, ed era lí che andavo a prendere l’acqua con un secchio. Tutti gli altri pozzi erano asciutti o ci mancava poco, ma per fortuna quello della stalla era abbastanza al riparo dalla sabbia. Quindi non si era prosciugato come tanti altri.
A protezione del secchio pieno d’acqua avevo messo uno straccio, che adesso era già nero di polvere. Presi il ramaiolo, ne scossi via la polvere, tolsi lo straccio, mi versai in bocca una mestolata d’acqua e rimisi lo straccio al suo posto. Sembrava di bere da una pozza di fango. Anche con lo straccio, la polvere era entrata lo stesso.
Sviscerai i conigli e gettai le interiora in un altro secchio. Di solito le davo da mangiare a Butch, il nostro cane, ma neanche lui riusciva a sopportare la polvere e un giorno aveva tagliato la corda per non tornare piú. Mi divertivo a immaginarmi che se ne fosse andato in California a vivere sotto un albero in qualche aranceto e che delle persone gentili gli portassero da mangiare. C’era chi diceva che la California era il posto giusto dove andare. Pareva ci fosse lavoro, da quelle parti, niente tempeste di sabbia e acqua a volontà, che soprattutto non sapeva di ghiaia. Dopo quel che era appena successo, ci stavo pensando su. Tanto, da portarmi via avevo ben poco. E da un giorno all’altro la banca si sarebbe ripresa la casa e il terreno.
Finii di pulire i conigli, misi un po’ di legna nella cucina, la accesi e tentai di friggere la carne con lardo e farina. Di uova non ne avevo, per legare quella specie di pastella, che infatti venne via quasi tutta.
Quel che non mangiai lo misi nella ghiacciaia, che anche se era senza ghiaccio restava comunque un ottimo posto per tenere lontana la polvere. Continuavo a pensare a quei conigli e a come li avevamo ammazzati, con loro che strillavano come dannati, anzi come donne che stanno per morire in un lago di fuoco. Era la migliore descrizione che mi veniva in mente, ma a dir la verità molte parole non ce n’erano. Se ci pensavo troppo mi saliva il voltastomaco: quindi cercai di immaginarmi situazioni piacevoli, che però in quel momento erano poche o niente.
Ne approfittai per calpestare un bel po’ di millepiedi, che avevano invaso tutta la casa, e allo stesso modo ammazzai anche uno scorpione che si aggirava sotto il tavolo. Quando ero piccolo uno mi aveva morso, non mi era piaciuto neanche un po’ e non avevo intenzione di ritrovarmi nella stessa situazione.
Dopo aver fatto secco tutto quel che riuscivo a vedere, andai a sdraiarmi sul letto dov’era morta mamma. C’era ancora il suo odore, sul materasso, quell’odore dolciastro che lei aveva sempre addosso ma che non c’entrava niente col profumo, visto che di profumo lei non ne aveva se non una specie di lozione al lillà che comunque era finita da un pezzo. Era soltanto il suo odore, e bastò a farmi piangere. E da quanto piansi, alla fine mi addormentai.
Fuori era ancora buio e la sabbia non la smetteva di soffiare.
3.
In sogno, mi tornò in mente come andavano le cose prima di tutta quella sabbia. Era un ricordo sottile come il velo che ricopre il tuorlo di un uovo, ma mi piaceva lo stesso. Ripensai a quando papà e mamma erano felici. E a quando lo ero anch’io. Non avevamo un granché, se non cibo a sufficienza e tutto il tempo di stare assieme, e loro parlavano del futuro proprio come se un futuro dovesse esserci davvero. Si rimboccavano le maniche senza problemi, io andavo a scuola e sbrigavo qualche faccenda in casa, e poi ci mettevamo ad ascoltare la radio o a chiacchierare, a cantare, a ridere. Io e papà giocavamo a dama mentre mamma lavava i piatti. Non era chissà che vita, ma era bella cosí.
Poi il terreno aveva cominciato a inaridirsi e la vegetazione a morire. Non avevamo piú modo di sfamare il bestiame, e l’unica soluzione era mangiarcelo: sia per non farlo crepare di fame, sia per non restarci secchi pure noi. Ci eravamo mangiati anche il cavallo, che si era rivelato un po’ tiglioso e dolciastro: in condizioni normali, non lo consiglierei a nessuno. Però in quella situazione mi sarei sbafato non solo il cavallo, ma anche il cane o tutto quel che mi passava sotto il naso. A un certo punto sentivo i morsi della fame ventiquattr’ore al giorno.
Dopo che il nostro raccolto era stato raso al suolo dalla siccità, era toccato al vento spazzarlo via e dargli il colpo di grazia. Ululava come un lupo, quel vento, ed era pieno di sabbia che al suo passaggio sterminava tutto quanto. Se non soffiava il vento, ci saltavano addosso le cavallette: fameliche, in ondate cosí nere e compatte da oscurare addirittura il sole. E i conigli. Un’infinità. La sabbia turbinava, i conigli divoravano qualunque cosa, le cavallette frinivano. Non c’era altro.
Poi questi ricordi svanirono, lasciandomi davanti agli occhi soltanto la fossa nella stalla. Ancora scoperta, con mamma e papà avvolti nella cerata e ficcati là dentro. Ci stavo sopra e guardavo giú. E vidi una mano, la sagoma di un palmo, che spingeva la cerata dall’interno. Una mano piccola. La mano di mia madre.
Mi svegliai all’istante, le guance tutte bagnate di lacrime.
Il buio era svanito, e anche la tempesta di sabbia. Mi tirai a sedere, drizzando le orecchie, ma pure il vento era cessato. L’aria era comunque piena di polvere sottile.
Scesi dal letto, andai sulla veranda anteriore e con la scarpa tolsi sette, otto centimetri di polvere nel tragitto dalla porta ai gradini. Poi ripulii anche quelli. Il sole era alto, non si muoveva una foglia e la sabbia aveva per l’ennesima volta cambiato l’aspetto di ogni cosa. La terra era diventata rosso Oklahoma, mentre il giorno prima era bianco Texas, per di piú mischiata a un po’ di nero Nebraska.
Tutt’attorno si erano formate delle grosse dune di sabbia, che aveva spazzato via – lo vedevo bene, anche da quella distanza – il poco che restava del filo spinato intorno alla nostra proprietà. Poco male. Tanto, le mucche erano già morte tutte quante da un pezzo.
E poi li vidi arrancare nella sabbia.
Lei indossava stivali, una salopette e una camicia a quadri col colletto e i polsini abbottonati per tenere lontana la polvere. Il ragazzo che l’accompagnava era piú giovane. Anche lui era in tuta da lavoro, aveva una vecchia camicia marrone e uno straccio che gli nascondeva il capo, lasciando spuntare soltanto gli occhi. Trasportavano sacchi da farina pieni zeppi di chissà cosa.
Tutti e due venivano avanti piano piano, e si capiva che non avevano quasi piú forza e stavano per cadere, cosí scesi per andargli incontro. La sabbia mi rallentava il passo, e mi ci volle un bel po’ per raggiungerli, e quando fui vicino la ragazza cadde su un ginocchio, e quella specie di sciarpa le lasciò libero il viso, e fu allora che la riconobbi. Era Jane Lewis, e quindi il ragazzo non poteva essere che il fratello minore, Tony. Non li vedevo da un’eternità. Soprattutto perché erano famosi per avere i pidocchi, piú o meno sempre. Era un problema comune a tanti, dalle nostre parti, e pure a me capitava di quando in quando. Solo che mamma si era fatta l’idea che i Lewis dei pidocchi ne soffrissero di natura, e quindi a me non mi era permesso averci, come diceva lei, dei rapporti.
Pidocchi o no, le passai un braccio sotto le ascelle e l’aiutai a rialzarsi e le presi di mano il sacco da farina. Da com’era pesante, sembrava riempito di sassi.
– Sono io, Jane, – dissi. – Jack Catcher.
– Lo so, – rispose.
– Bene, allora.
Sorreggendola, mi avviai di nuovo verso casa, e Tony ci barcollò dietro. – Lo sai chi sono, vero? – disse.
– Sei Tony, – risposi. – Visto che conosco lei, per forza lo so chi sei tu.
– Non ci vedo mica tanto bene, – disse. – La sabbia mi fa bruciare gli occhi.
– Ce la fai ad aggrapparti a me?
Lui si fece avanti e mi afferrò le falde della camicia. Io aiutai Jane ad andare verso la casa, e Tony mi rimase attaccato fin su per i gradini. Superata la veranda, a entrambi bastò passare la soglia per crollare a terra. Jane si tolse lo straccio e scosse il capo, schizzando sabbia per tutta la stanza. A operazione conclusa, i capelli le caddero sulle spalle: anche sporca com’era, mi resi subito conto che era bella, ma rimasi comunque in guardia contro i pidocchi, vista la reputazione della sua famiglia.
Presi uno degli stracci meno incrostati di polvere e lo scossi ben bene, bagnandolo con l’acqua del secchio. Mi avvicinai a Tony, gli scoprii il viso e lo ripulii alla bell’e meglio. Alla fine mi accorsi che quella che mi era sembrata opera dei raggi del sole non era altro che sporcizia causata dalla polvere. Sotto quel velo di terriccio, era bianco come la pancia di un pesce. Aveva un volto ossuto e i capelli tutti incrostati, come quando piove su un mucchio di fieno ricoperto di sterco di pollo.
– Non ci vedo ancora mica, – disse lui, sfregandosi gli occhi con una certa cautela.
Lo aiutai ad alzarsi, lo guidai fino al secchio e, col ramaiolo, gli versai l’acqua dritta sugli occhi. Lui non fece che sbatterli, durante l’operazione, ma riuscí comunque a tenerli quasi sempre aperti.
– Adesso va meglio, – disse. – Adesso non sembra piú che sei fatto di sabbia. Quando guardavo qualcosa, sembrava tutto di sabbia.
– Meno male, – risposi, – perché è proprio cosí che mi sento, di sabbia.
Fu allora che si decisero a bere un po’ d’acqua, mentre io tiravo fuori qualche pezzo di coniglio dalla ghiacciaia per poi piazzarlo sul tavolo. Sedettero, mangiarono. – Sapeva un po’ di terra ed era quasi andato, – disse Jane quando ebbe spolpato il suo fino all’osso.
– Be’, – feci io, – dirò al cameriere di lamentarsi con lo chef, e vedrai se lo chef non ti manderà al diavolo.
Lei mi guardò e prese un’espressione mortificata. – Non volevo metterla cosí. Era solo un commento.
– Già, come no, sorella, – risposi. – Chissà quanta roba hai mangiato, di recente, che non sapeva di terra.
– Hai ragionissima, – disse lei. – Scusami.
– Ma aveva un cattivo sapore, – fece Tony.
– È perché era di un coniglio morto da un pezzo, – risposi. – L’ho cotta parecchio proprio per questo. Adesso immagino che vorrete un dessert e delle ciotole d’acqua per pulirvi le dita.
– Non ci starebbe male, – disse Jane, – e magari anche una bella salvietta calda.
Poi mi sorrise, e io ricambiai. Impossibile resistere. Non la vedevo da un’eternità, e da allora eravamo cresciuti tantissimo, io e lei, ma lei in un certo qual modo mica male.
Ero rimasto in piedi accanto al tavolo, come un domestico vero e proprio, ma a quel punto andai a prendermi una tazza d’acqua dal secchio e mi sedetti.
– Com’è che venivate da questa parte? – chiesi.
– Eravamo dentro la tempesta, – rispose Jane.
– Ma per favore, – risposi. – Impossibile starci dentro, in quella tempesta.
– E invece sí, – disse Tony. – Ci siamo quasi rimasti secchi.
– Non c’è verso, – dissi io. – L’ho vista poche volte, una tempesta del genere.
– E pensa un po’ com’era da vicino, – fece lui.
– Se non eravamo noi, quelli là dentro, – disse Jane, ...