Parte quarta
Riforme forse impossibili ma necessarie
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Capitolo nono
Fondi pensione, capitale del lavoro e strategie di investimento
Componenti industriali della crisi.
Abbiamo finora esaminato soprattutto le componenti finanziarie della crisi economica mondiale apertasi nel 2007, non disgiunte dalle sue componenti industriali. Per completare il quadro sarà utile soffermarsi ancora su un particolare aspetto di queste: il ruolo che in esse hanno avuto le strategie d’investimento di una classe d’investitori di peso mondiale, i fondi pensione, e il modo in cui potrebbero essere modificate, anche in Italia, nel caso che i proprietari ultimi dei capitali di tali fondi, i lavoratori, decidessero di mostrare un maggior attivismo a tale scopo. Ben prima che la crisi finanziaria si rivelasse in tutta la sua gravità , molte imprese manifatturiere hanno operato in modo tale, sul piano delle scelte di prodotto e di mercato, dell’organizzazione generale della produzione, delle condizioni di lavoro offerte ai dipendenti e delle politiche ambientali, da contribuire a un peggioramento globale dello stato dell’economia. È lecito dunque inferire che in quasi nessun caso i suddetti modi di operare sono stati una risposta ai problemi posti dalle reazioni della finanza, tipo la restrizione del credito. In generale essi hanno preceduto, piuttosto che seguito, le convulsioni del sistema finanziario, salvo intrecciarsi successivamente con esse, aggravandole. La madre dei suddetti modi di operare è stata la finanziarizzazione delle imprese industriali, compiuta a danno della loro vocazione produttiva. Ma un sostanzioso contributo al loro sviluppo e diffusione lo hanno dato le strategie di investimento dei fondi pensione. Quali che fossero le intenzioni dei gestori, con le loro strategie questi fondi hanno finito per svolgere una funzione pro-crisi. Un ruolo affine lo hanno svolto pure i fondi comuni di investimento: ma questi richiederebbero una trattazione a parte. Trasformare le strategie citate in strategie anti-crisi è una complessa questione politica non meno che economica.
Le componenti industriali della crisi sono lontane e molteplici. Quanto meno comprendono: il trasferimento di interi settori manifatturieri dai paesi sviluppati a quelli emergenti; la compressione dei salari reali, con relativa stagnazione della domanda interna, combattuta in molti paesi solo con l’esplosione del debito delle famiglie; una notevole riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo; il ritardo o l’abbandono di interventi a tutela dell’ambiente; il decadimento o il mancato sviluppo delle infrastrutture urbane e interurbane, a cominciare dai trasporti pubblici. Precursore e modello in questo settore, non meno che nel settore finanziario, sono stati gli Usa. Seguendo le strade sopra menzionate gli Stati Uniti hanno praticamente smantellato, in appena un ventennio, buona parte della loro industria manifatturiera. Al presente entro gli Usa risulta quasi scomparsa la produzione di settori che pochi decenni fa dominavano con le loro esportazioni, oltre al mercato interno, gran parte dei mercati occidentali. Tra di essi figurano comparti di dimensioni gigantesche quali gli elettrodomestici; i televisori e l’alta fedeltà ; i computer e i microprocessori; i telefoni cellulari; l’abbigliamento; i giocattoli.
Un altro settore portante della manifattura americana, l’autoindustria, ha visto calare la costruzione interna di auto di parecchi milioni di unità in meno di dieci anni. Reggono la siderurgia, sebbene con un calo dell’occupazione da 500 000 addetti nei primi anni ’70 a poco piú di 100 000 nel 2007, e un ritorno della produzione ai livelli del 1950; l’industria bellica e l’aerospaziale, tra di loro strettamente interconnesse, posto che la prima è pagata per intero dallo stato, il quale per suo tramite sovvenziona direttamente o indirettamente pure la seconda. In totale l’occupazione nell’industria manifatturiera americana è scesa dal 30 per cento degli occupati nel 1950 al 14 per cento nel 2007. Al travaso di manodopera nel settore dei servizi, dove i salari sono mediamente inferiori ai 4 dollari l’ora, e alla compressione dei salari industriali interni ottenuta con gli investimenti diretti all’estero, si deve il fatto che il salario medio in Usa per i dipendenti al di sotto del livello di quadro o capo intermedio sia ai giorni nostri, in termini reali, pressocché uguale a quello del 1973.
Casi analoghi di de-industrializzazione si sono avuti nel Regno Unito, dove essa, forse piú che in ogni altro paese, è stata programmaticamente perseguita dai governi conservatori e laburisti che hanno favorito al suo posto lo sviluppo del settore finanziario, e in Canada. Da parte sua la Germania ha sà sviluppato notevolmente le esportazioni manifatturiere, fino a diventarne il campione mondiale, ma al prezzo di una prolungata «moderazione salariale». Quest’ultima ha concorso a far salire al 22 per cento la quota di lavoratori poveri, quelli che, pur lavorando regolarmente, hanno un reddito annuo prossimo alla soglia di povertà . In Italia, le componenti industriali della crisi hanno preso forma di una marcata contrazione della produzione automobilistica interna, da 1,5 milioni di unità negli anni ’90 a 650 000 nel 2008, 2009 e 2010; di decadenza prolungata di settori portanti come il tessile, accompagnata dalla perdita di decine di migliaia di posti di lavoro; di una decennale stagnazione della produttività del lavoro e dei salari reali, nonché di decadimento o arresto dello sviluppo di infrastrutture essenziali, a partire dal trasporto pubblico.
Attraverso queste sue componenti, la crisi industriale, accettata come inevitabile da numerosi governi occidentali quando non sia stata da essi sistematicamente indotta, ha contribuito a rilanciare in Usa e in alcuni paesi Ue discussioni e proposte in merito al ruolo che il risparmio dei lavoratori accumulato collettivamente a fini previdenziali potrebbe svolgere, qualora fosse investito in direzioni appropriate. La sola quota di esso accumulata nel portafoglio dei fondi pensione strettamente intesi ammontava nel mondo, a fine 2007, a 17,5 trilioni di dollari, corrispondenti a quasi un terzo del Pil mondiale dello stesso anno. Ad 8,5 trilioni ammontavano i contratti di tipo previdenziale – la maggior parte personalizzati – gestiti da compagnie di assicurazione, banche e altri enti finanziari. Avendo a disposizione capitali di simile entità , i fondi pensione sono diventati in meno di vent’anni uno dei piú potenti gruppi di investitori istituzionali che esistano al mondo, secondi solamente ai fondi comuni. Tanto che uno specialista di questi studi ha notato:
Gran parte dell’investimento che formerà il nostro futuro è intrapreso da fondi pensione. Al presente i fondi pensione sono parte integrante dell’economia globale la quale decreta che grandi magazzini e scintillanti grattacieli per uffici si moltiplicheranno, mentre ciò non avverrà per piscine, biblioteche e teatri aperti a tutti; che alcune regioni prospereranno mentre altre andranno in malora; che il guadagno commerciale prenderà il posto dell’etica del servizio pubblico1.
Ne segue, hanno aggiunto altri autori, che se i lavoratori dovessero mai far valere i loro diritti di proprietà sul reddito accantonato che è affluito al portafoglio dei fondi pensione, ed esprimessero le loro priorità sociali ed economiche tramite le decisioni di investimento dei loro fondi, l’attuale sistema economico potrebbe esserne scosso alla base2.
La contraddizione insita nel «capitale del lavoro».
Allo scopo di far fruttare i capitali loro affidati, i fondi pensione li investono prevalentemente in azioni di società quotate e obbligazioni private e pubbliche; nonché, negli ultimi anni, in prodotti della cosiddetta finanza ombra, sulle cui origini e peso attuale ci si è già soffermati a lungo3. Il fine dichiarato delle strategie di investimento che essi perseguono è quello di garantire il valore del capitale gestito, e di assicurare il maggior livello possibile delle pensioni che verranno a maturazione; compatibilmente, precisano in genere i gestori dei fondi, con l’andamento delle borse e dell’economia. Codeste strategie, applicate a capitali complessivamente enormi, hanno fatto sà che nei paesi in cui i fondi pensione hanno conosciuto il massimo sviluppo – in primo luogo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, cui vanno aggiunti altri paesi anglosassoni come Canada, Australia e Nuova Zelanda, ma anche l’Olanda in Europa e il Giappone nell’Asia orientale – essi siano diventati proprietari di oltre un terzo di tutte le società quotate, con punte ancora superiori in Usa e Gb. Non a caso i fondi pensione sono stati definiti, talora accomunati in questo ai fondi comuni di investimento, i veri «proprietari universali» dell’economia contemporanea.
La potenza finanziaria dei fondi pensione, unita alla circostanza che le strategie di investimento di questi ultimi sono in pratica decise a loro totale discrezione dai manager che li gestiscono, ha fatto emergere sin dagli anni ’70 del Novecento una contraddizione tra gli effetti delle strategie medesime e gli interessi dei lavoratori. Da un lato, i lavoratori che sottoscrivono un fondo pensione non possono che apprezzare strategie di investimento dichiaratamente concepite dai gestori per garantire il capitale e ottimizzare le future pensioni. Tralascerò qui i dubbi sovente formulati da vari osservatori circa la reale efficacia dei fondi nel conseguire il duplice obiettivo in questione, quando il rendimento netto effettivo dei capitali gestiti sia calcolato con criteri non incompleti o distorti. Vorrei invece sottolineare come, dall’altro lato, le stesse strategie abbiano sovente generato effetti collaterali diretti e indiretti, i quali hanno recato danni ad altri lavoratori; perfino, in certi casi, ai sottoscrittori dei fondi stessi.
page_no="231" L’elenco dei danni comprende la chiusura di fabbriche di comprovata efficienza produttiva, con relativo licenziamento degli addetti, perché gli investimenti dei fondi sono diretti di preferenza a imprese che sul breve periodo sembrano offrire un rendimento maggiore di qualche decimo di punto; tagli alla forza lavoro conseguenti a fusioni e acquisizioni di imprese, motivate soprattutto da valutazioni finanziarie e proprio per questo sostenute con il capitale dei fondi stessi; delocalizzazioni di imprese nazionali indotte da investimenti dei fondi diretti all’estero; massimizzazione del valore delle azioni in portafoglio perseguita dai gestori dei fondi senza tener conto di altri portatori di interessi; contributi dei fondi alla privatizzazione di beni comuni. Il dilemma che si pone ai lavoratori che aderiscono a fondi previdenziali è dunque questo, formulato sin dagli anni ’70 da Jeremy Rifkin e Randy Barber in forma piuttosto radicale: «se essi continueranno a permettere che il loro capitale continui a venire usato contro di loro, oppure se vorranno affermare il proprio controllo su tali fondi allo scopo di salvare i loro posti di lavoro e le loro comunità »4.
Sotto diversi aspetti il quesito posto dai due autori negli anni ’70 è piú attuale che mai. Il perché lo spiega un rapporto pubblicato ai nostri giorni su come far lavorare il capitale del lavoro. Le frasi in corsivo sono gli aggiornamenti inseriti dagli autori, due funzionari di un centro americano che promuove l’accesso a forme di proprietà delle imprese da parte dei lavoratori:
«I fondi pensione – scrivevano Rifkin e Barber (R&B) nel 1978 – sono una nuova forma di ricchezza che è emersa durante gli scorsi trent’anni sino a diventare la maggior fonte singola di capitale privato del mondo. Essi valgono al momento 500 miliardi di dollari e rappresentano i risparmi differiti di milioni e milioni di lavoratori americani». Oggi essi valgono [in Usa] 17 volte tanto.
«I fondi pensione (R&B) possiedono al presente il 20-25 per cento del capitale delle corporation americane». Oggi ne posseggono il 45 per cento.
«I fondi pensione sono la piú grossa fonte di investimento per il sistema capitalistico». Questo è piú vero oggi di allora5.
La duplice contraddizione insita nel fatto che i proprietari ultimi del capitale dei fondi pensione, i lavoratori, nella quasi totalità dei casi non hanno alcun controllo sui modi in cui questo viene investito, mentre gli investimenti finiscono sovente per avere ricadute negative su altri lavoratori, ha alimentato per decenni in Usa e in Gran Bretagna la discussione sul labor’s capital, il capitale del lavoro. In tali paesi gli anni ’80 hanno visto crescere di molto l’attivismo dei maggiori fondi pensione nei confronti delle società di cui avevano consistenti quote di azioni e obbligazioni in portafoglio. Giganti come Calpers, il fondo dei dipendenti pubblici californiani (200 miliardi di dollari di attivi), si sono distinti per il ruolo che hanno avuto sia nella sostituzione di interi gruppi dirigenti al vertice di grandi società , sia in vari casi di fusioni e acquisizioni che essi hanno talora favorito e talora bloccato.
Tuttavia, diversamente da quanto postulavano autori come Rifkin e Barber, l’attivismo dei fondi nel suddetto periodo fu rivolto non tanto a modificare l’allocazione dei capitali allo scopo di tutelare l’occupazione, far crescere i salari e consolidare imprese industriali, quanto a migliorare il rendimento dei capitali gestiti; e ciò senza porre alcuna particolare attenzione alle conseguenze per i lavoratori. Un mutamento apprezzabile delle strategie di investimento dei fondi pensione richiederebbe che i lavoratori, tramite i sindacati che li rappresentano, avessero la possibilità di intervenire realmente nel governo dei fondi stessi6.
Lo sviluppo dei fondi pensione in Italia come in altri paesi dove a lungo è esistito quasi soltanto il sistema previdenziale pubblico, insieme con la crisi in atto, fa sà che la contraddizione tra proprietà ultima e controllo reale del capitale dei fondi pensione, fino a tempi recenti discussa soprattutto in ambito anglosassone, si imponga ora anche da noi. In particolare ne sono toccati i fondi pensione di settore o di categoria, detti fondi negoziali, i quali vedono nominalmente tra i loro agenti di controllo i sindacati. Quando si sottolinea tale contraddizione non si può ignorare che, sotto lo stretto profilo giuridico, stante la legge in vigore questi ultimi sono abilitati a trattare con gli enti di gestione solamente la allocazione del capitale tra strumenti finanziari piú o meno rischiosi, in primo luogo tra azioni, obbligazioni e derivati, combinabili in differenti comparti di rischio. Per di piú possono farlo soltanto previo accordo con gli altri componenti del consiglio di aministrazione che rappresentano le imprese. Di conseguenza, oltre a mostrarsi decisamente piú attivi di quanto fino a oggi non siano stati negli attuali organi direttivi, i sindacati dovrebbero puntare a un altro mutamento: cioè realizzare per via legislativa le modifiche al governo dei fondi che li pongano in condizione di orientare effettivamente le strategie di investimento dei gestori dei loro capitali in differenti settori industriali, tecnologie e imprese. Con l’obiettivo di ottenere che dette strategie giovino provatamente a occupazione, salari, ricerca e sviluppo, ambiente, formazione, tutela di beni comuni. Sugli ostacoli che a tale obiettivo frappone l’attuale sistema di governo dei fondi si ritornerà piú avanti.
Strategie per migliorare le ricadute industriali degli investimenti dei fondi.
Al presente le strategie che un fondo pensione, con i suoi organi di governo, potrebbe e dovrebbe esplorare per migliorare le ricadute industriali dei suoi investimenti sono riconducibili in sostanza a due. La prima è una versione ammodernata dell’Investimento Socialmente Responsabile; la seconda è l’Investimento Economicamente Mirato. Entrambe propongono modalità di investimento radicalmente diverse da quelle che prevalgono da decenni nella maggior parte dei fondi pensione. Ciò si deve non poco alla circostanza che i loro money manager – quelli che giorno per giorno decidono in quali settori e imprese investire – sono stati istruiti ad applicare sopra ogni altro criterio il paradigma della massimizzazione del valore per l’azionista, a prescindere dalle conseguenze per ogni altro portatore di interesse. Dopotutto, la maggior parte di essi sono dirigenti del settore bancario, o da questo provengono: non si vede come potrebbero, da sé, fare posto nella loro matrice di decisione a criteri differenti. È il perseguimento accanito di tale paradigma che ha condotto in molti casi a effettuare investimenti di «capitale del lavoro» i quali hanno in realtà nuociuto agli interessi dei lavoratori7.
Un investimento è definito «socialmente responsabile» quando l’attore che lo effettua tiene conto in anticipo sia del genere di prodotti e di servizi offerti dall’impresa cui è destinato, compresi i fornitori, sia delle possibili conseguenze di esso sulle condizioni di lavoro e sui rapporti con la comunità in cui l’impresa è insediata. L’investimento socialmente responsabile non è certo un’invenzione recente: è oggetto di discussione da generazioni e, in una certa misura, anche di apprezzabili pratiche. Fin dagli anni ’20 del Novecento vi erano chiese inglesi, soprattutto metodiste, che si impegnavano a evitare i titoli azionari «peccaminosi» (sin stocks) nelle loro politiche di investimento. Ciò significava in genere rifiutare di comprare titoli di imprese che producessero liquori, tabacco o armi. Anche oggi vi sono fondi pensione di ascendenza religiosa che affermano di praticare tale forma di screening, ossia di selezione preventiva dei destinatari dell’investimento. Va tuttavia notato che né la natura dell’investitore, né, al caso, le sue arden...