Non mi vergogno di dirlo, ma in fondo, io che detesto l’imitazione, ho cominciato imitando la signorina Gisella De Amicis, professoressa di ginnasio, e pare che lo facessi cosà bene che si sarebbe divertita anche lei che era molto spiritosa, se no non l’avrei imitata.
Diciamo anche che non avevo piú di dieci anni, ma pare che fosse un’imitazione con qualche scivolata interpretativa, dato che conoscevo molto bene il soggetto, ma poca roba. Era già qualcosa, dato che c’era l’intuizione di un soggetto non comune. Un’imitazione, piú che altro mimica, l’avevo azzardata per la mia maestra di pianoforte, signorina Rina Melzani, che odorava di cipria sudata, sventolata con qualsiasi temperatura da un ventaglio. Lei aveva un personale rapporto con le stagioni. Il 21 marzo metteva un cappello di paglia anche se nevicava. Ho portato in seguito le mie mani, un po’ piccole per l’ottava, dal maestro Perlasca col quale ho chiuso con una lite furibonda.
Già , una lite. Dato che ho molto poco litigato nella mia vita, quelle poche me le ricordo. Mi irritava la scarsa passione del maestro. Il suo sguardo bisbetico sbirciava l’orologio e si velava di pace allo scadere dell’ora. Non ci piacevamo, nel modo piú assoluto. Ricordo con stupore con quale voluttà , se si può chiamare cosà il sentimento di una bambina, gli ho detto: «Da lei non ci vengo piú».
E liti analoghe con due maestri di arti assai inferiori, il maestro di tennis e il maestro di sci; olandese il primo, altoatesino il secondo. Ho litigato con entrambi ad armi pari, come due adulti.
Ho raramente rispettato l’insegnante. L’unica volta che la mamma è andata a parlare, come si usava, con un professore di ginnasio, si è sentita dire: «Ah, la Norsa, la me ciapa in gir». («Mi prende in giro»).
Solo piú tardi, verso i sedici-diciassette, quando con la mia amatissima amica Billa abbiamo cominciato a trovarci in testa e in bocca il linguaggio delle signore «bene» di Milano, l’imitazione ha iniziato a essere un termine improprio. È bene notare che Billa, io e Silvana (parlo delle mie piú singolari e grandi amiche) ci siamo attribuite in una foto che ci univa il titolo di All’ombra delle fanciulle in fiore, con chiara allusione al culto proustiano che ci serpeggiava nelle vene anche abbastanza prematuramente, ma volevamo essere giovinette colte. Le nostre «signore bene» imitate all’improvviso per un pubblico di amici, anche quello sostanzialmente «bene», erano diventate una specie di repertorio-ricordo un po’ disordinato, un po’ impreciso, un po’ legato a una storicità in via di estinzione.
Lunga pausa, una guerra non ci mette molto a disperdere fiori e giovinette. Ho ripescato fra i cocci della memoria il mio repertorio piú che mai insensato.
«Il repertorio, – mi sono detta non precisamente una mattina, – non ha una protagonista». La Signorina Snob è il primo personaggio che è entrato nella mia già carriera, vestito di parole scritte.
Lo snobismo è un atteggiamento troppo importante e troppo antico della società per essere preso alla leggera. Il suo linguaggio è per metà inventato e per metà letterario. Mi sono subito pentita di averla chiamata Signorina Snob. Banale. Poi, signorina, una snob, roba da mezzecalze. È chiaro, gliel’hanno dato alla radio. Ma come dare un nome ritrovabile nel calendario a un personaggio cosà emblematico, sempre perfetto nella sua maschera e sempre a disagio, sempre imbecille e sempre acuto, sempre scattante sulle sue onde trionfanti e sempre infelice senza saperlo? Mi sono subito preoccupata d’inquadrarla letterariamente nella sua assurdità e l’assurdo, come sappiamo, è come dire: chi può capire, capisca. Ho scritto cosà un primo testo che, mentre lo scrivevo, lo dicevo. Un personaggio comico ha questo di buono, che nasce già adulto anche se chi lo scrive non è destinato a recitarlo.
La sua perfezione biografica corre piú rischi se chi lo recita non lo ha scritto. La mia Snob, riveduta, corretta, sperimentata e definitivamente applaudita, era un tipo umano ben definito. Quindi passibile di progredire nella sua vita letteraria quanto umana. È anche invecchiata, con naturale progresso una ragazza snob diventa fatalmente una signora snob, ma la sua follia perde parte della sua simpatia, s’indurisce, si cementa, le sue sciocchezze diventano dogmi, le sfumature vocali si adeguano naturalmente a quelle morali. E, come succede nella vita, viene anche la vecchiaia.
La vecchia snob è per natura cattiva per i privilegi che le sfuggono, troppe cose la annoiano, soprattutto i bambini e gli altri vecchi e soprattutto il constatare quante cose non si sono capite. La voce va naturalmente nel vago, la vecchia si distrae parlando e io, interpretandola sulla scena, fisso qualche cosa che non vedo o anche che non c’è. A questo punto io so che il personaggio mi appartiene e mi può offrire infiniti spunti. L’imitazione non c’entra piú perché sono io, anzi qualcuno che conosco piú di me, la guardo mentre dice le sue assurdità e, nonostante il raccapriccio, mi diverto. Forse prima di divertire noi stessi, ma soprattutto per essere fedeli a una disciplina interpretativa, ci siamo imposti fin dalla nascita del nostro teatro (i Gobbi per intenderci) il «non travestimento».
Volevamo che l’attore facesse apparire il personaggio come fa il prestigiatore con i suoi colombi e le sue carte.
E qui si era già formulata l’etica disciplinare, cioè la sintesi. Ma piú che una disciplina era un’esigenza profonda. Un personaggio che hai inventato cercando nei tuoi ricordi, nel quotidiano, nella cultura, non può dilungarsi compiacendosi di se stesso, né con i fronzoli dell’improvvisazione. Con questa scelta accurata e rigorosa della loro vita virtuale, mi sono assicurata la sopravvivenza nel tempo dei miei personaggi. Non è stato ugualmente facile prendere le misure a tutti i personaggi. Lo snobismo è un vizio secco, allusivo, pieno di abbandoni mentali. In breve, una snob non la fa mai lunga perché non ha tempo. Non lega con il suo prossimo, in genere. Sembra che l’ascolto altrui non le interessi. Come dice Carmen: «Io canto per me sola». E Dio sa se sono diverse, lei e quella ragazza spagnola. È la passione che fa la differenza. Una ce l’ha, l’altra la ignora. Se se la trovasse nelle mani, se le laverebbe.
Il secondo personaggio del mio repertorio ha un nome proprio, Cesira, professione manicure, milanese. Questi particolari anagrafici mi hanno fatto comodo teatralmente, sotto il profilo psicologico e razionale sarebbero perfettamente inutili. E, a proposito di quanto ho detto in fatto di sintesi, purtroppo è una che bisogna tenerle la lingua a posto. È quello che succede a quelle donne che hanno dei sentimenti in testa al posto dei pensieri. Il fatto è che i personaggi al limite fra il popolare e il piccolo borghese si esprimono preferibilmente per antefatti o autoanalisi della psiche, come la chiamano. Esempio: «Siccome là ci andavo sempre con una mia zia, che sarebbe come dire con la figlia del padrone, c’hai presente una alta, magra, anche troppo, anche se io non sono una che la gente la misura con il metro né di fuori né di dentro, ecco, cosà i pantaloni li ho presi bianchi e pace».
Queste divagazioni potrebbero andare avanti all’infinito, come spesso avviene nella realtà , ma non è possibile in teatro, anche se sono spesso comiche e qualche volta a sforbiciarle mi piangeva il cuore, usando proprio un’espressione da Cesira.
Avevo trovato all’interno della mia bocca un assestamento che la rendeva viva, anche nella traduzione francese. La partecipazione fisica al tuo personaggio è certamente un momento entusiasmante. Della Cesira nei suoi pezzi teatrali non ho mai trovato un finale letterariamente clamoroso. Il suo ostinato e dolente ottimismo, che è la sua caratteristica umana, se cosà possiamo dire, non mi permette di chiudere su lei, cosa che nei pezzi detti sketch è definitiva. Sono conclusioni assolutamente personali a cui si arriva con i propri personaggi, o figli.
È certo che il terzo polo della mia collezione è la signora Cecioni, per semplificare perché è nata prima di questo connotato anagrafico. Qui il discorso è un altro e si sfiora la rarefazione della maschera. I primi due testi di questa romana, uno come sarta, l’altro come maritata Cecioni, mi sono venuti cosà bene e nei limiti perfetti come capita proprio raramente, che avrei potuto anche lasciarli là come due quadri. Ma questa signora si è rivelata subito un personaggio invasivo, come si dice in termini clinici, con l’aggressività dei pigri che parlano da una poltrona, con la costante ironia verso il prossimo, soprattutto se familiare, che non so se viene da me o dalla Roma popolare. La signora s’è fatta largo nel mio repertorio con autonomia. Parla anche se non è interpellata e quando parla è sempre protagonista. Niente è piú riposante per un autore di un personaggio del genere. Autonomo, anche troppo. Si è fatto subito imitare da tutti. Che indecenza!
Avevo cosà costruito, nei miei primi quarant’anni, i tre pilastri per reggere il mio teatro, perché non ci vuol molto per trasformare dei personaggi emblematici cosà precisi in personaggi di commedia. Il mio è un teatro di parola, forse nientedimeno attuale, ogni volta che sembra invecchiato ringiovanisce, dopo tante innovazioni ritorna sempre a galla. È il genere che le avanguardie temono. Tenendolo però in poco conto. Sarebbe l’ideale se qualcuno mi telefonasse ora. Invece che quando mangio.
Un’osservazione: non si recita senza tecnica. Tutto sta a capire che cos’è. Mi sono spesso dichiarata, con presunzione magari, non dico addirittura contro ma almeno scettica verso le scuole di recitazione. Quanti giovani talenti ci possono essere in una classe? Uno, due, paganti trenta. E questo è un primo argomento. E tu cosa insegni, visto che non hai saputo insegnare a te stesso? E due. Il mestiere dell’attore è un mestiere inafferrabile. Le scuole piú serie hanno dei metodi quasi psichiatrici, non ci credo. Quelle tradizionali ti consegnano dei mezzi, la voce, la postura, le pronunce, con che autobus ci si arriva. Perché non arrivarci da soli? Nessuno ti può insegnare, finché non l’hai misurato con il tuo carattere, cos’è quello spazio che si chiama palcoscenico.
Quando cominci a recitare e hai, o credi di avere, tutte le emozioni e i sentimenti del personaggio che vuoi fare, ti colpisce come una freccia avvelenata che non ne hai il corpo. Quel corpo virtuale non è il tuo. L’ho visto in tanti giovani anche freschi di accademia come l’ho provato io, allieva di me stessa: il palcoscenico e il nostro corpo assistono beffardi alla nostra foga di interpreti. Eppure loro hanno avuto (io no) lezioni di danza, di mimica, di yoga, di meditazione. Il palcoscenico si rivela in tutta la sua verità quando c’è il pubblico, e t’insidia nella parte piú fragile, il corpo. Anche immobile, ne senti la falsità . Il palcoscenico è un vecchio dispettoso, la sua amicizia la fa pesare. Diventerà poi nel tempo un amico meraviglioso. L’unica vera casa di un vero attore.
A un certo punto non ho avuto piú paura di essere banale, cosà tutte le domande che non mi sono fatta agli inizi della mia carriera me le faccio adesso. Perché parlo da sola (altra conquista: sono sola), perché ho materiale, perché in fondo non è vero che tirare le somme è un brutto segno. Avere una vita a disposizione è anche un divertimento. Quando facevo quella ragazza ebrea che si chiamava Lea Lebowitz (che era innamorata del rabbino, mi pare), e non era ancora il ’50, credo il ’47, praticamente era il mio debutto, ma non se n’è accorto nessuno, non è stata neanche per me una data memorabile; lo sto ricordando giusto adesso e no, né un brindisi né un mazzo di fiori, solo vorrei ricordare il rapporto con il palcoscenico. Mi pare che fosse previsto che stessi molto ferma, e poi che dessi la mano alla nutrice, che era un’attrice molto esperta. E un paio d’anni dopo, sÃ, col Teatro dei Gobbi, me lo ricordo benissimo, Luciano Mondolfo1 (adorato) era in platea che mi diceva: «Non muovere troppo le mani… Non preoccuparti dell’uscita, ti faccio il buio». Non mi sentivo ancora in casa mia. Solo piú tardi, molto piú tardi, forse il secondo anno di Parigi, o alla Biennale di Venezia, oppure qui a Roma, sÃ, al Valle, erano le sei e mezza, entro in scena per controllare se c’è una cosa, mi siedo di fronte al sipario chiuso, e sento la voce del direttore di scena.
«Sei già l� Cosa fai?»
«Mi riposo un po’».
«Potevi riposarti in camerino, o meglio a casa».
«Appunto».
A casa. Se non fosse cosÃ, per questo patto arcano fra un pavimento di legno e una persona, sarebbe un mestiere micidiale. I tempi dell’attesa, il dubbio che insidia la scelta che sembrava sicura, degli sprazzi di sicurezze, certe stanchezze disarmanti alternate a giornate veramente felici («Sta venendo bene, andiamo a mangiare»), fino a quel momento in quinta in cui non c’è piú scampo. Ma là che ti aspetta c’è lui, il palcoscenico, la tua casa. Vai e lavora, corre per te la sera. È risaputo che il corpo sconfitto nelle sue infinite fisime entra nel piú imprevedibile benessere quando è in scena. Gli attori che saltano le recite per eventuali malori lo decidono in albergo; non vogliono essere disturbati per qualche ragione contrattuale. È pur vero che qualcuno c’è morto in scena, ma sono fatti storici. I posteri come sempre un po’ retorici dicono che è una bella morte. Se si considera lo strazio e la noia di quando non si lavora forse è vero. Non so se viviamo nella falsità di una scenografia o nella realtà unica dell’illusione, ma forse molti scambierebbero il loro destino con il nostro.
Guardateli, stanno provando una commedia, magari anche mediocre, ma in quel momento si ritengono a un crocevia storico.
«Quella battuta io la vedo cosû.
«Ma cara, non hai capito, è la chiave del personaggio».
«Ma per favore».
«Parliamone».
Beati loro; fuori ci sono altri problemi.
E io faccio parte di questo mondo illusorio.
Ma sono stata fedele al mio lavoro? Sostanzialmente sÃ. Perché la fedeltà non è una mia virtú. È una mia necessità .
Il motivo è molto semplice, è la sostanza di una scelta. Non sono mai stata scelta, né da un uomo, né da un amico, né da un mobile. C’è in genere la reciprocità , anzi sempre, ma la scelta è tua.
Il proprio lavoro è quel meraviglioso individuo (dai piúodiato) che ci accompagna. È stato per me generoso, ma pretende. È giusto. Vedermi piegata in due a insaponare un uomo distratto gli dava certamente ai nervi.
È evidente che mi rappresento anche lui in fattezze umane, è la tendenza delle nostre limitate capacità d’astrazione. Anche Dio ha un volto e forse la barba.
Il lavoro pretende forse la fedeltà piú difficile. Lo vedo sottolineare con un pallido sorriso certe mie fatiche che si aspettavano di piú, ma poi esplode inaspettatamente in clamorosi tripudi che tranquillizzan...